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La politica della ricerca in Usa e in Europa

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La copertina che il Time, alla fine dello scorso anno, ha dedicato a Fabiola Gianotti è certamente un riconoscimento alla scienza di base o, come si dice oggi, curiosity-driven. La ricerca che non ha altro obiettivo immediato che soddisfare la curiosità e aumentare la conoscenza sui fenomeni della natura. Proprio il tipo di  ricerca che si svolge al CERN di Ginevra, dove Fabiola Gianotti dirige un grande esperimento presso il Large Hadron Collider. Che è, sia detto per inciso, la più grande macchina che l’uomo abbia mai costruito con prestazioni così spinte da renderla prototipo di diverse tecnologie di punta. Che prima o poi troveranno un’applicazione nella vita quotidiana di noi tutti. Proprio come è successo con il World Wide Web, messo a punto venti anni fa al CERN per facilitare la comunicazione interna alla comunità dei fisici delle alte energie e che in breve è diventato il sistema su cui si regge la rete globale dei computer (e una parte rilevante dell’economia mondiale). La scienza di base, dunque, evoca e produce innovazione tecnologica. 

Il motore dell’innovazione

Nelle scorse settimane il presidente degli Stati Uniti, Barack H. Obama, ha ricordato come il suo paese abbia investito 3,8 miliardi di dollari nel “progetto genoma”: il sequenziamento, base per base, del Dna dell’uomo e di altre specie. Un programma di ricerca progettato e  portato avanti grazie anche all’iniziativa di Renato Dulbecco. Ebbene, le ricadute per l’economia americana di questo progetto di biologia di base erano imprevedibili apriori, ma oggi ammontano, secondo il capo dell’Amministrazione degli Usa, a 800 miliardi di dollari. Ogni cent investito nel “progetto genoma” ne avrebbe generato 210.
Nessun dubbio, dunque, che la ricerca di base o curiosity-driven abbia non solo un valore in sé (inestimabile), ma anche un tangibile valore economico. Se vogliamo usare una metafora grossolana, potremmo dire che la ricerca di base è il motore dell’innovazione e di quell’economia fondata sulla conoscenza che ormai rappresenta una quota rilevante (forse superiore al 50%) dell’intera economia mondiale. Il valore economico della ricerca di base è, come abbiamo detto, imprevedibile apriori. Ma è quantificabile aposteriori. Non sempre questa valutazione viene fatta. Non con sistematicità, almeno. Per questo Obama ha creato una commissione di esperti che risponda alla domanda: qual è stata precisamente la ricaduta degli investimenti in ricerca di base sull’economia americana e mondiale?

In Europa non manca un’analoga consapevolezza del ruolo della ricerca scientifica. La creazione e lo sviluppo dell’European Research Council né è una chiara dimostrazione.
Eppure, di qua e di là dell’Atlantico, crescono le voci critiche – alcune allarmate – sulla (vera o presunta) deriva pragmatista che la politica della ricerca sta (starebbe) subendo tanto a Washington quanto a Bruxelles. Sotto accusa sono, rispettivamente, l’impulso dato negli Stati Uniti a progetti come la “medicina traslazionale” o la “mappatura del cervello” e in Europa a Horizon 2020, il programma quadro che guiderà e finanzierà la ricerca e l’innovazione dell’Unione tra il 2014 e il 2020. 

La proposta di budget per gli investimenti in ricerca scientifica relativi al 2014 che Barack Obama nelle settimane scorse ha proposto al Congresso rifletterebbe questa deriva. Non solo perché i 143 miliardi di dollari previsti dalla Casa Bianca per il 2014 rappresentano un misero 1% in più rispetto all’anno 2012, ma soprattutto perché, secondo la rivista Nature, rappresenta un’attitudine emergente nell’Amministrazione federale: «la scienza ha bisogno di essere utile per qualcosa, in particolare deve creare lavoro e curare le malattie».
Un’attitudine presente sempre più nell’opinione pubblica americana. Che, in tempo di crisi, vuole che gli investimenti con i soldi del contribuante producano benefici immediati e tangibili. L’attitudine che ha trovato un’espressione inusitata nel Congresso degli Stati Uniti, dove molti deputati e senatori, non solo repubblicani, vanno ponendo, piuttosto seccamente, domande del tipo: «Diamo 30 miliardi di dollari ogni anno al National Institute of Health (NIH). Dove sono le nostre cure? Dove sono i nostri trattamenti?».

Derive pragmatiste?

