Introduzione
Uno degli aspetti più interessanti della diffusione del Buddhismo nell’Occidente è l’alto numero di scienziati che hanno preso a partecipare ai dialoghi tra scienza e buddhismo. Una misura di questo è data dalle conferenze dell’Istituto Mind and Life, costituito nel 1987 dal presente XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, con lo scopo appunto di promuovere il dialogo tra la tradizione buddhista e il pensiero scientifico moderno.
Fisici di chiara fama, come Anton Zeilinger, Stephen Chu, David Finkelstein, astrofisici come George Greenstein, neurobiologi come Wolf Singer, Tanja Singer, Richard Davidson, Cliff Saron, Antonio Damasio, filosofi e sociologi come Charles Taylor, Michel Bitbol, Paul Ekman, Patricia Churchland, Alan Wallace, Daniel Goleman, Anne Harrington, Bunker Roy, biologi e genetisti come Eric Lander e Ursula Goodenough, hanno preso parte a questi incontri,… e la lista potrebbe facilmente arricchirsi fino a raggiungere un centinaio di illustri nomi di accademici. Inoltre, tali conferenze di dialogo si sono svolte non solo a Dharamasala, in India, la sede in esilio del Dalai Lama, ma nei maggiori centri accademici in USA e Europa, in grandi città come New York, Boston, Zurigo, Vienna, Chicago, e centri accademici tradizionali come il MIT, la Rockfeller University, la Wisconsin University, il Politecnico di Zurigo, due diverse università romane.
Il possibile punto di contatto e dialogo tra il mondo della scienza e il buddhismo è reso più facile dall’atteggiamento estremamente aperto del presente Dalai Lama, che ha, notoriamente, un profondo rispetto e interesse personale per la scienza, tanto da dire1:
“La mia fiducia nell’avventurarmi nella scienza è basata nel fatto che credo che sia la scienza che il buddhismo perseguano la comprensione della realtà della natura per mezzo di indagine critica. Se l’analisi scientifica arrivasse a dimostrare nel modo più conclusivo che certe affermazioni del buddhismo sono false, allora dovremmo accettare le conclusione della scienza e abbandonare tali affermazioni.”
E addirittura si spinge a dire2:
“I buddhisti credono nella reincarnazione. Ma supponiamo che la scienza, attraverso una serie di metodi, riesca a dimostrare conclusivamente che la reincarnazione non esiste. Allora dobbiamo accettarlo.”
Immaginate se una cosa del genere fosse stata detta da uno dei nostri papi del passato a proposito dell’anima… Poi però, altrove, il Dalai Lama aggiunge qualcosa di molto acuto che gli permette di mettere le mani avanti1:
“Tuttavia, bisogna fare una chiara distinzione tra quello che non viene trovato dalla scienza, e quello che invece la scienza dimostra essere non-esistente. Dobbiamo accettare come non-esistente tutto quel che la scienza dimostra essere non esistente; ma quel che la scienza non riesce a trovare, è tutto un altro discorso.”
E aggiunge che un esempio di questo è dato dalla coscienza… Torneremo su questo nel seguito di questo articolo. A questo punto, chiediamoci invece il perché di questo interesse degli scienziati di tutte le categorie per il Buddhismo. Si tratta di complementarità, un guardarsi da lontano per un interesse culturale - oppure c’è invece terreno in comune tra scienza e buddhismo? Può l’uno imparare dall’altro, e in che modo?
Lo scopo di questo articolo è di discutere questa domanda - facendo presente per onestà che il tema scienza-buddhismo è stato da anni oggetto di studi anche profondi. Citerò qui solo una minima parte di questa letteratura, in particolare un paio dei libri che mi sembrano più rilevanti.
Una domanda che si sente spesso, a proposito del dialogo, è se il buddismo sia una religione o una filosofia. Qui la risposta deve essere chiara. Il buddhismo è nato come, ed è, una religione. Con tanto di rituali, templi, migliaia di monaci e monache, un clero e delle sacre scritture molto sofisticate. E il Gautama Buddha, fondatore di questa religione nel V secolo a.C., aveva come fine ultimo la liberazione dell’umanità dalla sofferenza e dall’ignoranza.
