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Anche in Italia le calamità vanno assicurate

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Serve anche in Italia un sistema di copertura assicurativa diffusa contro i danni provocati dalle calamità naturali. Come nel resto d’Europa. Questo il tema al centro del dibattito nel convegno Il ruolo delle assicurazioni pubbliche nelle politiche di sviluppo solidale organizzato dalla CONSAP (Concessionaria per i Servizi Pubblici Assicurativi) lo scorso 5 dicembre 2012 presso la propria sede romana, in occasione del 40° anniversario del Fondo di garanzia per le vittime della strada. In particolare lo studio Le assicurazioni pubbliche nell’attuale crisi economica: sussidiarietà e solidarietà, realizzato da ISIMM Ricerche e presentato nel corso del convegno, ha approfondito il ruolo economico e giuridico che CONSAP potrà assumere per affiancare alle dinamiche di mercato l’azione propria dello Stato.

I fatti sono noti: oltre un terzo della popolazione italiana risiede in aree sismiche e quasi metà dei comuni italiani presentano seri pericoli di frane e alluvioni. I costi umani di questa situazione sono altissimi. Secondo l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del CNR negli ultimi 60 anni le catastrofi naturali e ambientali hanno causato più di 9.000 vittime, tra morti e feriti, e lasciato senza tetto più di 700.000 persone. Molto rilevanti anche i risvolti economici. Lo studio pubblicato nel 2011 dall’ANIA (Associazione Nazionale delle Imprese Assicuratrici) e dalla CONSAP stima in 2,8 miliardi di euro il danno medio annuo al solo patrimonio edilizio. La stima sale a più di 4 miliardi se si considerano le conseguenze sull’agricoltura, la produzione industriale, il turismo, il patrimonio artistico e culturale.

La risposta dello Stato è stata finora improntata a una logica emergenziale. A seguito di ogni calamità un provvedimento governativo straordinario a favore delle popolazioni colpite e fiumi di parole sulla necessità della prevenzione. Secondo i dati del Ministero dell’Ambiente, la spesa media dello Stato per la riparazione dei danni è di circa 1,2 miliardi di euro all’anno, mentre quella per la messa in sicurezza del territorio non supera i 400 milioni di euro (meno di un decimo dei danni effettivi).

Le ristrettezze finanziarie impongono una svolta. Come ha sottolineato Fabio Cerchiai, presidente della Federazione Banche Assicurazioni e Finanza, “oggi lo stato aumenta le imposte per far fronte a terremoti e alluvioni, mentre una adeguata copertura assicurativa dei danni da calamità consentirebbe di dedicare i soldi delle tasse alla prevenzione”. Questa è la strada che gli altri paesi europei hanno già intrapreso da anni, seppur con diversi modelli. Francia, Belgio e Spagna hanno optato per un regime assicurativo semi-obbligatorio che prevede l’estensione automatica agli eventi calamitosi delle polizze anti-incendio sugli immobili, con un fondo pubblico nazionale attraverso il quale lo stato funge da riassicuratore di ultima istanza. In Germania e Regno Unito la copertura assicurativa contro le calamità naturali è invece su base volontaria, ma comunque ampiamente diffusa, e la sua gestione è affidata alle compagnie private, mentre lo Stato si limita a un ruolo di incentivazione e regolazione.

D’altra parte, che lo Stato non possa continuare a far fronte da solo ai rischi connessi alle calamità naturali è emerso con chiarezza anche dall’incontro Calamità idrogeologiche: aspetti economici che si è tenuto lo scorso 22 marzo 2013 si è tenuto presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, in occasione della XIII Giornata Mondiale dell’Acqua. “Lo sviluppo economico si traduce in una crescita dell’esposizione ai rischi più rapida della riduzione di vulnerabilità e mortalità indotte dal simultaneo miglioramento della capacità di gestione dei rischi, – afferma Giovanni Seminara, accademico linceo – è un fatto ormai riconosciuto che nei Paesi a reddito elevato il rischio di danni economici aumenta più rapidamente del PIL pro-capite. I finanziamenti pubblici per il ripristino post-evento e per la mitigazione del rischio idrogeologico, sono perciò cresciuti in modo rilevante negli ultimi anni, ponendo al Paese significativi problemi di sostenibilità economica.”

