«Quando si scopre, Signor Presidente, si è i primi al mondo a vedere quel risultato e si prova il brivido e l’euforia di capire cosa significhi spostare il muro dell'ignoto un po' più in là».
Incontro per la prima volta di persona Elena Cattaneo al Quirinale. È il 9 luglio 2008. Facciamo parte di una delegazione guidata da Rita Levi Montalcini salita sul Colle per esprimere al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le ragioni della ricerca. Siamo latori di un appello firmato da migliaia di persone che chiedono al Paese, mediante il Capo dello Stato, di investire di più nella scienza. Il Presidente ha voluto che a parlare, dopo una breve introduzione di Rita Levi Montalcini, fossero i tre più giovani della delegazione. Una di quei tre è, appunto, il Cavaliere della Repubblica Elena Cattaneo.
La ascolto mentre illustra a Giorgio Napolitano le ragioni dell’appello e penso che ci sia un che di baconiano nelle sue parole. Il filosofo (e politico) Francis Bacon (1561-1626) è stato, a cavallo tra il XVI e il XVII, tra i pionieri del pensiero scientifico moderno. E dunque nelle parole di Elena Cattaneo c’è qualcosa non solo di fondamentale, ma addirittura di fondativo della ricerca. Nel lavoro dello scienziato c’è non solo l’eccitazione di chi, come diceva Francis Bacon, toglie i veli e scopre la natura. Ma anche l’idea che gli effetti di quello svelamento non vadano a vantaggio di questo o di quello, ma – proprio come proponeva il filosofo e politico inglese – dell’intera umanità.
Ascolto ammirato la brillante donna di scienza che continua il suo intervento rivolto al Presidente della Repubblica, chiarendo, con poche parole cariche di emozione e, dunque, di forte intensità, che quando parliamo di investire nella ricerca non pensiamo solo a fondi economici più sostanziosi e meglio distribuiti, per merito e con trasparenza. Pensiamo anche e soprattutto a un paese che investe in persone e in valori. Che ha fiducia nelle persone e nei valori della scienza.
Perché chi fa ricerca, continua Elena Cattaneo, quando ottiene un risultato che sposta un po’ più in là il muro dell’ignoto, non si limita ad avvertire il brivido e l’euforia impagabili dell’essere il primo, ma si chiede contestualmente «quale possa essere l'impatto di quella scoperta per il bene pubblico».
Quali siano i vantaggi, appunto, per l’intera umanità.
Nei mesi successivi avrò modo di capire quanto siano sentiti nel suo pensiero e, soprattutto, nella sua opera a tutto campo quei rapporti fondativi tra ricerca di frontiera e società di cui Elena Cattaneo ha voluto parlare al Presidente della Repubblica in rappresentanza della comunità scientifica italiana.
Ed è di questi sentimenti che ora voglio parlarvi.
La giovane Elena Cattaneo
Elena Cattaneo nasce a Milano nel 1962. Il padre, di origini bergamasche, è un operaio della Fiat; la madre, di origini brianzole, è ragioniere. Una famiglia normale, con una grande cultura del lavoro e della sua dignità. «Papà ha trascorso 45 anni in fabbrica, a fare i pianali, i fondi delle macchine. Ne era orgoglioso, anzi orgogliosissimo. Il suo senso di appartenenza all’azienda, a quell’azienda, era inossidabile. Ma a entrambi i miei genitori piaceva l’idea e la pratica del produrre. Piaceva cimentarsi. Questa cultura me l’hanno trasmessa».
L’etica dell’impegno i genitori di Elena l’hanno assunta fin da piccoli, in tempi difficili. Il papà, durante la guerra, essendo il maggiore dei quattro figli, si trovò nella condizione di dover aiutare la famiglia andando a lavorare come garzone presso un fornaio. Aveva nove anni,
«Portava il pane al mattino presto, in mezzo ai bombardamenti, in bicicletta, estate e inverno, senza cappotto, a volte restava nella panetteria anche la notte, per poter dormire una mezz’ora in più». Una forza, una determinazione, una capacità che non ha perduto negli anni. «Pensi che ha voluto frequentare le scuole medie a 35 anni per ottenere la licenza e spesso mi raccontava quanto si vergognasse a stare seduto in un banco accanto a dei bambini. Eppure l’ha fatto», ricorda con ammirazione mista a orgoglio, la figlia. E continua: «I miei genitori hanno sempre sottolineato quanto sia importante che ognuno si impegni, che ciascuno faccia la sua parte in qualsiasi ambito operi: non solo a scuola, ma anche, per esempio, nello sport. Già, lo sport. Mio padre ne era appassionato. Pensava che la pratica sportiva fosse un modo per misurare se stessi: quindi sia io sia mio fratello, che è di 15 anni più piccolo, eravamo costantemente impegnati in un’attività sportiva. Ancora adesso. L’ho incontrato ieri e mi ha detto: “Guarda che ho fatto 80 vasche in piscina”. “E io 120”, gli dico. Perché, sa, io tutti i lunedì e i giovedì mattina, dalle 7 alle 8,20, sono in piscina e mi faccio le mie 120 vasche. Quanto a mio padre, ha smesso solo due anni fa di fare discesa – sto parlando di sci – perché non faticava abbastanza. Così è passato al fondo. La stessa cosa succede con la bicicletta. Cerca la fatica. Anch’io avverto l’esigenza dell’impegno fisico, oltre che intellettuale. Mi piace moltissimo: non certo per misurare quanto vali, non è questo che mi interessa, ma perché è un metodo per verificare quanto puoi dare».
Ma, quello dell’impegno, non è il solo valore che i genitori hanno trasmesso a Elena Cattaneo. Il lavoro, anche quando è generoso, deve essere finalizzato. Deve andare, proprio come diceva Francis Bacon della conoscenza scientifica, a vantaggio degli altri. «È negli anni trascorsi in famiglia, accanto all’esempio vivente dei miei genitori, che mi sono accorta che le cose più interessanti sono quelle che fai per gli altri. Per se stessi non ne varrebbe la pena: non si lavora per aumentare l’autostima. Aver sempre visto il mio papà impegnarsi in azienda come se fosse la sua, mi ha fatto apprezzare l’idea che ciascuno di noi è parte di un’impresa più grande, la società. Secondo me la tua storia è quello che fai per gli altri».
È con questo imprinting – e anche con questo amore per la famiglia – che Elena Cattaneo trascorre un’infanzia normale. Giunta all’adolescenza, frequenta il Decimo Liceo Scientifico, un po’ fuori Milano. Ora non esiste più. A scuola va bene in tutte le materia. Ma le piacciono di più le scienze e la filosofia: «Gli ambiti in cui si ragiona. In cui c’è il dubbio».
Sono anni, anche quelli dell’adolescenza, vissuti in maniera del tutto normale. L’impegno a scuola si concretizza in una carriera brillante. Poi giunge il momento dell’esame di maturità e della scelta di frequentare l’università – quella pubblica, precisa Elena Cattaneo – iscritta al corso di laurea in farmacia.
Cosa l’ha spinta verso questo tipo di studi, i genitori? «Niente affatto. I miei mi hanno sempre assicurato piena libertà di scelta. Ero io che ci tenevano a studiare, anche perché loro avevano vissuto in un periodo nel quale non era così facile farlo. Mio padre e mia madre mi chiedevano solo impegno. E, per la verità, non hanno faticato a ottenere ciò che chiedevano. Lo stesso vale per mio fratello, che si è laureato in economia e commercio e ora è direttore di banca. Ma la nostra non è una storia particolare. Potrebbe essere la storia di qualunque altra famiglia».