Ma qui è il punto: il cammino per la liberazione doveva avvenire senza un Dio creatore, senza la fede nei miracoli o nella trascendenza: il cammino proposto dal Buddha per affrancarsi dalla sofferenza, insita nella condizione umana, era un cammino per liberarsi della ignoranza creata dai falsi abiti mentali. In tale cammino, nel Dharma, basato sulle quattro “nobili verità’” iniziali enunciate dal Buddha, si trattava di cercare e possibilmente trovare (con la cosiddetta illuminazione) la natura vera delle cose. Chiaramente, questo è un discorso di prassi filosofica ed etica. Si trattava quindi di un cammino in cui la retta cognizione e il retto comportamento morale sono i cardini principali. Ecco che il cammino del Dharma diventa anche un percorso di filosofia pratica.
La metodologia
Anche la scienza si muove per trovare la verità, ed ecco un primo vago, generale possibile punto di incontro. Ma c'è qualcosa di più. Questo è dato dal fatto che sia il buddhismo, sia la scienza, hanno come cardine principale la sperimentazione. Questo è ben noto ovviamente nella scienza.
Diceva Richard Feynman:4
“Il principio della scienza, quasi la sua stessa definizione è il seguente: il testo della conoscenza è l’esperimento. L’esperimento è il sole giudice della verità scientifica”.
Ed ecco come il Dalai Lama gli fa eco1:
“Quando si pone il problema della validazione della verità di una certa asserzione, il Buddhismo pone la autorità più grande nell’esperienza, poi nella ragione, e per ultimo nelle Scritture”.
Questa non è solo l’idea di un Dalai Lama moderno, ma viene da molto lontano. Vic Mansfield2 cita il testo di un famoso Sutra (testo sacro), parole quindi ascrivibili secondo la tradizione al Buddha stesso, che recita:
"I monaci e gli studenti devono accettare la mia parola non per rispetto, ma devono analizzarla così’ come un gioielliere analizza l’oro, tagliandolo, fondendolo, incidendolo e strofinandolo”.
I effetti tutti i grandi maestri del Buddhismo insistono molto sul concetto che non si deve credere ciecamente alle scritture, né al proprio guru, ma che ci si deve basare soprattutto in quello che si trova con la sperimentazione personale. C’è la celebre immagine per cui “uccidi il Buddha se lo trovi sul tuo cammino”, che implica che anche il maestro può essere un impedimento nel percorso che porta alla conoscenza.
Tutto bene, dunque? No, qui anzi c’è un primo punto essenziale di differenza. La sperimentazione del buddhista è a livello soggettivo, di esperienza personale, non ha niente a che fare con i criteri di oggettività sperimentale Galileiana, o della inter-soggettività dei principi della scienza moderna. Si, uno deve convincersi di certe verità lavorando e sperimentando, ma solo su se stesso, magari con l’aiuto di un maestro, ma si tratterà sempre di una conoscenza in prima persona. Esiste un’esperienza mistica a seguito della meditazione? Non c’è modo di dimostrarlo oggettivamente: il maestro ti dirà di perseguire nella meditazione, fino a che tale esperienza profonda non ti arrivi: e se arriva, questa sarà incomunicabile al mondo esterno, nemmeno condivisibile a parole.
Con questo discorso si tocca anche un problema che è venuto recentemente alla ribalta anche nel campo più propriamente scientifico. Che valore si deve attribuire alle esperienze soggettive? Anche perché, secondo la visione di molta scienza moderna, l’osservatore non può più essere escluso dal risultato degli esperimenti. Non vogliamo addentrarci nel problema della scienza della prima persona, limitiamoci qui a osservare che su questo aspetto tra scienza classica e buddhismo c’è una differenza sostanziale: da una parte l’introspezione e la sperimentazione personale e soggettiva, dall’altro invece il discorso della oggettività o per lo meno della inter-soggettività. Questo è riassunto bene nella seguente citazione presa dal libro di Mansfield2 (mia traduzione):
“Così’, si può vedere che, a dispetto delle similitudini riguardo all’autorità, alla ragione, e alla necessità della verificazione empirica con l’esperimento, ci sono differenze significative tra scienza e buddhismo. Questo non può essere una sorpresa, considerando che la scienza è lo studio della natura in tutte le sue forme, mentre il Buddhismo è primariamente rivolto alla eliminazione della sofferenza. Tuttavia, siccome la ragione della sofferenza è la nostra incapacità di comprendere la vera natura della realtà - che include il dominio della scienza - allora possiamo anche aspettarci profonde connessioni tra il Buddhismo e la scienza”.