Il modello franco-spagnolo sembra adattarsi particolarmente alla situazione italiana, in cui il patrimonio immobiliare rappresenta una parte considerevole delle ricchezze delle famiglie. Un analogo regime assicurativo semi-obbligatorio contro le calamità trarrebbe vigore dal fatto che le polizze anti-incendio già coprono più del 40% degli immobili, e consentirebbe di attuare un principio di solidarietà volto a compensare la notevole differenziazione dell’esposizione al rischio caratteristica del nostro territorio. Inoltre si potrebbe trasferire al caso degli eventi calamitosi la lunga esperienza del Fondo di garanzia per le vittime della strada.

Ma affinché il sistema sia sostenibile accanto alla copertura assicurativa è necessaria una energica iniziativa legislativa di prevenzione per limitare i danni. Come aveva osservato il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco dopo il terremoto dell’Emilia Romagna, “la frequenza, l’intensità e gli effetti di questi eventi non dipendono solo dalla morfologia del nostro territorio ma anche dalle scelte dell’uomo”. Più dell’80% dei comuni è interessato da almeno un’area a rischio estremamente alto, dove non dovrebbe essere consentito costruire né ricostruire. Purtroppo, nonostante i vincoli di legge, in queste aree si continua a costruire e ricostruire.

Anita Eusebi

Il cambiamento climatico, un danno da ripagare 

di Mara Magistroni

Di ritorno dal Qatar, l'allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini dichiarava: “invece di fare un passo avanti, si è fatto un passo indietro, non si è riusciti a trovare un accordo in grado di dare concretezza e continuità agli impegni presi con il Protocollo di Kyoto”. Questo il suo commento lo scorso dicembre a conclusione del summit Doha2012 (COP18) sui cambiamenti climatici. L’unico spiraglio di speranza offerto dal documento è la promessa di includere nel trattato del 2015 meccanismi di compensazione per le perdite economiche e per i danni ambientali e sociali, ormai messi in conto come conseguenze inevitabili dei cambiamenti climatici. Non si tratta di un’idea nuova, ma è la prima volta che il principio del “loss and damage” viene considerato a pieno titolo come uno dei capitoli dei futuri accordi. Il riconoscimento e la gestione internazionale delle perdite e dei danni sono da tempo richiesti dai Paesi più esposti agli effetti diretti dei cambiamenti climatici, come quelli aderenti all’Alleanza degli Stati delle Piccole Isole a rischio di sommersione. A Doha si è proposto di estendere il discorso anche agli effetti indiretti legati alla maggiore probabilità di eventi estremi. Restano comunque tutti da affrontare i problemi tecnico-giuridici nel prevedere la tutela di interessi collettivi anche al di là delle frontiere nazionali, e nel valutare le responsabilità e quindi il contributo dovuto dai singoli stati in relazione a fenomeni di carattere probabilistico (incerti). La politica del “loss and damage” può aprire la strada a una prospettiva di maggiore equità nell’affrontare i cambiamenti climatici, con un’implicita ammissione di responsabilità da parte dei Paesi più ricchi. Potrebbe però anche presentare risvolti negativi, soprattutto se non accompagnata da un energico impegno nella prevenzione. O ridursi a una mera monetizzazione dei danni ambientali e sociali, una sorta di elemosina, più che un risarcimento per i danni provocati. Un atteggiamento che purtroppo sembra accomunare molti tra i partecipanti, e in modo trasversale: i Paesi ricchi, troppo preoccupati della propria crisi economica e di non frapporre ostacoli alla ripresa, gli Stati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), che non intendono rallentare la frenetica corsa verso lo sviluppo, i Paesi poveri, schiacciati tra la necessità di sopravvivere e gli interessi delle oligarchie che li governano.

 