Dunque la decisione di iscriversi al’università. «I miei interessi erano la scienza. Ero affascinata dalla biologia e dalla medicina». Però ha scelto farmacia, perché? «Perché era una materia scientifica, quindi dentro la mia sfera di interessi, e in più garantiva di poter lenire la mia paura, che era quella di non trovare lavoro una volta laureata».
Nelle scuole dell’obbligo e al liceo Elena Cattaneo ha ottenuto risultati brillanti. Ma è all’università che lei si sente come liberata a la sua creatività, unita a una ferrea volontà, può esprimersi al meglio. «Sì, l’università è stata la mia cartina al tornasole. Lì ho capito che potevo spingermi un po’ più in là: approfondire o fare un esame prima. Ho capito, soprattutto, che c’era un mondo intero da esplorare». E ha compreso che lei aveva una gran voglia di esplorarlo, quel mondo.
È un periodo per Elena – ma capita a molti studenti universitari e non solo nelle facoltà scientifiche – dello studio matto e disperato. Anche se questi aggettivi, per la ragazza, suonano un po’ forzati. “Matto e disperatissimo” fu lo studio che Giacomo Leopardi realizzò per sette anni nella biblioteca del padre, a Recanati. Da solo e senza molte distrazioni. Elena Cattaneo studia con grande intensità e curiosità la chimica, la biologia, l’anatomia. Anticipa gli esami. Ma, ormai ventenne, non rinuncia né all’attività fisica né alle relazioni umane. Nei suoi studi universitari di giovane ormai adulta non c’è disperazione alcuna. Semmai soddisfazione. Una soddisfazione che abbina a quella che le deriva da una pratica sportiva intensissima: sci, nuoto, tennis. Ma soprattutto pallavolo. A livello agonistico, con la Jolly. «Sì, ho giocato per quindici anni in un team di pallavolo, la Jolly appunto. Una team solo milanese. Lì ho imparato cosa vuol dire il gioco di squadra».
Anche all’università c’è una figura capace di indirizzarla: Edoardo Cesarotti. Un chimico, che ancora oggi tiene un corso di base a farmacia: Chimica generale, inorganica e stechiometria. Fate tesi sperimentali, predica Cesarotti, perché solo se entrate in un laboratorio acquisite la manualità e capite quella parte imprescindibile della scienza che è la ricerca empirica. «E io seguii il consiglio – ricorda Elena Cattaneo – ed entrai in laboratorio. Quel lavoro manuale mi piaceva. Tra i banconi e le provette mi sembrava di essere in un’officina meccanica a spostare elementi in maniera sincronizzata. Proprio come mio padre».
Il lavoro di tesi riguarda i recettori di membrana e il binding molecolare. Tutte le cellule hanno una membrana, che consente il passaggio selettivo di molecole dall’esterno verso l’interno e/o viceversa. In genere per ottenere il lasciapassare una sostanza deve legarsi (da qui l’inglese binding) a una specifica proteina della membrana cellulare, il recettore. Il legame chimico con la molecola esterna (chiamata ligando), fa sì che la conformazione spaziale del recettore si modifichi e questo consente di “aprire la porta” della membrana.
Gli studi di binding molecolare che coinvolgono i recettori di membrana si sono sviluppati a partire dagli anni ’70 e, a metà degli anni ’80, sono ancora in fase di crescita. Soprattutto ne laboratori di farmacia, dove molti sono molto interessati al passaggio di “molecole farmaco” dall’esterno all’interno delle cellule. Non a caso Elena Cattaneo svolge la sua tesi non a Città Studi, presso la facoltà di Farmacia, ma a via Civitali, dalle parti della Fiera, nei laboratori di una casa farmaceutica, la Recordati.
In realtà Elena Cattaneo avrebbe dovuto svolgere la tesi altrove, presso il grande centro di ricerca che un’altra azienda farmaceutica, Farmitalia, aveva a Nerviano. Ora non esistono più né Farmitalia (incorporata, dopo lunghe vicende da Pfizer), né il centro di ricerca di Nerviano, chiuso lo scorso anno proprio da Pfizer. Ma allora entrambi, l’azienda e il centro, erano in piena attività. Ed Elena Cattaneo aveva conosciuto un ricercatore di Farmitalia, Roberto Ceserani, chiedendogli di poter svolgere con lui la tesi nei laboratori di Nerviano. La domanda era stata accolta, ma poi non se ne fece nulla, perché la ricerca prevedeva esperimenti su animali e la giovane studentessa è allergica agli animali. «Ne fui molto dispiaciuta», ricorda Elena Cattaneo.
Ma, in capo a qualche mese, Ceserani cambia azienda, si trasferisce dalla Farmitalia alla Recordati, si ricorda della ragazza e le chiede se è ancora interessata a svolgere la tesi con lui. Alla Recordati sono interessati allo studio di farmaci chiamati calcio-antagonisti, si tratta di molecole che vanno a legarsi ai siti di alcuni dei canali che utilizza il calcio per entrare e uscire dalla cellule. Si tratta di canali inattivi, che però legandosi agli antagonisti restano tali e impediscono al calcio di entrare nella cellula. È chiaro che lo studio di questo sistema ha bisogno di approfondimenti nel campo dei ligandi e dei recettori di membrana. Vuole Elena Cattaneo occuparsi di questi argomenti? La risposta è positiva. «Ho lavorato nei laboratori delle Recordati per un anno e tre mesi. E lì ho imparato cosa sia una ricerca di laboratorio e cosa sia il rigore in laboratorio». Ceserani è il relatore esterno, mentre il relatore interno alla facoltà di Farmacia è Ferruccio Berti, l’ordinario di Farmacologia.
Al termine del lavoro, nel 1986, Elena Cattaneo si laurea. Summa cum laude: col massimo dei voti e la lode. Ma già da qualche mese ha iniziato a chiedersi: «E ora cosa faccio?».
La ricerca le piace. E vuole andare all’estero, per affinare conoscenza e abilità. Ne parla con il professor Rodolfo Paoletti, che è diventato il suo tutor numero uno non appena lo ha incrociato, proprio nel 1986. Paoletti è il Preside della facoltà e il fondatore del Dipartimento di farmacologia. Insomma è l’uomo che più di ogni altro a Milano promuove le ricerche nel campo della farmacologia biochimica. «Sì, sono andata a parlare con lui e lui mi ha consigliato di fare prima qualche anno di lavoro nell’università e poi di andare all’estero».
La giovane dottoressa Cattaneo si sposta, dunque, dalla Recordati al Dipartimento di farmacologia, in via Lazzaretto. Entra prima in un gruppo di ricerca, poi in un altro, lavorando sui recettori degli estrogeni. L’impegno è tanto. E richiede la rinuncia a qualche radicata abitudine: «Prima giocavo a pallavolo come una forsennata, la praticavi a livello agonistico: ma a quel punto ho dovuto smettere». Resta, in quel laboratorio, un paio di anni. «Due anni di rodaggio».