Su questa base, infatti, cominciamo a vedere qualcosa di più specifico.
L’importanza della vacuità
Forse il contatto più forte tra scienza e Buddhismo è da ritrovarsi nel concetto buddhista di vacuità (emptiness) - una cosa che di primo acchito può sembrare sorprendente. Nella mia stessa esperienza, questo è invece il modo in cui molti scienziati si sono avvicinati al buddhismo.
Spieghiamo prima cosa sia il concetto di vacuità - che è veramente il fondamento della visione buddhista delle cose e della natura. Nella sua essenzialità, questo principio dice che tutte le cose e tutte le persone sono prive di un’esistenza indipendente, prive di una loro realtà intrinseca. Se tu cerchi qualcosa che abbia una propria realtà intrinseca, the inherent existence, trovi il vuoto- la vacuità (da non confondere con il nulla). E questo è così perché ogni cosa e ogni persona dipendono da una serie di cause: l’albero dipende dal seme ma anche dal terreno, dalla pioggia, dalla temperatura, dal contadino…; e l’esistenza del contadino dipende dai suoi genitori, dal cibo che ha mangiato, dai suoi fornitori di cibo e di lavoro. Non esiste niente di indipendente, niente che abbia una valenza di realtà intrinseca, ogni cosa dipende invece da una rete multidimensionale di cause. Da notare che si tratta qui di pura negazione - non è che il concetto di vacuità sostituisca la falsa categoria della esistenza intrinseca con qualche altro principio generale. È quello che i buddisti chiamano “a non-affirming negation”, un punto importante, perché stabilisce che non c'è niente da mettere al posto della falsa attribuzione di una esistenza indipendente. Tale falsa attribuzione è un problema della nostra mente, ed è la base principale dell’ignoranza di cui parla il Buddhismo - una cosa di cui occorre liberarsi per procedere verso il cammino del Dharma, verso la liberazione.
Il concetto di emptiness è quindi anche equivalente alla causalità molteplice, a quello che i buddisti chiamano co-dependent arising: ogni cosa, ogni persona, è il risultato di una catena lunga e complessa di con-cause. Il che anche vuol dire che quello che è importante non è tanto la esistenza degli oggetti di per sé, ma le relazioni che determinano e definiscono tali oggetti. Ci avviciniamo con questo alla scienza moderna, in particolare alla visione sistemica della vita e della scienza. Secondo la visione sistemica, quello che è importante sono le relazioni tra le cose piuttosto che gli oggetti di per se stessi. Per esempio nella visione sistemica della biologia, la vita è un fenomeno d’integrazione, è data dalla rete di relazioni di tutti gli organi tra di loro, poi ogni organo è l’integrazione di tutte le cellule tra di loro, la vita di ogni cellula è data dalla intera rete metabolica, etc. La vita non è dovuta a una cosa, a una reazione, a una molecola: è la rete stessa. E così è per la società, per la natura, per l’ecologia. Vedi per esempio l’opera recente di Fritjof Capra5, anche nella nuova opera in corso6.
Si tratta in fondo di una visione non-riduzionista, che accomuna quindi strettamente la scienza moderna con la visione buddhista delle cose. Si deve notare – punto saliente nel Buddhismo - che tutta questa rete di dipendenza reciproca fa si che non ci sia una causa prima - quindi un Dio creatore.
Si deve aggiungere a questo punto un altro concetto importante della filosofia buddhista, il concetto di impermanenza. Tutto quello che nasce è destinato a morire. Non c’è niente che abbia valenza di eternità. E anche nell’impermanenza c’è una catena di causalità. Il concetto di impermanenza è quindi collegato al concetto di vacuità, e la molteplice causalità è la componente principale di entrambe le cose. Vic Mansfield, nel libro che ho già citato2, dedica molte pagine e interi capitoli al rapporto tra vacuità e meccanica quantistica. Afferma per esempio che le particelle elementari - elettroni e fotoni per esempio - sono indistinguibili l’uno dall’altro e quindi non possiedono una individualità intrinseca. Il concetto di non-localizzazione proprio dell’interpretazione di Copenhagen è anche un bell’esempio: un fotone non può essere chiamato particella, o onda, se non dopo che l’operatore ha usato un particolare congegno per svelarne appunto la natura, o come particella o come onda. Quindi l’essere onda, o particella, dipende da tutta una serie di con-cause esterne, tra cui l’operatore e il suo strumento di indagine. Non esiste quindi una realtà intrinseca di per sé della luce o dei fotoni.
