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Modelli della spiegazione scientifica

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Alberto Peruzzi, ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Firenze e filosofo del linguaggio si cimenta su una questione cruciale per la filosofia della scienza, quella della spiegazione scientifica. di GASPARE POLIZZI

Nel suo nuovo libro, Modelli della spiegazione scientifica (Florence University Press, Firenze 2009, pp. 231, € 18,90) Alberto Peruzzi, ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Firenze e filosofo del linguaggio (disciplina alla quale ha dedicato il suo precedente libro Il significato inesistente: lezioni sulla semantica, FUP, Firenze 2004), si cimenta su una questione cruciale per la filosofia della scienza, quella appunto della spiegazione scientifica, posta a tema da importanti esponenti dell’empirismo logico e della “filosofia scientifica” come Carl G. Hempel (Aspects of Scientific Explanation, 1965, tr. it. 1986) e Richard B. Braithwaite (Scientific Explanation, 1953, tr. it. 1966). La complessità del problema viene felicemente metaforizzata nella foto posta in copertina, che rappresenta il labyrinth, gioco consistente nel condurre una pallina nel percorso di un labirinto senza farla mai cadere nelle numerose buche distribuite nel tracciato.

Il libro, pur servendosi di strumenti logici e seguendo un approccio analitico, vuole essere introduttivo e di facile comprensione per un pubblico di studenti universitari e procede con un’andatura discorsiva che muove dalla concezione comune di spiegazione e da esempi tratti dall’esperienza quotidiana e dalla storia della scienza. Permane tuttavia la complessità di un interrogativo radicalmente teoretico che trova le sue radici nella finalità stessa del sapere scientifico: si tratta di chiedersi il perché della spiegazione scientifica, perché gli uomini si chiedono il perché delle cose e degli eventi, in una parola di “spiegare la spiegazione”. Il punto di riferimento di Peruzzi consiste nel modello nomologico-deduttivo (descritto nel capitolo 3), risalente a Hempel e a Paul Oppenheim, «secondo il quale una spiegazione consiste in una deduzione di un fatto a partire da leggi e condizioni» (p. XI), senza alcun riferimento a cause o a scopi. Il modello di Hempel-Oppenheim intendeva risolvere in termini empirici e logici un problema lungamente descritto in chiave metafisica, a partire dall’aristotelico “scire per causas”. Esso segue la duplice griglia logica delle leggi (scientifiche) generali e degli enunciati che descrivono le condizioni specifiche nelle quali accade un evento: la congiunzione tra l’impianto nomologico fornito dalla scienza e le condizioni particolari nelle quali si verifica un fatto consente la deduzione logica della spiegazione del fatto in questione. Tale modello consente di fornire una spiegazione logico-epistemologica di spiegazioni che siano inseribili nell’area normativa delle leggi generali delle scienze fisiche, nel rispetto dell’ideale unitario della “filosofia scientifica” e dell’empirismo logico, ma pone già qualche problema se viene esteso alle scienze umane e sociali. Gli stessi empiristi logici, ed Hempel in particolare, hanno compreso che esso non poteva poggiare sull’adozione rigorosa del principio di verificabilità, del quale hanno proposto una liberalizzazione in direzione di una controllabilità empirica graduale e misurabile. Ma ciò non ha impedito che si mettesse in questione il principio nomologico-deduttivo e si cercassero altre modellizzazioni.

Peruzzi si sofferma sul modello proposto da Wesley Salmon, che introduce l’esigenza – per vagliare le premesse nomologiche di una spiegazione – di un criterio di rilevanza valutabile in relazione al contesto e inquadrato in un’interpretazione pragmatica della conoscenza. L’Autore esprime, a ragione, forti perplessità sugli esiti filosofici di tale nuova modellizzazione, che «si inserisce con coerenza nel solco di un empirismo radicale che vuole svincolare la spiegazione dalla verità» (p. 148), conducendo paradossalmente, a furia di limitazioni prudenziali, la tradizione empiristica e logica verso un esito soggettivistico. In alternativa Peruzzi discute due modelli più recenti, quello meccanico-causale, che torna alla nozione di ‘causa’, e quello unificazionista, che vede nell’unificazione di fatti e tipologie fattuali il carattere guida della spiegazione. Ma anche in questo caso Peruzzi mostra bene come la posta in gioco comporti un ripensamento generale della filosofia della scienza e in ultima analisi della concezione della verità: «Le questioni che si profilano […] Sono questioni in cui, insieme all’idea di spiegazione, è in gioco il senso stesso dell’epistemologia. O meglio: di un’epistemologia che consideri il soggetto conoscente come qualcosa che fa parte della natura. Il ‘naturalismo’ è appunto un tipo di filosofia che vede la conoscenza e la stessa razionalità come facenti parte di quel mondo naturale che ci interessa capire e conoscere attraverso le scienze» (p. 168). Il ‘naturalismo’ rimette in gioco il rapporto tra l’esperienza e la nozione di verità, discusso negli ultimi due capitoli del libro (il 6 e il 7), e conduce a concludere che la via dalla verità alla spiegazione sbocca in un vicolo cieco, mentre può essere praticato il percorso inverso, che comporta una qualche dose di ‘realismo’: «È grazie alla fiducia che esistano [leggi di natura] che ci troviamo poi impegnati a scoprire quali sono. Il principio CAP [“Cautious Anthropic Principle”, secondo il quale lo stato attuale dell’universo permette di fissare vincoli «per rendere possibile la presenza di esseri che cercano di spiegare ciò che osservano», p. 170] rende tale fiducia non una comoda opzione, bensì un portato dei presupposti che rendono possibile la nostra stessa esistenza. Lo schema IBE* [“inference to the best explanation”, corretta verso la spiegazione più verosimile], applicato in questo caso, rende razionale aver fiducia nel carattere naturalistico della conoscenza» (p. 218).

Non si tratta di una soluzione, ma di un’indicazione di rotta, che intende riallacciare il rapporto tra linguaggio scientifico e realtà naturale. Si tratta di una direttrice che orienta, con il suo “Cauto Principio Antropico”, la filosofia della scienza verso la biologia evoluzionistica e verso le neuroscienze, che iniziano a rispondere alla domanda conclusiva posta da Peruzzi: «come si possono spiegare nel modo migliore i processi cognitivi coinvolti nel riconoscimento di una spiegazione?» (p. 223). Così, in definitiva, nonostante tutti gli sforzi logico-epistemologici della “filosofia scientifica”, l’esigenza di “spiegare la spiegazione” porta con sé da un lato una buona dose di filosofia (e di metafisica) soggiacente, dall’altro conduce a consultare altre competenze (in primis quelle delle neuroscienze) che ‘spiegano’ il quid facti, il modo in cui effettivament­e si comportano gli individui nel formulare le loro spiegazioni e gli scienziati nel produrre le loro scoperte. L’immaginazione creativa e l’intuizione tornano a essere riconosciute come fenomeni cognitivi centrali anche per comprendere le procedure logiche della spiegazione, come ad esempio mostrano i risultati del recente convegno dell’Accademia dei Lincei sulla “Storia naturale della creatività”, raccolti in E. Carafoli, G.A. Danieli & G..O. Longo, a cura di, The Two Cultures: Shared Problems, Springer-Verlag Italia, Milano 2009.


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