Ora può andare all’estero. Prima però, nel giugno 1988, si sposa. Con Enzo Pirola. «Enzo è un architetto, che insegna con passione nelle scuole medie. È uno di quegli insegnanti delusi per come la scuola viene trattata nel nostro paese». Pochi mesi insieme, poi a ottobre Elena Cattaneo parte per gli Stati Uniti d’America: «Ho detto a mio marito che sarei ritornata dopo un anno e invece ne sono passati tre. Tre anni senza mai rimettere piede in Italia. Ogni tanto era lui, Enzo, che veniva in America. Compatibilmente con il budget familiare. Abitavo in un appartamentino nel grattacielo più alto e centrale di Boston, sedicesimo piano. Allora avevo paura, una paura profonda, dei luoghi ignoti. Così – costi quel che costi, – scelsi di abitare in un luogo centrale, sicuro e alto di Boston. Ed è costato: in pratica, invece di comprar casa, i soldi sono andati via nell’affitto. Quando Enzo mi raggiungeva, stavamo lì. Ancora oggi lui dice – un po’ scherzando, un po’ a ragione – di essere stato e di essere ancora il maggior finanziatore delle mie attività di ricerca».
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L’incontro con le staminali
È lì a Boston che incontra per la prima volta le staminali.
Elena Cattaneo va infatti a lavorare al Massachusetts Institute of Technology, il famoso MIT, con Ron McKay, uno scozzese che si sta affermando come pioniere dello studio delle cellule staminali del cervello e più in generale del sistema nervoso.
Le staminali sono uno tipo di cellule davvero straordinario, perché sanno fare due cose: riprodursi e specializzarsi. La capacità di riprodursi è tipica di ogni cellula: ma le staminali hanno una capacità di autorigenerarsi e, dunque, di attraversare indenni un numero di cicli cellulari superiore a quello di altre cellule. La capacità, invece, di trasformarsi per svolgere un lavoro specializzato è tipica solo e unicamente delle staminali. Tutte le altre cellule del corpo di un organismo sono ben differenziate e svolgono una funzione ben specifica: ci sono le cellule della pelle, quelle del cuore, quelle del sistema nervoso. Nell’organismo umano ci sono 250 tipi di cellule differenziate diverse. Un citologo – un esperto di cellule, appunto – le riconosce facilmente, spesso a vista. Perché ciascun tipo ha la sua forma e la sua funzione. Le cellule staminali no. Non hanno una funzione. Se ne stanno lì, indifferenziate, ma pronte a trasformarsi – dopo un preciso segnale biochimico – in una cellula della pelle, in un neurone, in una cellula cardiaca o in qualsiasi altro tipo di cellula differenziata.
È questa alta prolificità e questa capacità trasformistica che rende straordinarie, anzi uniche, le cellule staminali. Ed è per queste capacità che i ricercatori guardano, da anni, alle cellule staminali come a un potenziale strumento per sostituire cellule e ricreare tessuti malati o danneggiati.
Non tutte le cellule staminali sono uguali, tuttavia. Nei tessuti degli organismi adulti ci sono cellule staminali unipotenti, capaci di trasformarsi in un solo tipo di cellula differenziata – per esempio in un neurone – e staminali multipotenti, capaci di trasformarsi in diversi tipi di cellule differenziate.
Ma ci sono anche cellule staminali pluripotenti: capaci di trasformarsi praticamente in tutte e ciascuna delle cellule di un organismo. Le staminali pluripotenti sono state trovate solo nel nucleo interno delle blastocisti, che è una fase sviluppata dell’embrione costituita da una massa differenziata di alcune centinaia di cellule.
E, infine, ci sono le staminali totipotenti, capaci non solo di trasformarsi in ogni e ciascun tipo di cellula di un organismo, ma capaci di sviluppare per intero l’organismo. È, ovviamente, totipotente lo zigote, la prima cellula di un organismo, nato da una cellula uovo fecondata da uno spermatozoo. Ma restano staminali totipotenti anche le cellule dell’embrione nei primissimi stadi di sviluppo.
Le cellule staminali, con le due proprietà di autorigenerazione e di trasformazione, sono conosciute da tempo. Ne parla, per esempio, Alexander A. Maximow in una relazione sui linfociti, le cellule prodotte dal midollo osseo che svolgono un ruolo decisivo nel sistema immunitario, tenuta il primo giugno 1909 presso la Società ematologica a Berlino. Maximow sostiene che i linfociti derivano da “cellule primitive” o “cellule staminali” (dall’inglese stem, ceppo familiare) del sangue, che sono presenti nei mammiferi nei primi stadi dello sviluppo embrionale e della vita post-fetale.
L’associazione tra linfociti, staminali e midollo osseo ha anche risvolti clinici. I medici cercano di sfruttare la capacità rigenerativa delle staminali presenti nel midollo. E, in quegli anni d’inizio del XX secolo, iniziano a curare l’anemia e la leucemia somministrando al paziente, per via orale, del midollo osseo. La terapia non funziona. Tuttavia le prove in laboratorio dimostrano che topi con il midollo osseo malato possono essere effettivamente curati iniettando loro nel sangue midollo prelevato da altri topi sani. In molti iniziano a chiedersi se non sia possibile, un giorno, il trapianto di midollo nell’uomo.
Occorre tuttavia attendere gli anni ’60 del XX secolo perché l’interesse sulle staminali si accenda. In seguito a due dimostrazioni inconfutabili. La prima è la dimostrazione che le cellule staminali esistono davvero. Viene realizzata nel 1963 con una serie di esperimenti sul midollo osseo dei topi da Ernest McCulloch e da James Till presso l’università di Toronto, in Canada. La loro dimostrazione è considerata la vera e propria scoperta delle cellule staminali.
Nel 1967 Joseph Altman e Gopal Das pubblicano su Nature un articolo dal titolo Postnatal Neurogenesis in the Guinea-pig, in cui dimostrano la presenza nel cervello adulto di mammiferi – i roditori usati come cavie di laboratorio (i cosiddetti Guinea-pig) – di neuroni capaci di rigenerarsi. I due, che lavorano proprio al MIT di Boston, falsificano il “no neural-regeneration dogma”, l’affermazione divenuta, appunto, un dogma, di Santiago Ramón y Cajal (vincitore di un Nobel nel 1906 insieme con l’italiano Camillo Golgi) secondo cui i neuroni nel cervello dei mammiferi nascono tutti a inizio vita e nessuno nuovo ne può essere creato in età adulta. Altman e Das individuano cellule staminali neurali capaci di trasformarsi in cellule neurali differenziate del bulbo olfattivo e dell’ippocampo del cervello dei roditori.
Anche gli adulti producono neuroni.
Negli anni successivi c’è un’attenzione crescente, ma non esplosiva, sulle “cellule primitive”. Intanto (nel 1968) iniziano i trapianti di midollo osseo, grazie alla scoperta, effettuata esattamente dieci anni prima, nel 1958, dell’antigene umano di istocompatibilità (HLA) dal parte del francese Jean Dausset. Poi nel 1974 il gruppo di Alexander Fridenstein scopre cellule staminali ematopoietiche (capaci di dare origine a tutte le cellule del sangue) nel cordone ombelicale umano. Infine nel 1981 Martin Evans e Matthew Kaufman della University of Cambridge e, in maniera indipendente, Gail Martin della University of California di San Francisco riescono a isolare cellule staminali embrionali di topo.
