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Se lo sceriffo vuole il tuo DNA

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Due recenti decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti stanno facendo discutere. Si tratta di due cause diverse, senza alcuna correlazione giuridica fra loro, ma con un minimo comune denominatore: entrambe sono destinate a influire in qualche modo sul rapporto fra noi e il nostro DNA. La più recente riguarda la brevettabilità delle sequenze di DNA, con il caso della Myriad Genetics che meriterebbe un approfondimento a sé, non fosse altro che per raccontare l’altalena in borsa delle azioni di Myriad Genetics, di pari passo con le interpretazioni contrastanti della sentenza da parte dei mercati.

La decisione su cui mi soffermo risale invece al 3 giugno scorso. In essa, la Suprema Corte (sentenza Maryland vs King) ha stabilito che la polizia può legalmente prelevare e analizzare a scopo identificativo il DNA di chi viene arrestato per crimini gravi. Il DNA entra così a far parte a pieno titolo dell’armamentario identificativo a disposizione di qualunque stazione di polizia (e non solo dell’FBI), insieme alle buone vecchie impronte digitali e foto segnaletiche. Una pratica che fino ad oggi molti consideravano incompatibile con la Costituzione americana.
A riaccendere il dibattito arriva un articolo del  New York Times dove si racconta che  le polizie locali di tutto il paese  da tempo accumulano database di DNA sempre più estesi, molti dei quali provenienti da sospetti di basso profilo. Spacciatori, ladruncoli o rapinatori che hanno accettato il in cambio di uno sconto di pena, pur non essendo accusati di crimini gravi, come prescrive la legge. E’ lecito pensare che chiunque, magari arrestato a torto per un’infrazione, possa vedere il proprio DNA catapultato in una banca dati della polizia. Non è sorprendente che in molti giornali la notizia  sia stata assimilata allo scandalo datagate che imperversa oltreoceano, anche se l’accostamento è inaccurato.

Pur essendo un sostenitore della privacy, in particolar modo di quella genetica la vicenda raccontata dal New York Times non mi sconvolge particolarmente. Certo, l’idea di sputare in una provetta affinché il nostro DNA diventi un file nei computer delle questure può non essere piacevole, e si può non essere d’accordo sul principio generale della schedatura individuale. Ma anche le impronte digitali, quelle dell’iride e le foto-tessera che tutti noi depositiamo in prefettura quando chiediamo un passaporto, o lasciamo sui computer delle dogane, vengono già digitalizzate e inserite nei database della polizia. Passando al DNA il concetto non cambia. O almeno, non cambia finché la polizia si limita a raccogliere, come ha fatto finora, dati esclusivamente identificativi, analizzando zone del DNA estremamente variabili da un individuo all’altro, “impronte digitali genetiche” da cui non si ricavano informazioni biologiche e predittive.
Tutt’altro scenario si porrebbe se un giorno le autorità decidessero di utilizzare il nostro DNA per leggere la predisposizione alle malattie mentali, all’alcolismo, al comportamento antisociale, informazioni che si possono già ricavare da un campione genetico, ma in modo ancora troppo vago per essere utile. Questi abusi sono per ora ipotetici e forse per i limiti intrinseci della genetica lo saranno per sempre. Ma è certo che qualunque esame del DNA che vada oltre la mera identificazione non dovrà mai essere effettuato senza il nostro consenso, e la società dovrà vigilare affinché questa sia una regola assoluta.
Se si accetta il principio, è logico che anche lo sceriffo di contea, o la locale stazione dei carabinieri, vogliano attingere alle migliori tecnologie di identificazione, e il DNA è un metodo semplice, sensibile e sempre più economico.

L’ironia è che mentre ci preoccupiamo di cosa fanno i questurini con il nostro DNA, l’evoluzione rapidissima della genetica sta togliendo alle autorità costituite l’appannaggio di questo tipo di raccolta dati, mettendolo nelle mani di chiunque abbia un computer e un po’ di iniziativa.
Già allo stato attuale non esistono ostacoli tecnici per cui il sottoscritto, o chi legge questo articolo non possa raccogliere e analizzare il DNA di amici e conoscenti. Nel 2008 due redattori di New Scientist dimostrarono come questa impresa sia relativamente facile. Chiunque può ricavare un profilo genetico da chi, magari ignaro dell’esperimento, viene a casa a bere un bicchiere coprendolo inevitabilmente di minuscole tracce di saliva. Oggi bisogna ricorrere a siti internet specializzati e spendere qualche decina di euro a campione, ma gli apparecchi per l’analisi casalinga del DNA, di cui oggi esistono vari prototipi (come questo) sono destinati a cambiare le carte in tavola. Fra non molto un ragazzino sarà in grado di mettere in piedi una collezione (illegale) di  profili  genetici tale da fare concorrenza  a quella di una stazione di polizia di media grandezza, sfuggendo facilmente a qualunque controllo.

Arriverà il giorno in cui, per usare le parole del New Scientist, vivremo perennemente come in una puntata di CSI? Andremo a cena dagli amici portandoci i bicchieri da casa? Avremo paura di stringere la mano al nostro assicuratore? Per diversi motivi che qui tralascio, ma che racconto nel mio libro sulla genomica di consumo, è improbabile che questi scenari catastrofici  si verificheranno davvero.
Quello che conta, invece, è essere coscienti dei rischi. C’è un fatto ad esempio che tendiamo a sottovalutare, ma che gli esperti di sicurezza ci insegnano: i principali nemici della nostra privacy dobbiamo cercarli in noi stessi, nella nostra incapacità di gestire il flusso delle informazioni che condividiamo, più che negli altri. Esiste sempre la possibilità che qualcuno ci spii dall’altro, ma il più delle volte siamo noi ad esagerare. Se postiamo qualcosa di compromettente su Facebook e lo facciamo leggere a tutti, siamo noi i colpevoli, non il Grande Fratello.
Questa constatazione vale anche per la nuova frontiera della biotecnologia, il social networking genetico, un nuovo paradigma basato sulla condivisione del nostro DNA, di cui il sito 23andMe è l’esempio più noto. Chi liquida questi fenomeni come una moda passeggera è fuori strada. Si tratta di strumenti nuovi e potenti, che offrono prospettive straordinarie per la ricerca, la medicina e perfino per la vita sociale. 

Focalizzarsi unicamente sui rischi e non sfruttare queste opportunità sarebbe sbagliato. Altrettando sconsiderato è buttarsi a capofitto in un social network, per di più genetico, senza riflettere su costi e benefici.  Dovremo imparare a usare questi nuovi strumenti in modo proficuo: così come possiamo decidere di tagliare fuori i nostri amici di Facebook dalle cose più private della nostra vita, è possibile tutelare la nostra privacy genetica, condividere “in chiaro” solo le informazioni genetiche che sono utili per  noi, e valutare i pro e i contro prima di mettere in rete i nostri cromosomi.

Mentre ci preoccupiamo (giustamente) di cosa fa la polizia con il nostro DNA, non dimentichiamo che il futuro dietro l’angolo è ancora più complicato, rischioso e promettente di quello che vediamo oggi. In una parola, molto più interessante.

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