La sentenza dell’Aquila
che ha condannato, nel primo grado di giudizio, i membri della “Commissione
Grandi Rischi” (Commissione Nazionale per la Previsione e Prevenzione dei Grandi
Rischi) che hanno partecipato alla riunione del 31 marzo 2009 ha fatto
discutere la comunità scientifica e l’opinione pubblica di tutto il mondo.
Forse se ne è discusso
poco in Italia. Anzi, secondo gli organizzatori della convegno «L’Aquila:
il racconto oltre la sentenza» – che si tiene oggi, 30 maggio, dalle ore 9 alle
ore 17 a cura del centro MACSIS presso l’Aula de Lillo ( Edificio U7, II piano)
dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca in via Bicocca degli Arcimboldi,
8 – la narrazione “a caldo” che della vicenda aquilana ne hanno dato i media è
stato intriso di mistificazioni. Occorre ora una discussione “a freddo”, con
riflessioni che vadano oltre il merito stesso della sentenza e si pongano il
problema della creazione, in Italia, di una “cultura del rischio”.
Tra i partecipanti al convegno del
MACSIS c’è Alessandro Amato, direttore del
Centro Nazionale Terremoti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
(INGV). Gli abbiamo posto alcune domande:
Cosa ci ha insegnato la vicenda dell'Aquila?
Non vorrei più trovarmi in un’aula di tribunale dalla parte dei colpevoli, contro la popolazione colpita dalle drammatiche conseguenze di un terremoto. Perché anche noi ricercatori siamo cittadini di questo paese e alla sua crescita vorremmo contribuire facendo la nostra parte, cioè lavorando per la conoscenza scientifica del territorio e informando popolazione e autorità sui rischi naturali. Questo fece Giulio Selvaggi quando andò, non convocato, alla riunione della Grandi Rischi. Senza porsi neanche per un attimo il problema delle conseguenze personali della sua partecipazione a quella riunione, come facciamo abitualmente noi ricercatori in tante occasioni. E sono sicuro che lo rifarebbe.
Abbiamo imparato che dobbiamo impegnarci maggiormente per promuovere la cultura del rischio collaborando con le istituzioni. Da anni abbiamo molte iniziative in questo senso (si veda ad esempio “Terremoto? Io Non Rischio”), ma dobbiamo lavorare affinché la politica diventi più sensibile nei confronti di questi temi. Abbiamo anche imparato che distinguere i ruoli è importante, nell’interesse e per la protezione della collettività.
Il terremoto dell’Aquila, come quello dell’Emilia dello scorso anno, ha mostrato, ancora una volta, a tutti gli italiani quanto sia vulnerabile il nostro territorio e quanto sarebbe importante mettere in sicurezza gli edifici. Sappiamo che terremoti anche molto più forti sono accaduti in passato e accadranno in futuro: dobbiamo prepararci. Un grande programma di riduzione della vulnerabilità dell’edilizia pubblica e privata sarebbe uno stimolo incredibile per creare lavoro e ci porterebbe nell’arco di vent’anni a convivere tranquillamente col rischio dei terremoti.
Come giudica la narrazione della vicenda aquilana che è stata fatta dalla magistratura (dal pubblico ministero e dalla corte giudicante)? E cosa pensa della narrazione che ne hanno fatto i media? Ci sono stati difetti di comunicazione nella vicenda e, se sì, da parte di chi?
Si è parlato, impropriamente, di processo alla Scienza. La questione è mal posta. Nessuno nel ventunesimo secolo si sognerebbe di dire la Scienza va processata. A L’Aquila si è però processato il metodo scientifico: si sono portati come assolute prove del delitto articoli di ricerca e risultati che per loro natura sono incerti, soggetti a revisioni continue, come discende dal metodo galileiano. In questo senso sì, lo possiamo pensare come un processo a Galileo.
Nel corso del processo, i dati e le ricerche sono stati usati in maniera errata e si è mascherata, dietro ad articolati giri di parole, l’idea per cui quel terremoto avrebbe dovuto essere previsto.
Non solo. Proprio parlando di comunicazione, questa sentenza mostra una grave pecca. Perché il punto critico di come si sia, eventualmente, creato un messaggio tranquillizzante per la popolazione non è stato affrontato. Nessun messaggio di quel tipo è potuto uscire dalla riunione della Commissione Grandi Rischi coinvolta nel processo, semplicemente perché il verbale è stato reso noto solo dopo il terremoto e non è mai stato nemmeno rilasciato un comunicato stampa. Inoltre, della famosa conferenza stampa (alla quale i sismologi non furono chiamati a partecipare) non c’è nemmeno una registrazione. Le notizie che sono uscite da quella riunione hanno seguito percorsi propri e non prestabiliti, per mano di autorità pubbliche e giornalisti. Tutti errori che di certo non hanno coinvolto soltanto gli imputati e di cui non si è mai ricostruita la progressione. Anche per questo è aberrante la narrazione a posteriori secondo la quale il messaggio è venuto, tutto e soltanto, dai sette condannati, per di più senza distinzione di ruoli e di responsabilità.
Pensa che la vicenda possa essere oggetto di dibattito pubblico? Pensa che il dibattito pubblico che ne è stato fatto finora sia stato all'altezza?
Deve essere oggetto di dibattito pubblico! Purtroppo ho visto che i dibattiti pubblici si sono cristallizzati spesso su posizioni colpevoliste e non costruttive e che a volte si è fatta confusione per questioni di invidie professionali, rancori personali, vendette politiche. Tutto questo sulla pelle dei cittadini aquilani. Intanto nessuno si è ricordato che le conoscenze sulla pericolosità sismica erano da anni legge dello Stato e che quelle sulla vulnerabilità degli edifici erano a disposizione delle amministrazioni locali dal lontano 1989. Utilizzarle per la protezione del territorio sarebbe stato compito della politica e non degli scienziati.
Pensa che una buona comunicazione tra comunità scientifica, autorità di protezione civile e cittadini possa migliorare la prevenzione degli effetti di un terremoto?
Certamente sì. Gli istituti di ricerca hanno il dovere di fornire ai cittadini una corretta e costante informazione scientifica. E quelli che, come l’INGV, si occupano di temi con un forte impatto sulla società hanno anche un compito educativo, per esempio sulla mitigazione dei rischi da terremoto o da eruzione vulcanica.
Noi ricercatori ci stiamo impegnando molto su questo, anche con strumenti nuovi come i social network (siamo stati premiati lo scorso anno ai Macchianera Award come canale twitter più utile) e con un blog che proprio in questi giorni compie un anno, e che nei giorni del terremoto dell’Emilia raggiungeva i 900.000 contatti al giorno.
Tuttavia, se parliamo di situazioni di emergenza e di questioni di protezione civile, bisogna riconoscere che i canali e le procedure della comunicazione richiedono di essere continuamente aggiornati, adattati ai contesti, migliorati. Questo però non vale soltanto nei confronti dei cittadini, quanto soprattutto in rapporto alle istituzioni: sono sindaci, presidenti di Regione e assessori che utilizzano le nostre informazioni. E, come lo fanno (o lo dovrebbero fare) in situazioni di pace con l’adeguamento dell’edilizia, sono i primi a dover intervenire nelle crisi. Basti pensare a quanto è successo lo scorso gennaio in Garfagnana quando la nostra informazione originaria ha seguito scorciatoie istituzionali che hanno portato all’evacuazione, inutile, di un intero territorio.