Quando Elena Cattaneo giunge a Boston, nel 1988, Ronald (Ron) McKay sta, dunque, lavorando a un campo, le cellule staminali del sistema nervoso centrale, che è stato inaugurato da Altman e Das proprio al MIT, ma che non ha ancora raggiunto la visibilità che ha oggi. McKay svolge un lavoro ancora pionieristico.
Ron si è laureato e ha conseguito il dottorato di ricerca a Edimburgo a metà degli anni ’70, occupandosi della struttura biochimica dei cromosomi e del Dna. Si è poi trasferito negli USA presso la University of Oxford, per lavorare con Walter Bodner sempre a problemi di biochimica strutturale. Nel 1978 è entrato come ricercatore “senior” presso il Cold Spring Harbor Laboratory, dove ha iniziato uno studio più sistematico dell’organizzazione molecolare del sistema nervoso. Dal 1984 è a Boston, presso il MIT, dove, continuando a occuparsi dell’organizzazione cellulare del sistema nervoso, si imbatte nelle cellule staminali neurali. È uno studio proficuo, perché lo scozzese identifica il primo marcatore delle staminali del cervello: la nestina, una proteina filamentosa che viene espressa nei tessuti neurali primitivi.
La scoperta è molto importante. Perché se è vero che, a metà degli anni ’80, si conoscono ormai molti tipi di cellule staminali, tutte hanno la medesima caratteristica: la rarità. Le trovi, nei vari tessuti, me ne trovi sempre poche. E riconoscerle non è facile.
Per fortuna ci sono i marcatori. Si tratta di proteine che si legano in maniera specifica sulla superficie di alcuni tipi particolari di cellule. La nestina è un marcatore specifico delle cellule staminali neurali. Se trovi lei, significa che lì c’è una staminale neurale. Ron McKay ha trovato il reagente capace di identificare le nestine. Nessuno come lui può quindi identificare e studiare le staminali del cervello.
«Oggi sappiamo che il processo di identificazione delle cellule staminali nel cervello dell’uomo è più complesso di quanto pensassimo. Che occorre trovare molta più nestina. Ma un fatto, alla fine degli anni ’80, era certo: il laboratorio di Ron al MIT di Boston era uno dei luoghi più accreditati al mondo per studiare le cellule staminali del cervello».
Quando Elena Cattaneo raggiunge il Massachusetts, McKay sta raccogliendo i dati per l’articolo che pubblicherà sulla rivista Cell nel 1989: The origins of cellular diversity in the mammalian central nervous system. In altri termini sta cercando di capire come e quando nei mammiferi e, dunque, anche nell’uomo una cellula staminale neurale indifferenziata si trasforma in un neurone. È in questo tipo di ricerca, per lei del tutto inedito, che la giovane milanese si ritrova improvvisamente immersa.
È un lavoro di frontiera, appassionante. Elena aveva progettato di stare a Boston dodici mesi. Si trattiene tre anni. «Tre anni meravigliosi. Boston è una città bellissima. Al MIT avevo un mio ufficio, il mio gruppo aveva un proprio laboratorio. Così ho iniziato a fare ricerca sulle staminali. Ho pubblicato un articolo, poi un altro ….»
I tre anni sono tanto meravigliosi quanto assorbenti – in questo lungo periodo, come abbiamo detto, Elena non torna mai in Italia, sebbene spenda alcuni mesi in Svezia, presso l’università di Lund, nel laboratorio di Anders Bjorklund, per specializzarsi nel trapianto intracerebrale di cellule staminali. Si tratta di anni scientificamente molto produttivi per Elena. Da questo punto di vista il successo maggiore è, probabilmente, l’articolo che la giovane ricercatrice pubblica su Nature, nel 1990, insieme a Ron McKay sulla proliferazione e la differenziazione delle cellule staminali neurali regolate tramite il Nerve growth factor (NGF), il fattore di crescita nervosa scoperto anni prima da un’altra neurofisiologa italiana sbarcata in America, Rita Levi Montalcini.
Il lavoro firmato da Elena Cattaneo e Ron McKay costituisce una forte accelerazione nel campo delle cellule staminali neurali: «Perché dimostrammo, per la prima volta, che è possibile sia far proliferare in vitro cellule legate alla nestina e che, dunque, pensavamo fossero staminali, sia indurle a differenziarsi, a diventare neuroni. Il nostro lavoro ha un’importanza qualitativa. Dimostrava che si può fare. Tuttavia la proliferazione in vitro non era efficiente. La moltiplicazione delle cellule staminali era contenuta. Altri dopo di noi hanno messo a punto tecniche di proliferazione molto più efficienti, aggiungendo altri ingredienti nel brodo di coltura. Con quelle tecniche oggi possiamo avere staminali neurali a quintali. Resta il fatto che nostra è stata l’idea di far proliferare le cellule e farle diventare neuroni e che questa idea si è dimostrata vincente».
Malgrado questo grosso successo nel campo delle staminali, verso la fine della permanenza a Boston Elena Cattaneo inizia a interessarsi alla Còrea di Huntington. «Avevo conosciuto questa donna, Nancy Wexler, una neurologa, la madre morta di Huntington, lei stessa a rischio. Il padre di Nancy, Milton, era uno psicanalista, morto poi nel 2007, che aveva studiato l’Huntington, ottenendo importanti risultati scientifici. Così Nancy prima si dedica alla ricerca sulla Còrea, partecipando a una grande indagine scientifica sulla diffusione della malattia in due villaggi del Venezuela, e poi inizia una campagna per sensibilizzare la popolazione che culmina nella creazione di un’attivissima Fondazione che porta il suo nome. Nancy è una donna con un carisma davvero unico: appena ti vede, chiunque tu sia, ti bacia e ti abbraccia e ti chiede di impegnarti nello studio della malattia che ha ucciso la madre e minaccia lei stessa».
La Còrea Maior o Malattia di Huntington o Còrea di Huntington è una malattia degenerativa del cervello, determinata dalla distruzione dei neuroni GABA-ergici che hanno una funzione di inibizione dei movimenti. In pratica hanno il compito di impedire che il nostro corpo si muova in continuazione e in modo incontrollato. È a causa di questa mancata inibizione che i malati di Huntington diventano progressivamente sempre più ipercinetici. Da qui il nome, còrea, che in greco vuol dire danza. La malattia è abbastanza rara, ha origine genetica e non ha cura. Un trattamento con farmaci ne può lenire i sintomi, ma non impedirne l’evoluzione.
Il decorso della malattia è inarrestabile. Comporta il decadimento delle funzioni cerebrali e, dopo un periodo compreso tra 15 e 25 anni dall’apparizione dei primi sintomi, che sono vari – movimenti muscolari incontrollabili, difficoltà di deglutizione, vuoti di memoria, mutamenti nel comportamento, sbalzi di umore –, si conclude con la morte.
Il carisma di Nancy Wexler deve essere davvero grande. Perché dopo averla incontrata, e appena prima di ritornare in Italia, Elena Cattaneo decide che indirizzerà la sua futura ricerca verso la comprensione e, magari, la cura di questa malattia: la Còrea di Huntington.