Interessante e quel che scrive Vic Mansfield a proposito dell’esperimento EPR: ricordate, il famoso paper di Einstein-Podolski-Rosen, sull’entanglement dei due elettroni sparati in direzioni oppose. Il fenomeno di entanglement può essere interpretato affermando appunto che un elettrone esiste in un particolare stato (per esempio di spin) a causa di una correlazione con un’altra particella-ma che lui stesso non ha un’intrinseca esistenza.
L’EPR paper fu concepito come critica alla meccanica quantistica, giudicata incompleta da Einstein. Citando Einstein stesso8 (citazione presa da Mansfield, con mia traduzione):
“…..appare essenziale per questa configurazione di oggetti introdotti in fisica, che, in un certo tempo, questi oggetti richiedano una esistenza indipendente l’una dall’altra, una volta che tali oggetti giacciono in parti diverse dello spazio. Senza questa assunzione, che ha un’origine in ogni pensiero comune, il pensiero fisico che ci è familiare non sarebbe possibile…”.
Questo è molto interessante nel nostro contesto, perché rappresenta esattamente l’opposto di quanto affermato nel concetto di vacuità buddista. Giustamente Einstein si basa sul buon senso comune -ma è proprio questa imputazione di separabilità e di indipendenza, prodotti della nostra mente, che il Buddhismo condanna come fonte dell’ignoranza di cui dobbiamo liberarci per arrivare alla verità.
Un altro soggetto scientifico interessante, oltre a quello della meccanica quantistica, è fornito dalla teoria della relatività. Secondo la relatività einsteiniana, cose come il tempo, la massa, la lunghezza, l’energia, non hanno un valore assoluto, ma dipendono dal sistema di riferimento in cui tali grandezze sono misurate. Quindi, usando un linguaggio buddhista, si può dire che non hanno un’esistenza intrinseca, non hanno un’esistenza indipendente. Siamo quindi di nuovo al concetto di vacuità.
Dalla biologia alla coscienza
Passiamo ora al rapporto tra biologia e buddhismo, un tema che non è stato oggetto di studi quanto lo è stato il rapporto con la fisica.
Cominciamo con l’origine della vita sulla Terra. Su questo problema, il predicato principale della scienza è che la vita sia sorta dalla materia inanimata, e questo attraverso un lentissimo e spontaneo processo di aumento di struttura molecolare e funzionalità. E’ quindi un processo basato sul principio di continuità, per cui cioè c’è un graduale e omogeneo evolversi della materia, senza che ci sia trascendenza dall’esterno. Tale principio è in armonia con il discorso buddista di una continuità di cause successive. Tuttavia la scienza moderna vede la vita come una qualità nuova, emergente rispetto alla materia inanimata, e tale salto di qualità non è contemplato dal buddhismo classico. Infatti, nel buddhismo si ha difficoltà ad accettare che a un certo punto dell’evoluzione sia venuto fuori qualcosa che prima non c’era, per esempio la mente, o la coscienza. In un recente corso d’insegnamento in un monastero buddhista, io ho avuto difficoltà – e non ci sono riuscito - a fare accettare l’idea che i batteri fossero organismi viventi ma privi di mente e di coscienza. Se c’era la vita, mi si contro ribatteva, deve esserci anche mente e coscienza.