Insomma, nel Congresso sembra aleggiare un spirito pragmatista – voglio una ricerca che produca risultati immediati – diverso da quello che, a partire dal progetto di Vannevar Bush del 1945, ha animato la politica della ricerca degli Stati Uniti: occorre puntare sulla ricerca di base che non ha prevedibili ricadute immediate,  perché senza quel motore è tutto il sistema di innovazione che si ferma.

Questo spirito pragmatista ha, gioco forza, fatto breccia nell’Amministrazione di Obama, che non ha una maggioranza al Congresso. E, infatti, nella proposta di budget del Presidente il maggior incremento di spesa va a favore del National Center for Advancing Translational Sciences (666 milioni di dollari, + 16% rispetto al 2012), l’iniziativa che si propone l’applicazione la più immediata delle ricerche in ambito biomedico. Una quota parte di questi soldi, 40 milioni, andranno al Cures Acceleration Network che si propone lo sviluppo di quelle cure di cui c’è maggiore bisogno e che le imprese private non riescono a portare avanti.
Ma l’approccio pragmatista, secondo molti critici, non riguarda solo la medicina. Anche nel progetto di “mappatura del cervello”, che rientra nell’ambito della ricerca fondamentale, molte sono le sottolineature per le ricadute immediate in termini di cura per le malattie cerebrali. O, ancora, molti fanno notare che Obama propone un miliardo di investimenti a favore del National Institute of Standards and Technology di Gaithersburg, nel Maryland, affinché sviluppi la stampante in 3D (tre dimensioni), considerata una tecnologia emergente.   

In questi e altri esempi molti ravvedono una sorta di tradimento della saggia tradizione americana, che, come indicato da Vannevar Bush, prevede una netta separazione tra l’investimento pubblico finalizzato esclusivamente alla ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico, di esclusiva competenza delle imprese. Il governo si è messo a fare il lavoro delle industrie private, dicono i critici.

La situazione europea: Horizon 2020

Non molto diversamente vanno le cose in Europa. A Bruxelles stanno ancora lavorando al programma Horizon 2020, che finanzierà la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica per sette anni, a partire dal 2014. Si discute della quantità della spesa: la Commissione vorrebbe che ammontasse a 80 miliardi di euro, alcuni governi non vogliono concederne più di 60. Ma si discute anche e soprattutto della qualità. A chi andranno e per quali finalità tutti questi soldi?

I critici fanno notare anche in questo caso una certa deriva pragmatista. Per la prima volta vengono unificati gli investimenti dell’Unione in ricerca e innovazione. E, come recita il rapporto Horizon 2020 Italia, pubblicato qualche settimana fa dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca:«Con Horizon 2020, viene per la prima volta ricondotto ad un quadro unico l’insieme degli investimenti dell’UE per la ricerca e l’innovazione. Il Programma dedica una forte attenzione alla conversione delle nuove conoscenze in prodotti, processi e servizi innovativi, che, al tempo stesso, offrano opportunità al sistema produttivo e contribuiscano al miglioramento della vita dei cittadini».
Tradotto in soldoni: su 80 miliardi complessivi, 25 andranno alla Excellent Science, la ricerca di frontiera, con un incremento delle risorse per lo European Research Council; 18 miliardi andranno alla Industrial Leadership, per progetti di sviluppo tecnologico delle imprese; e, infine, la quota maggiore, 32 miliardi, andrà alle Societal Challenges, ovvero al tentativo di rispondere alle grandi sfide globali che sono davanti all’Europa e al mondo.

La distribuzione dei fondi e la “filosofia” del programma, secondo molti critici,  fanno di Horizon 2020 un elemento base non tanto della costruzione dello “Spazio europeo della ricerca” di cui parlava Antonio Ruberti, ma di una “Unione dell’innovazione”, che ha come obiettivo quello di rafforzare la competitività del Sistema Europa.

Dunque anche l’Europa starebbe cedendo alla sirena pragmatista.

In realtà c’è da considerare che gli investimenti di Bruxelles rappresentano appena il 5% della spesa europea in ricerca e sviluppo. E storicamente sono stati indirizzati verso la ricerca applicata e lo sviluppo tecnologico, più che verso la ricerca di base. Il 95% degli investimenti dei paesi europei vengono decisi e gestiti a livello nazionale. E gli stati del Vecchio Continente hanno sempre avuto remore a cedere sovranità in termini di ricerca fondamentale.
Il tema del “neopragmatismo” in Europa richiederebbe un’analisi più articolata. Tuttavia meriterebbe anche un maggiore discussione pubblica. Perché se esso è reale, se è espressione di una tendenza di fondo, dovrebbe suscitare qualche allarme. Perché se tutti si interessano della carrozzeria e trascurano il motore, la macchina della scienza e dell’innovazione rischia di fermarsi.


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