James Hansen, profeta del clima

di Luisa Alessio 

«Cosa sapevo di così importante io, uno scienziato del Midwest, tanto da farmi arrestare mentre protestavo di fronte alla Casa Bianca? E cosa avreste fatto voi se aveste saputo quello che so io? Immaginate un asteroide gigante in traiettoria di collisione diretta con la Terra: questa è la situazione che dovremmo affrontare se nei prossimi anni le emissioni di CO2 resteranno ai livelli di oggi. Il nostro pianeta rischia una catastrofe globale». Non ci sono mezzi termini nelle parole che James Hansen usa per lanciare l'allarme sulla situazione climatica, toni forti per i quali è stato più volte accusato di catastrofismo. Uno come lui, d'altra parte, certe dichiarazioni se le può anche permettere: è infatti tra i più importanti climatologi al mondo, scienziato da oltre quarant'anni, già direttore dell'Istituto Goddard per gli Studi Spaziali della Nasa e relatore per la Task Force statunitense sui cambiamenti climatici. Negli ultimi anni Hansen è diventato famoso più per il suo attivismo che per le sue ricerche in campo climatico, quello del 13 febbraio era almeno il quarto arresto per lo scienziato del clima, ma le sue intuizioni sono ampiamente riconosciute dalla comunità scientifica. La sua battaglia per salvare il pianeta dalle catastrofi ambientali ha iniziato a fare il giro del mondo quando, nel giugno del 2009, venne arrestato per aver preso parte ad una manifestazione per la chiusura di una miniera di carbone in Virginia. Il 3 aprile scorso, dopo 46 anni, ha lasciato la NASA per dedicarsi a tempo pieno alla lotta al riscaldamento globale. In tal modo potrà avere un ruolo più attivo nelle cause contro il governo federale degli Stati Uniti e contro l'utilizzo del petrolio delle sabbie bituminose canadesi. «È cambiato tutto quando sono nati i miei nipoti. Non potevo restare a guardare, il futuro delle prossime generazioni sarà fortemente minacciato se non interveniamo subito per stabilizzare il clima». E per i nipoti è cambiato anche il suo soprannome, da "padre del riscaldamento globale" a "nonno": oggi James Hansen ha 72 anni, occhi verdi e pochi capelli castani, una personalità originale con la mente dello scienziato, l'anima del divulgatore e il cuore dell'attivista. È cresciuto a Denison, una piccola cittadina dell'Iowa, e ha conseguito il dottorato di ricerca in fisica con uno studio sulle nubi di Venere, pianeta estremamente caldo a causa di una spessa atmosfera di anidride carbonica. Non è poi tanto strano che sia ben presto passato ai primi calcoli sull'effetto serra della Terra. È suo uno dei primi modelli climatici del mondo, il cosiddetto “modello zero”, con il quale ha previsto quasi tutte le modificazioni del clima da allora a oggi. In un articolo apparso su Science nel 1981 annunciava che il decennio successivo sarebbe stato più caldo di quello precedente, cosa che in effetti si è avverata, poi che gli anni novanta avrebbero battuto il record precedente e anche stavolta i fatti gli hanno dato ragione. Infine, già in quello studio del 1981 sosteneva che entro la fine del ventesimo secolo dalla normale variabilità del clima sarebbero emersi i primi segnali di un progressivo riscaldamento globale. E anche questo è successo davvero. Tutto sulla base di un modello matematico. Hansen si trovava all'inizio della sua carriera e ancora non credeva che il suo lavoro potesse essere utile al mondo: i dati parlavano chiaro ma i governi si occupavano d'altro. Deluso, si decise ad assumere un ruolo pubblico e a denunciare i pericoli del riscaldamento globale: presentò i risultati delle sue ricerche davanti al Congresso degli Stati Uniti nel 1988, iniziò a scrivere lettere di denuncia ai leader del mondo e riuscì perfino a portare il problema all'attenzione del presidente USA. Prima Bush padre nel 1989, poi Bush figlio nel 2005 e infine Obama con l'appello del 2008: era convinto che davanti a una realtà così preoccupante per l’umanità, alla fine le persone responsabili si sarebbero date da fare. Dopo trent'anni di vana attesa e di fronte a una situazione climatica sempre più vicina al punto di non ritorno, Hansen ha iniziato a rivolgersi non più alle amministrazioni pubbliche ma direttamente alla gente. Alcuni scienziati criticano Hansen per il suo attivismo ambientalista, poiché metterebbe in dubbio la sua obiettività, altri lo accusano di allarmismo, i governi ritengono troppo radicale la sua proposta di una tassa sulla produzione e vendita di gas, petrolio e carbone. Molti altri lo ammirano perché è sempre stato disposto a mettere a rischio la sua brillante carriera per difendere i risultati dei suoi studi. Non proprio un nonno qualunque, insomma, anche se c'è da sperare che i suoi modelli abbiano torto almeno nel prevedere l'aumento del livello dei mari di cinque metri per fine secolo. Un dato, questo, sul quale non c'è accordo fra gli studiosi. «Non è irrealistico, ma c'è ancora il tempo di agire ed evitare un peggioramento climatico. Dobbiamo eliminare subito l'uso del carbone e ridurre la CO2 in atmosfera. Solo così nell'arco di una ventina di anni potremmo mettere in sicurezza il pianeta».


Da Kyoto a oggi: la storia dei negoziati climatici dal protocollo di Kyoto (1997) alla conferenza di Doha (2012)

a cura di Elena Baldi
 

 

Kyoto - 11 dicembre 1997 (2005)

Il protocollo di Kyoto propone di ridurre le emissioni globali di alcuni gas che provocano l’effetto serra: anidride carbonica, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo. Entrato in vigore il 16 febbraio 2005, il protocollo si pone come obiettivo una riduzione del 5,2% delle emissioni dal 2008 al 2012.