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Il ritorno in Italia
Nel 1991, dunque, Elena Cattaneo è di nuovo a casa, con una grande esperienza maturata in America in un settore poco conosciuto, quello delle staminali neurali, e con un progetto ancora in bozza, ma piuttosto ambizioso: studiare le cellule e combattere la Còrea di Huntington. Torna a lavorare nel laboratorio dal quale è partita: quello di Adriana Maggi. Ma gli interessi scientifici sono ormai diversi. «Sentivo che non potevo lavorare in quel gruppo, che si occupava di altro. Sentivo che dovevo fare qualcosa di testa mia». Già, ma come?
I primi mesi sono pieni di impegni. Scrivere la tesi per il Dottorato in Biotecnologie Applicate alla Farmacologia, regolarmente conseguito proprio nel 1991. Poi, nel 1992, nasce la sua prima figlia. Ma a trent’anni nella testa di Elena Cattaneo frullano i medesimi pensieri riguardo alla sua attività professionale: «Avevo tanti interrogativi sulla mia vita, sul mio lavoro, avrei voluto fare scienza qui a Milano, ma come l’ho vista fare e come l’ho vissuta negli Stati Uniti».
Tuttavia, come recita il titolo di una fortunata trasmissione televisiva di quel periodo, Milano non è negli USA: Milano è Italia. È possibile fare scienza in Italia come negli Stati Uniti? «Ci vuole fortuna, una fortuna spaventosa. La mia fortuna si chiama Rodolfo Paoletti. Perché nel momento in cui ho manifestato i miei dubbi, che non riuscivo a capire come muovermi, dove andare, che tra le opzioni che avevo di fronte prendevo in considerazione anche quella di lasciare la ricerca, lui mi ha detto: “Lei non va da nessuna parte, lei resta qui”. E mi ha, non so che parola usare, agganciato a un altro laboratorio dove, secondo lui, potevo crescere».
Il laboratorio cui Elena Cattaneo viene momentaneamente “agganciata” è quello di Stefano Govoni, un neurofarmacologo che studia le basi biologiche dell’Alzheimer, un campo in qualche modo affine a quello in cui vorrebbe lavorare la giovane ricercatrice. L’Alzheimer è una malattia degenerativa come l’Huntington. «Sono stata nel suo gruppo due anni, potendo fare le mie cose e potendo chiedere in piena autonomia finanziamenti. Che ho effettivamente chiesto e ottenuto».
In questo periodo Elena Cattaneo non ha alcuna “posizione” accademica: il suo futuro resta avvolto nelle nebbie. Ma ha un presente niente male: un laboratorio dove lavorare; uno stipendio, per quello che oggi chiameremmo un progetto a termine, assicuratogli per due anni a partire dal 1993 dalla Fondazione Nancy Wexler; finanziamenti non eccezionali, ma neppure trascurabili, per condurre le sue ricerche.
Insomma, non può lamentarsi. Tanto più che la fortuna, al contrario del postino di un noto film, può bussare anche due volte alla porta di una ricercatrice capace di coglierla. Nel 1994 Stefano Govoni lascia Milano per assumere la direzione del Dipartimento di Farmacologia Sperimentale e Applicata presso l’Università di Pavia. E, ancora una volta, Rodolfo Paoletti guarda lontano e si assume una responsabilità niente affatto banale e, in ogni caso, per nulla scontata: convoca Elena Cattaneo e le propone, quasi le impone: «Si occupi del laboratorio di Govoni. E lo faccia rendere».
Fortuna sfacciata. Ma meritata. Perché riconosciuta e afferrata al volo. «Col tempo ho capito che quello in cui un giovane ricercatore torna in Italia dopo un’esperienza all’estero è il momento più critico e bisogna avere, appunto, fortuna. In questi anni ho visto tanti colleghi bravi, capaci, che o non hanno avuto fortuna o non hanno saputo “metterla insieme”, perché la fortuna è anche capacità di mettere insieme tante micro situazioni. Io in quel 1994 non ero niente, non avevo alcuna posizione universitaria, però ho accettato di lavorare in laboratorio e mi sono cercata comunque dei finanziamenti. Ora Paoletti stava decidendo di affidare a me – a una signora nessuno – e non a un docente con una posizione accademica definita i pochi metri quadri, trenta, del laboratorio di Govoni. Era una grande opportunità, che non dovevo perdere. Il messaggio che ho sempre ricevuto da Rodolfo Paoletti è di guardare avanti, in alto. E se una persona così ti dice che non devi andare da nessun’altra parte, che devi restare lì, e ti affida un laboratorio, sia pure di 30 m2, tu devi credergli. Devi credere a lui più che a chiunque altro. E io ho creduto in Paoletti più che a me stessa. Sono rimasta. Nella mia condizione così precaria, ma così promettente. Ho capito di avere una grande possibilità e non me la sono lasciata scappare».
E così, in pochi mesi, Elena Cattaneo può già cogliere i primi frutti. Nel 1994 nasce sotto la sua direzione il Laboratorio sulle cellule staminali e le malattie degenerative. E nel 1995 Elena diventa ricercatrice, assumendo finalmente una posizione definita nella struttura universitaria. In quel medesimo anno, il 1995, per i suoi progetti di ricerca sull’Huntington, ottiene 25 milioni da Telethon (la Fondazione nata nel 1990 e presieduta da Susanna Agnelli che raccoglie fondi anche attraverso campagne televisive e finanzia la ricerca sulla distrofia muscolare e le altre malattie genetiche) e l’equivalente in dollari di altri 25 milioni di lire da parte della Alzheimer Association di Chicago. «I due finanziamenti, oltre al loro valore economico non banale, costituiscono una potente iniezione di fiducia: forse le mie idee, mi sono detta, non sono poi così balzane».
Sono soldi che giungono al momento giusto. Non solo perché sostengono il neonato Laboratorio. Ma anche e soprattutto per motivi squisitamente scientifici. Nei primi tempi dopo il ritorno dagli USA, le ricerche di Elena Cattaneo sono come sdoppiate, corrono in parallelo. Da una parte la ricercatrice cerca di utilizzare le conoscenze e le tecniche acquisite presso il MIT per continuare a studiare le cellule staminali neurali, dall’altra intraprende lo studio delle basi neurobiologiche della Malattia di Huntington.
Ma a partire dal 1993 le due strade hanno cessato di correre in parallelo e iniziano a incrociarsi. Nel marzo di quell’anno, infatti, l’Huntington’s Disease Collaborative Research Group di Nancy Wexler annuncia di aver individuato il gene dell’Huntington: si trova sul braccio più corto del cromosoma 4 e viene chiamato IT-15. Il gene codifica per una proteina, che viene chiamata huntingtina. Ogni volta che il gene muta, codifica per una huntingtina a sua volta mutante. La mutazione del gene consiste, in genere, nella acquisizione ripetuta di 3 paia di basi nucleotidiche (CAG). Anche la proteina alterata per cui codifica il gene mutante acquista una “coda” aggiuntiva, più o meno lunga, rispetto alla huntingtina sana ed entra in uno stato definito di overdrive: in altri termini diventa tossica, formando aggregati cellulari che “intasano” i neuroni e generano la malattia.
La scoperta ha una immediata ricaduta sulla ricerca di Elena Cattaneo. «Ho pensato: ora che c’è il gene posso metterlo in cellula e verificare cosa fa di male quel gene malato nelle cellule sane». È a questo punto che le strade finora parallele si incrociano. «Ho associato le capacità di lavorare su cellule in vitro, maturata con lo studio delle staminali, e la conoscenze sulla Malattia di Huntington, iniziando a lavorare allo studio della Còrea in vitro».