In questa chiave, per quanto riguarda l’evoluzione Darwiniana, si dice che il Dalai Lama e il buddismo in generale abbiano difficoltà ad accettare il concetto di mutazione random, in quanto questa appare come qualcosa che accade senza una causa. Personalmente, credo invece che questo sia un errore di lettura. Il problema sta nel fatto che molti autori, i nostri fisici in particolare, prendono troppo alla lettera il termine “random” – quasi fosse qualcosa che arriva dall’alto, del tutto inaspettato. Non è così: qualsiasi mutazione, cioè un cambiamento di un gene e un conseguente cambiamento in una proteina (il DNA, nella visione classica, non fa altro che codificare per una proteina) è contingente alla struttura pre-esistente. Per esempio, una mutazione random nel ciclo metabolico del lievito, avviene sulla base di una struttura enzimatica pre-esistente. Così, una mutazione all’interno di un pesce può modificare un tratto metabolico o di comportamento del pesce, ma tutto quel che accade è sempre contingente alla natura del pesce. E c’è un altro punto importante: mentre le mutazioni random sono in linea di principio infinite o quasi in numero, quelle che sono “accettate” dall’organismo sono in numero limitatissimo, e sono solo quelle che sono consistenti con la organizzazione strutturale dell’organismo stesso. Tali cambiamenti possono portare a un miglioramento riproduttivo dell’organismo, o no (neutral drift) - ma sono chiaramente determinate dalla struttura pre-esistente. Infatti, si parla nel campo di determinismo strutturale - il linguaggio di Maturana e Varela9.
Questione di come si intende la coscienza
In conclusione, non c’è ragione quindi per i buddisti di vedere le mutazioni random come qualcosa che avviene senza causa - la causa è sempre la struttura pre-esistente e la sua particolare organizzazione. Possibilmente, un problema nell’interpretazione della evoluzione è invece dovuto al concetto buddhista di karma. Questa è una causalità a livello etico - ed è connessa al concetto di reincarnazione. Le azioni cattive condotte in una vita – dicono i Buddhisti - si trasmettono alla vita successiva, di generazione in generazione, così che ognuno di noi rappresenta l’accumulo di tutta una serie di azioni, positive o negative, compiute in tutte le vite precedenti.
Credo che questo sia un fenomeno a livello di ogni singola persona, (i buddhisti direbbero, di ogni essere senziente), e non so fino a che punto il karma possa influenzare l’evoluzione biologica. Per esempio, esiste un karma collettivo dei Neanderthal che magari ha condizionato la loro evoluzione e magari la loro scomparsa?
Con il concetto di karma e di reincarnazione, si toccano gli elementi più ostici del buddhismo, quelli con cui il nostro mondo occidentale scientifico ha più difficoltà. E questi due concetti sono a loro volta fondati – o strettamente correlati - a un altro concetto basilare, quello della subtle consciousness, la coscienza sottile.
Qui il discorso dovrebbe aprirsi appunto sulla coscienza, di come questa è vista dalla nostra scienza, e come è vista invece dal mondo buddhista. Argomento complesso, che possiamo solo sfiorare. Si può dire rapidamente che per la nostra scienza “doc” assume una diretta dipendenza tra cervello e coscienza – una specie di relazione diretta tra brain, mind e consciousness. Ci sono due accezioni principali del temine coscienza nella nostra letteratura presente, che si rifanno alla celebre definizione del filosofo inglese David Chalmers. Secondo Chalmers, c’è il problema facile, e il problema difficile della coscienza, the easy and the hard problem10. L’easy problem ha a che fare con gli aspetti cognitivi della coscienza, gli atti volitivi, coscientemente intenzionali, la coscienza di qualcosa (si chiama easy problem non perché sia facile capirne il funzionamento, ma perché almeno si vede una connessione con gli aspetti neuronali, meccanicistici del cervello). Poi c’è invece l’aspetto soggettivo della coscienza, la esperienza personale per esempio della sensazione del colore blu, della gioia, della paura… Questa è appunto l’esperienza individuale, incomunicabile, intima, che corrisponde veramente a un livello diverso di coscienza. E quando si raggiunge tale livello, e se ne ha la percezione, allora si può raggiungere un terzo livello, quello del sapere di sapere, cioè il livello auto-riflessivo della coscienza.