Vengono proposte tre strategie: la riduzione delle emissioni all’interno di ciascuna nazione; l’aumento delle riserve di carbonio attraverso opere di riforestazione; la gestione delle emissioni attraverso un meccanismo flessibile, che consente di acquistare permessi di emissione di anidride carbonica da altri Paesi.

Hanno sottoscritto il protocollo di Kyoto ben 183 nazioni, responsabili del 55% delle emissioni globali di gas serra. Fra le adesioni mancate, spiccano gli Stati Uniti d’America.

Bali - 14 dicembre 2007

Il Bali action plan è un accordo basato su una serie di asserzioni, fra cui: una visione comune sugli obiettivi a lungo termine; la riduzione delle emissioni di gas serra per i paesi industriali e per quelli in via di sviluppo; la riduzione delle emissioni da deforestazione.

L’accordo è stato sottoscritto da 190 Paesi: questa volta, al contrario del protocollo di Kyoto, anche gli Stati Uniti hanno aderito.

È stato creato un gruppo di lavoro sugli impegni a lungo termine, l’Ad Hoc Working Group on Long Term Cooperative Action  (Awglca), che avrebbe concluso il suo operato giusto in tempo per la conferenza di Copenhagen nel 2009.

Copenhagen - 18 dicembre 2009

L’accordo di Copenhagen fissa un tetto per la crescita della temperatura media globale, che non dovrà superare i 2 °C entro fine secolo. Per raggiungere questo obiettivo fondamentale si dovranno ridurre le emissioni di tutti quei gas che provocano l’effetto serra.

Pur non essendo un accordo vincolante, prevede che i Paesi più sviluppati riducano del 20-30% le loro emissioni di gas serra entro il 2020. Per le nazioni meno avanzate, è prevista la facoltà di ridurre tali emissioni in misura minore, tenendo conto della loro disponibilità finanziaria.

I Paesi coinvolti nell’accordo sono responsabili di più dell’80 % delle emissioni globali di anidride carbonica.

Cancùn - 11 dicembre 2010

Gli accordi di Cancùn non prevedono impegni formali, ma riaccendono la discussione riguardo le soglie di riduzione dei gas che provocano l’effetto serra. Ribadiscono, infatti, la necessità di stabilire un obiettivo globale in termini di riduzione delle emissioni, in modo da contenere la crescita della temperatura media del nostro pianeta sotto i 2 °C.

Le misure per contenere le emissioni dei gas serra tengono conto delle responsabilità e delle capacità di ciascun nazione.

Con gli accordi di Cancùn, vengono anche creati diversi organismi che si occupano degli aspetti finanziari: per esempio, il Technology Executive Committee e il Climate Technology Center and Network incentivano lo sviluppo di tecnologie a basse emissioni.

Durban - 11 dicembre 2011

Con gli accordi di Durban, inizia la negoziazione per redigere un trattato globale legalmente vincolante, valido per tutti i paesi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: 194 Paesi hanno sottoscritto l’accordo. Entro il 2015 l’Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action (Adp) stilerà la bozza del trattato, che entrerà in vigore entro il 2020.

La scadenze del protocollo di Kyoto è stata prorogata dal 2012 al 2017 o al 2020.

A Durban, emerge la volontà di superare le principali diatribe fra paesi ricchi e paesi poveri, che aveva sempre influenzato gli accordi sulla riduzione dell’emissione dei gas serra.

Doha - 8 dicembre 2012

Il Doha Climate Gateway non segna significativi passi avanti rispetto ai negoziati precedenti.

Si decide di rimandare al 2020 la scadenza degli obiettivi del protocollo di Kyoto, che prevede la riduzione delle emissioni globali di gas che provocano l’effetto serra. Inoltre, si pone un limite al trasferimento dei crediti per le emissioni da uno Stato all’altro, che può indebolire il processo di riduzione delle emissioni.

Essendo usciti dal protocollo Giappone, Nuova Zelanda, Canada e Russia, il Doha Climate Gateway interessa solo i Paesi responsabili di circa il 15% delle emissioni globali, fra cui i più importanti sono Unione Europea, Australia, Norvegia e Svizzera. Il rimanente 85% delle emissioni, che include anche gli Stati Uniti e la Cina, sono regolamentate dagli accordi di Durban (2011): in quell’occasione, era stata avviata la stesura di un trattato globale legalmente vincolante, che verrà elaborato entro il 2015 e che dovrebbe entrare in vigore nel 2020.


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