L’idea di Elena Cattaneo è, dunque, quello di associare lo studio delle cellule staminali e lo studio dell’Huntington. Che non sia un’idea balzana lo dimostra il fatto che molti la prendono sul serio: il suo Laboratorio sulle cellule staminali e le malattie degenerative nasce per volontà di Paoletti; riceve i finanziamenti di Telethon e della Alzheimer Association di Chicago, oltre a quelli della Nancy Wexler Foundation; e, a partire dal 1997, partecipa sia alla Coalition for the Cure promossa dall'Huntington's Disease Society of America (HDSA di New York) sia alle attività di ricerca dell’Hereditary Disease Foundation (HDF di Santa Monica, in California).
Ma che non sia un’idea balzana lo dimostra soprattutto il successo scientifico, Il 14 giugno 2001, infatti, la rivista Science pubblica un articolo firmato da Elena Cattaneo e dal suo gruppo intitolato: «Loss of Huntingtin-Mediated BDNF Gene Transcription in Huntington's Disease»: perdita della capacità di trascrizione della BDNF regolata dalla huntingtina nella Malattia di Huntington.
Il gruppo – costituito dai milanesi, da un’equipe della University of British Columbia e da altri ricercatori di centri americani e finlandesi – dimostra che la normale funzione della huntingtina è la regolazione della trascrizione del Brain-derived neurotrophic factor (BDNF), una proteina che appartiene, per così dire, alla famiglia del Nerve Growth Factor (il fattore di crescita neuronale, NGF, su cui Elena Cattaneo ha già lavorato) e che svolge un ruolo essenziale per la sopravvivenza dei neuroni in quella parte del cervello chiamata corpo striato dove è massima la devastazione in caso di Malattia du Huntington.
L’idea di Elena Cattaneo e del suo gruppo è quella di procedere lungo un percorso di ricerca in tre tappe. In primo luogo, studiare la fisiologia del sistema nei topi: ovvero verificare qual è la funzione della huntingtina in cellule sane della corteccia cerebrale dei piccoli mammiferi. Queste cellule producono neurotrofine e in particolare BDNF, la quale, trasferita nel corpo striato, aiuta la sopravvivenza dei neuroni striatali e stimola lo sviluppo di nuove connessioni. Il gruppo Cattaneo si accorge che la presenza della huntingtina normale favorisce la produzione delle neurotrofine, in principal modo del BDNF.
Il secondo stadio della ricerca consiste nella verifica di cosa succede nelle cellule sane dei topi quando viene iniettata la huntingtina mutata. L’effetto trovato è chiaro: la produzione di neurotrofine e, in particolare, di BDNF crolla.
Nel terzo stadio della ricerca il gruppo di Elena Cattaneo verifica che il meccanismo individuato nei topi è il medesimo anche nell’uomo. I test di dose-dipendenza e l’analisi dei tessuti del cervello di pazienti affetti dalla Còrea dimostrano in maniera molto chiara che c’è una produzione ridotta di BDNF nella corteccia cerebrale delle persone malate e che, di conseguenza, c’è un livello inferiore della neurotrofina nel loro corpo striato rispetto a quello delle persone sane.
In conclusione: il lavoro di Elena Cattaneo e dei suoi consente di spiegare i tre passaggi fondamentali del meccanismo molecolare che provoca la Malattia di Huntington: la huntingtina sana ha un ruolo benefico per il cervello, perché produce BDNF; la huntingtina mutata inibisce la produzione di BDNF; senza BDNF i neuroni del corpo striato non hanno un supporto neurotrofico sufficiente (ovvero non riescono a sopravvivere e a svilupparsi) e muoiono; la morte dei neuroni striatali porta poi alla malattia conclamata.
Questo meccanismo non è in alternativa al meccanismo già noto della malattia, quello che riguarda, per così dire, la “tossicità intrinseca” del gene IT-15 mutato che determina la formazione di aggregati intorno alla huntingtina mutata. È un meccanismo aggiuntivo. La Còrea è determinata sia dall’impazzimento dei neuroni a causa degli aggregati sia dalla morte dei neuroni del corpo striato privi di BDNF.
«Ma ci è subito chiara anche un’altra cosa. la possibile applicazione pratica di questa conoscenza, per così dire, di base: se un giorno riusciremo a iniettare huntingtina sana nella corteccia dei malati e non solo nelle cellule in vitro, potremmo guarirli». La speranza riguarda non solo i pazienti di Huntington, perché il medesimo meccanismo determina almeno sette diverse malattie neurodegenerative.
Per questo Elena Cattaneo dichiara alla stampa: «Non vi sarà una medicina pronta già domani, come frutto di questa ricerca. Ma ora abbiamo una nuova idea su come sviluppare la terapia che, con adeguati finanziamenti, potrebbe realizzarsi in un futuro molto vicino. Prima che il trattamento possa essere proposto, dobbiamo infatti conoscere esattamente in quale modo l'huntingtina normale comunica al gene BDNF al fine da incrementare la sua attività. Siamo convinti che questa ricerca progredirà molto rapidamente nei prossimi mesi».
L’improvvisamente famosa Professoressa Cattaneo
L’articolo pubblicato su Science non passa inosservato. Né all’estero, né in Italia. A meno di quarant’anni Elena Cattaneo – anzi, la professoressa Elena Cattaneo, perché proprio nel 2001 la ricercatrice vince il concorso per Professore associato dell’Università di Milano – diventa “improvvisamente famosa”, per usare l’espressione usata da uno dei maggiori biografi di Albert Einstein per descriverne la rapida crescita di notorietà dopo la conferma osservativa, nel 1919, delle previsioni contenute nella teoria della relatività generale, sia tra gli addetti ai lavori che tra il grande pubblico.
In virtù dei risultati conseguiti Elena Cattaneo riceve, in rapida successione, la Medaglia dal Presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, per gli studi sulla Corea di Huntington e sulle cellule staminali e il premio per la medicina che la rivista Le Scienze, edizione italiana dello Scientific American, la più nota rivista di divulgazione scientifica del mondo, assegna ai giovani ricercatori che si sono distinti in vari ambiti disciplinari. Possano pochi mesi e, nel 2002, il Ministero dell’Università e della Ricerca la designa quale di Rappresentante Nazionale presso l'Unione Europea per la ricerca Genomica e Biotecnologica (2003-2006), nell’ambito del VI Programma Quadro.
Il mandato ricevuto da Rodolfo Paoletti è stato rispettato: Elena ha fatto rendere e come i talenti che le erano stati affidati. Ma non per questo tira i remi in barca. Anzi, il viaggio è appena iniziato.
Intanto nel 2003 diventa Professore ordinario presso il Dipartimento di scienze farmacologiche dell’Università Statale di Milano. In quel medesimo anno con il suo gruppo pubblica su Nature Genetics i risultati di una nuova ricerca, in vitro e su animali, che consentono di aumentare le definizione di dettaglio nella descrizione dei meccanismi di funzionamento, fisiologici e patologici, della huntingtina. In particolare il gruppo di Elena Cattaneo spiega come l’huntingtina agendo nel citoplasma promuove l’accensione nel nucleo del gene che codifica per il BDNF: attaccando i suoi nemici o, detta in maniera più rigorosa, inattivando gli inibitori. In pratica la huntingtina lavora nel citoplasma della cellula, “sequestrando” alcune proteine, come il “fattore di trascrizione” REST (Repressor Element Silencing Transcription), impedendo loro, in questo modo, di migrare nel nucleo e “spegnere” il gene che codifica per il BDNF. Nel Dna presente nel nucleo della cellula, infatti, esiste un tratto, chiamato NRSE (Neuron Restrictive Silencer Element), che funziona da “silenziatore”. Quando il fattore REST entra nel nucleo si lega al tratto NRSE e “silenzia” il gene che lo contiene, ovvero gli impedisce di esprimersi e di codificare per la produzione di BDNF. Il gioco è complicato, ma il risultato netto è chiaro: la huntingtina sana favorisce la produzione di BDNF perché rende inattivi i suoi nemici.
