Alcuni
mesi fa (17 settembre 2012), un articolo pubblicato dal quotidiano britannico The Telegraph e intitolato “Quanti
scienziati ci vogliano per fare una scoperta?” ha avviato un’interessante
discussione che continua tuttora. Il senso del ragionamento di Athene Donald
(1953), autrice dell’articolo e illustre professore di fisica sperimentale
presso l’Università di Cambridge, traspare dal titolo. Fin dalle prime righe,
Donald escludeva che oggigiorno sia possibile “fare” scienza da soli, anche per
i geni. Dei grandi del passato (Einstein, Galileo, Newton, Cartesio) ci viene
trasmessa un’immagine iconica ma Albert Einstein non aveva elaborato la celebre
equazione E= mc 2 in
solitudine, nel chiuso di una stanza e, con ogni probabilità, la scienza non ha
mai fatto progressi in quel modo. Se questo era vero per il passato, a maggior
ragione si può escludere che la scienza dei giorni nostri possa progredire per
opera dei singoli. A partire dal XX
secolo la celebrità non arride più a persone isolate perché le scoperte sono il
frutto di un lavoro di squadra, come avviene nel caso del LHC dove sono
coinvolte centinaia, se non migliaia di persone.
A seguire, Donald citava
alcuni casi a sostegno della sua idea. Cominciava con quello della doppia elica
del DNA e i contributi di un team interdisciplinare
composto da almeno quattro persone: Wilkins e Franklin (cristallografi), Crick
(biologo) e Watson (fisico). Proseguiva con il bosone di Higgs che, già a
partire dal nome, farebbe pensare a un singolo scopritore (Peter Higgs). Donald
ricordava che mezzo secolo fa c’erano diversi fisici teorici impegnati in
questi studi e che se era impossibile assegnare al bosone i nomi di tutti, non
si può negare che tutti abbiano seriamente contribuito alla scoperta.
A questo
punto però, oltre ai teorici, il merito va attribuito anche al team
interdisciplinare che costruì LHC. In conclusione, osservava ironicamente
Donald, c’erano tutti gli ingredienti per far venire un bel mal di testa al
Comitato del Nobel perché, come si sa, il premio va al massimo a tre individui.
Donald aggiungeva che era improbabile “un ritorno ai tempi dello scienziato gentleman che poteva studiare a suo
piacimento lavorando in solitudine” e che “il genio eroico dell’immaginazione
popolare va consegnato al luogo da cui proviene, ossia alla storia”.
Tra le
prime reazioni (25 settembre 2012) si registrava quella di Roger Highfield
(1958), PhD in chimica-fisica e direttore degli affari esterni del Science Museum Group. Highfield, già editor di New Scientist dal 2008 al
2011, scrive per lo stesso giornale dal 1986. Nel suo articolo intitolato “Perché
la scienza ha ancora bisogno di eroi” Highfield anticipava i contenuti di una
conferenza che avrebbe tenuto l’indomani alla Royal Society. Se la scienza deve
ancora motivare, impegnare e prosperare ha bisogno, secondo Highfield, oggi più
che mai, di eroi.
E’
un’idea fuori moda, specialmente adesso che i libri di storia tendono a
smantellare i miti. Highfield ricordava a tale proposito “The Fabulous Science” (2002) di John Waller, un libro che ha
dimostrato come i ritratti di molti grandi scienziati non siano che romantiche
invenzioni.
Si
tratta quindi di superare il racconto popolare delle scoperte scientifiche, spiegando
che le cose sono un po’ più complicate di quanto appaiono a prima vista.
Chiarito ciò, il parere di Highfield era opposto a quello della Donald. Secondo
lui sarebbe un disastro fornire una visione della scienza non motivata e
presentarla come una marcia incessante di formiche per cui, se uno perisce, il
progresso non ne risente.
Gli eroi scientifici sono quegli individui geniali
che a prescindere dai loro difetti umani, talvolta assai gravi, sono nel
contempo i più potenti trasmettitori dei valori della scienza. La Donald è
tornata sull’argomento, scrivendo questa volta per The Observer (3 febbraio 2013) e ribadendo il suo punto di con un
articolo intitolato “Nella scienza odierna, un genio non lavora mai da solo”. Il
secondo articolo di Donald richiama peraltro un contributo di Simonton su Nature dal titolo un po’ sferzante “Dopo
Einstein: il genio scientifico si è estinto”.
Leggendo
tutto ciò, mi è venuto in mente quanto scrisse lo storico della scienza Aldo
Mieli (1879-1950). Nel profilo di A.L. Lavoisier (1743-1794) pubblicato nel
1916, lo definì “il tipo del genio che
deve la sua forza ad una vasta
potenza di sintesi e di organizzazione, ad un acuto sguardo che riconosce negli accenni degli altri il punto buono e
suscettibile di proficuo sviluppo”. Aggiungeva inoltre: “il fatto ormai
ben riconosciuto che tutto il suo edificio sperimentale e teorico è direttamente basato sopra lavori di altri, ci dà nella storia
uno degli esempi più belli dell’importanza che,
anche nello sviluppo del pensiero, ha il lavoro della collettività,
spesso della collettività anonima e oscura…”
Si potrebbe concludere: che male c’è ad essere formiche se si contribuisce al sapere collettivo?
N.d.a. Si ringrazia la Biblioteca Comunale di Imola per il ritratto di Lavoisier