E su questa dimensione di esperienza soggettiva della coscienza, l’hard problem, secondo Chalmers, non abbiamo una spiegazione. Non sappiamo neppure perché esista. La maggior parte della scienza neurobiologica vede tutti gli aspetti di coscienza come derivanti, in un modo o nell’altro, dal cervello. In questo senso anche l'hard problem ha una base materiale, è una proprietà emergente del cervello. Ci sono varie scuole e teorie su questo, non vogliamo certo entrare qui in dettaglio. C’è solo da aggiungere che non tutti sono d’accordo con l’idea che la coscienza sia secondaria rispetto al cervello. E parlano, infatti, di coscienza come fenomeno primario (vedi per esempio i lavori di Michel Birbol11,12), dove si parla appunto di una radicale auto-referenzialità della coscienza (un divertente argomento a tale riguardo è il seguente: per parlare di cervello, occorre prima avere la coscienza della esistenza del cervello, ergo la coscienza è primaria…).
Scienza, religione e morale
Ritornando ora al buddhismo: il mondo buddhista, il Dalai Lama in particolare, accetta la nozione che il cervello sia fondamentale per tutta una serie di atti di percezione cognitiva, a livello appunto di un livello più grossolano (gross level); ma poi c’è appunto per i buddhisti la subtle consciousness, che è la base stessa della illuminazione e dei meccanismi di reincarnazione. E appunto, il lato caratteristico è che questo livello di coscienza non ha, per il Dalai Lama, una base materiale (vedi il dialogo con il Dalai Lama nel riferimento5).
E’ chiaro che la scienza moderna nella sua forma più tradizionale non può accettare il concetto di karma e di reincarnazione, né quello di una coscienza senza una base materiale - e quindi qui c’è un terreno di non-accordo. Il concetto di karma è correlato al comportamento morale, all’etica in generale, e questo è un punto essenziale del buddhismo, che non si ritrova nella scienza. Per questo, ritorniamo per un momento al concetto di vacuità, per cui tutte le cose, e tutte le persone, hanno un senso solo se viste e comprese in una rete di relazioni. Per il buddhismo, questa rete di relazioni porta al concetto di considerare il prossimo come parte di se stessi, a coltivare quindi sentimenti positivi per aiutare il prossimo nel cammino diretto a liberarsi della sofferenza. Porta a un concetto fondamentale del buddhismo, quello di compassion, il sentimento, coltivato e coltivabile, di empatia per la sofferenza altrui, e il desiderio di aiutare il prossimo nel cammino della liberazione dalla ignoranza e quindi dalla sofferenza.
Ovviamente per la scienza, la visione che gli elettroni siano particelle prive di individualità, etc., non porta necessariamente a una visione etica, a vedere il prossimo e la natura in qualche modo più ricco di moralità. Forse un’eccezione è data dalla visione sistemica della vita a livello della ecologia, dove appunto tale visione diventa coscienza di un rispetto per la natura e per il prossimo, anche per salvaguardare il futuro del nostro Pianeta.
RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI
1. The Dalai Lama, The
universe in a single atom. The
convergence of Science and Spirituality. New York Morgan Road books, 2005, 112.
2. Sidney Piburn, “A
Policy of kindness. An Anthology of writings by and about the Dalai
Lama”, Ithaca,
N.Y., Snow Lion Public., 1990, 28 (citazione raccolta dal riferimento
bibliografico3).
3.
Vic Mansfield, Tibetan
Buddhism and modern physics,
Templeton Foundation Press, 2008
4.
Richard Feynman, The
physics lectures of Feynman on physics, New
York Addison-Wesley Public., 1989, 1:1
5.
Pier Luigi Luisi, Mind
and Life, Dialogues with the Dalai Lama on the nature of reality,
Columbia Univ. Press, 2006.
6.
Fritjof Capra, The
Hidden Connections,
Doubleday, New York, 2002.
7.
Fritjof Capra and Pier Luigi Luisi, The
system view of life,
Cambridge Univ. Press, in press.
8.
Albert Einstein, “Einstein
on locality and separability",
1949, in trad. Donald Howard, Studies on history of philosophy of
science, 16, nr3, 1985, 187-88.
9.
Humberto Maturana e Francisco Varela, The
tree of knowledge,
Shambala, 1998.
10. David Chalmers, The
Conscious Mind,
Oxford: Oxford University Press, 1996.
11.
Michel Bitbol, "Is
Consciousness Primary?",
NeuroQuantology, 2008, 6, 53-71.
12. Michel Bitbol and Pier
Luigi Luisi, "Science
and the Self-Referentiality of Consciousness", The journal of Cosmology, 2011.