Nel loro articolo, Elena Cattaneo, Chiara Zuccato, Marzia Tartari e il resto del gruppo dimostrano che il tratto NRSE è presente non solo nel gene che codifica per il BDNF, ma anche in altri 20 geni, che si accendono esclusivamente nei neuroni. E che, dunque, la huntingtina ha un ruolo a largo spettro nel buon funzionamento delle cellule neurali.
I risultati di questa ricerca di base aprono le porte a una ricerca più applicata. «Il progetto – spiega Elena Cattaneo – si basa su una semplice idea: ora che abbiamo capito come funziona il meccanismo, potremmo cercare di realizzare farmaci capaci di sequestrare il REST proprio come fa la huntingtina». Il lavoro a Milano prosegue su questa linea. E il gruppo nell’agosto 2007 pubblica sul Journal of Biological Chemistry i risultati di un lavoro pilota che ha consentito di individuare tre piccole molecole capaci di imitare la huntingtina sana, sequestrare la proteina REST e, dunque, regolare l’espressione del tratto NRSE in molti geni.
Si tratta di uno studio pilota, appunto. Il farmaco inibitore del REST non è ancora pronto. «Ma questo è un progetto nel quale crediamo molto e su cui stiamo ancora oggi lavorando. Abbiamo dati non ancora pubblicati che sono molto interessanti».
Le staminali embrionali
Ma intanto nel laboratorio di Elena Cattaneo si è verificata una transizione importante. «Nel 2005 abbiamo lasciato perdere le staminali adulte e ci siamo messi a lavorare sulle staminali embrionali, perché dalle adulte ricavavamo poco in quanto, a tutt’oggi, qualsiasi staminale adulta non è in grado di produrre i neuroni che ci interessano, che invece si possono ricavare dalle embrionali».
In realtà, le transizioni sono due. Perché negli stessi anni e proprio in seguito alle ricerche sulle staminali embrionali, Elena Cattaneo esce dal chiuso del laboratorio e inizia a partecipare in maniera sempre più attiva e determinata al dibattito pubblico sulla scienza.
Ma, per comprendere questi passaggi, conviene fare ancora un passo indietro e ritornare al 1998, quando James Thomson, presso l’University of Wisconsin di Madison, realizza un autentico breaktrough, una scoperta che segna una svolta nella storia della ricerca sulle cellule staminali, portandola al centro dell’attenzione non solo degli esperti ma anche del grande pubblico: isola per la prima volta le cellule staminali embrionali umane.
In quel medesimo anno John Gearhart, della Johns Hopkins University, riesce a ottenere per la prima volta cellule staminali embrionali umane da una popolazione di cellule nel tessuto fetale gonadico: si tratta delle cellule germinali primordiali, destinate a diventare cellule uovo o spermatozoi.
Il motivo dell’attenzione degli scienziati per queste scoperte è chiara: le cellule staminali embrionali derivate da blastocisti sono, per definizione, pluripotenti. Si trasformano in tutte e ciascuna le cellule differenziate di un organismo adulto, che negli uomini, come abbiamo detto, sono di almeno 250 tipi. Poter studiare le cellule embrionali umane significa dunque accelerare la comprensione dei meccanismi più profondi della vita dell’uomo e, in particolare, dell’ontogenesi, ovvero dello sviluppo dell’organismo a partire dallo zigote, la prima singola cellula fecondata. Ma significa anche, almeno in prospettiva, una svolta nella medicina rigenerativa: perché mette in condizione di lavorare, in linea di principio, alla ripristino e alla rigenerazione delle cellule di tutti i tessuti, di tutti gli organi, di tutte le parti del corpo che si ammalano, aprendo, appunto, una prospettiva di cura a tante e gravi malattie che affliggono l’umanità: dal cancro all’infarto, dall’Alzheimer alla stessa Còrea di Huntington.
Ma anche il motivo della grande attenzione suscitata dalle cellule staminali embrionali umane nel grande pubblico è chiaro: la ricerca sugli embrioni umani non è solo ricca di promesse, ma ha così tante implicazioni legali, etiche e religiose da diventare oggetto di una dibattito culturale e politico che per vastità e intensità ha rari precedenti nella storia, pure ricchissima, dei rapporti tra scienza e società.
Il dibattito è molto acceso negli Stati Uniti, dove esiste una norma di legge – il Dickey-Wicker Amendament, approvato dal Congresso e firmato dal Presidente democratico Bill Clinton nel 1995 – che proibisce il finanziamento con fondi pubblici della ricerca scientifica in cui embrioni umani sono distrutti o appositamente creati. Sull’onda delle polemiche generate dalla scoperta di Thomson, nel 2001 il nuovo Presidente repubblicano George W. Bush non solo reitera la restrizione sull’uso degli embrioni, ma stabilisce che è concesso finanziare con fondi pubblici solo le ricerche sulle staminali embrionali umane ricavate da 21 linee già esistenti ed estratte da embrioni prima del mese di agosto di quell’anno.
Si tratta di una scelta politica non priva di ipocrisia. Gli Stati Uniti vantano una tradizione e un presente di ricerca finanziata da privati molto ricca e molto solida. Lo studio delle staminali embrionali umane può tranquillamente continuare nei laboratori finanziati con fondi diversi da quelli pubblici.
In Europa ad animare il dibattito è la netta presa di posizione del Vaticano, contrario a ogni uso di embrioni umani a fine di ricerca e di fatto a ogni ricerca sulle cellule staminali embrionali umane. Il Vaticano è molto attivo in questa campagna. Ed è anche per questo che in Europa la ricerca sulle staminali embrionali umane procede a macchia di leopardo: molto spedita in alcuni paesi, molto frenata in altri. La stessa Unione Europea per molti anni, almeno fino al 2005, evita di finanziare progetti che le coinvolgano.
In Italia, sull’onda della polemica etica e religiosa, il Parlamento vota nel 2004 una legge – la legge 40 sulla procreazione assistita – che limita fortemente (ma non completamente) la ricerca sulle staminali embrionali umane. In pratica è fatto esplicito divieto di derivare cellule staminali da embrioni, anche sovrannumerari (embrioni prodotti nel corso delle pratiche di fertilizzazione in vitro e non impiantati in utero, congelati a tempo indefiniti, ma destinati a deteriorarsi e poi a morire). La legge non impedisce, tuttavia, di fare ricerca su cellule staminali embrionali umane “già derivate”. Un dettaglio importante capace, come vedremo, di coinvolgere in maniera piuttosto intensa Elena Cattaneo, sia in laboratorio che nella pubblica arena.
Il dibattito pubblico al color bianco in Italia, come nel resto del mondo, è alimentato anche dal fatto che, dopo il 1998, ha subito un’accelerazione anche la ricerca sulle cellule staminali adulte (dette anche somatiche), molte delle quali mostrano una notevole plasticità. Cellule staminali estratte dal midollo osseo, per esempio, hanno dimostrato di potersi trasformare non solo in cellule differenziate del midollo osseo, ma anche in cellule del fegato, del cervello, dei muscoli. La plasticità delle staminali adulte, tuttavia, è sempre parziale. Nessuna di loro ha mostrato di avere una plasticità (una pluripotenza) paragonabile a una cellula embrionale.
Nasce così una certa competizione, del tutto artificiosa, tra chi propone una ricerca “sulle sole staminali adulte”, considerata “sufficiente e di successo” in contrapposizione alla maggioranza della comunità scientifica, che propone una ricerca “anche sulle staminali embrionali”, considerata “necessaria e complementare” rispetto a quella sulle staminali adulte. È vero che la contrapposizione artificiosa tra i due filoni di ricerche viene proposta soprattutto nel dibattito pubblico (in Italia da bioeticisti, intellettuali e politici vicini al Vaticano). Ma è anche vero che viene fatta propria anche da alcuni uomini di scienza, persino da alcuni ricercatori del settore. Insomma, molti scienziati si schierano. E su fronti opposti. Il che produce una polemica interna alla comunità scientifica che si sviluppa nella pubblica arena. Una polemica tanto più intensa perché chi propone la ricerca “sulle sole staminali adulte” chiede che quella sulle “staminali embrionali umane” sia limitata, se non del tutto impedita, per legge.
Elena Cattaneo è cattolica ed è, come abbiamo visto, attivamente impegnata nella ricerca con le staminali adulte. Dal 2002, per esempio, è coordinatrice di un programma nazionale di ricerca sulle cellule staminali neurali (il programma www.neuralstemcells.it) che ha come obiettivo il trattamento delle malattie neurologiche del sistema nervoso centrale mediante la terapia cellulare. L’idea è di trovare il modo di sostituire le cellule danneggiate con nuove cellule. E gli studi si basano sull'identificazione e sull'isolamento di cellule staminali neurali e sulla dimostrazione della loro capacità di integrarsi in diversi tessuti, acquisendo fenotipi specifici: che tradotto dal gergo dei neurofisiologi significa trovare il modo di far trasformare una cellula staminale in una specifica cellula adulta differenziata: per esempio in un neurone striatale.
Ma sebbene sia cattolica e impegnata nella ricerca sulle staminali adulte, Elena Cattaneo non accetta – e lo sostiene per l’appunto in pubblico – né l’idea che la ricerca sulle staminali embrionali umane possa essere limitata, né tantomeno che possa essere contrapposta alla ricerca sulle staminali adulte: «Sono piste di ricerca entrambe importanti, ma per molti versi diverse e complementari e, dunque, entrambe necessarie. In particolare, lo studio delle staminali embrionali produce conoscenze che sono utili e applicate anche nello studio e nell’utilizzo delle staminali adulte».
Ma al di là del merito scientifico – che naturalmente conta – c’è una valenza del dibattito che è più profonda e generale: riguarda la libertà di ricerca, il rapporto tra democrazia e scienza, il rapporto tra scienza e religione. È per tutte queste ragioni che Elena Cattaneo “si schiera” e prende parte attiva nella campagna per il “Sì” al referendum per l’abrogazione di alcuni articoli della legge 40 che si tiene il 12 e il 13 giugno 2005.
Il referendum non ottiene il quorum. E sebbene i “sì” depositati nelle urne prevalgano nettamente sui no”, gli articoli messi in discussione non vengono abrogati. Il risultato è stato influenzato da una forte campagna per l’astensione, appoggiata dal Vaticano, in cui uno degli argomenti era: «le gente non ne sa abbastanza per poter giudicare». Ma un altro argomento, usato anche da alcuni ricercatori, era proprio quello dell’”inutilità della ricerca sulle staminali embrionali”.
In realtà Elena Cattaneo e il suo gruppo pensano che la ricerca sulle staminali embrionali non solo sia utile, ma in molti settori indispensabile. E, infatti, proprio nel 2005 compiono la transizione cui abbiamo accennato e iniziano a lavorare sulle cellule staminali embrionali umane.
Non si tratta di un passaggio improvviso. Ma della tappa di un percorso iniziato già da qualche anno. Anzi proprio dal 1998, l’anno in cui James Thomson ha isolato le staminali embrionali umane nelle blastocisti. «Proprio quell’anno conobbi Austin Smith, un ricercatore che insegnava Biologia delle Cellule Staminali all’università di Edimburgo. Avevo letto alcuni suoi articoli e lo avevo invitato a tenere un seminario qui da noi, a Milano. Aveva messo a punto un metodo sicuro ed efficiente per riconoscere le staminali nel cervello, una sorta di “carta d’identità”». Il seminario riguarda le staminali adulte del cervello. Ma Austin Smith è uno dei pochi al mondo che lavora anche sulle staminali embrionali. Ed è uno dei pochi che si batte contro l’idea che le “vere staminali” siano quelle adulte, stabili nel tempo e perennemente presenti nel corpo di un organismo, mentre le embrionali sarebbero staminali “non vere”, perché effimere. In realtà, sostiene Austin Smith, le embrionali sono “vere” staminali, per via di quella loro capacità di trasformarsi in tutte le cellule differenziate di un organismo adulto.
«È stato quell’incontro a farmi capire da dove ripartire. Le abbiamo osservate al microscopio, le staminali embrionali, con occhi nuovi. Le abbiamo viste tutte uguali, che se ne stanno lì immutate per giorni e giorni, insieme, belle. È stato davvero irresistibile: dopo l’incontro con Austin Smith abbiamo deciso di iniziare a studiarle. Prima le staminali embrionali di topo. Poi le staminali embrionali umane».
A spingere verso questa transizione non è solo lo stimolo intellettuale ricevuto fin dal primo incontro con Austin Smith. Ma anche il fatto, pratico, che le cellule staminali adulte si riproducono con una certa difficoltà e soprattutto hanno una plasticità molto più ridotta rispetto alle embrionali. «Per quanti sforzi abbiamo fatto, non siamo stati in grado di ottenere dalle staminali neuronali isolate i neuroni differenziati che ci interessano per le nostre specifiche ricerche, i neuroni striatali che degenerano nella Malattia di Huntington». Le cellule staminali embrionali tratte da blastocisti sono invece pluripotenti. Riescono a produrre cellule differenziate in gran quantità e con grande plasticità. «L’idea è che con le staminali embrionali saremmo riusciti a ottenere i neuroni striatali e ne avremmo ottenuti in quantità sufficiente per trapiantarli».
Non è stato facile coltivare questo progetto. Perché non è facile lavorare con le staminali in generale e le embrionali in particolare. Non è facile acquisire competenze d’avanguardia. «Ci sono voluti anni e l’impegno di molte persone, nel nostro laboratorio. Ma oggi abbiamo acquisito i mezzi per andare dove vogliamo. E uno dei traguardi è la medicina rigenerativa per la cura della Còrea di Huntington».
Naturalmente c’è la consapevolezza che neppure le embrionali sono scevre da problemi. «Il maggiore è che hanno una forte propensione a generare teratomi, un tumore benigno tipico dei tessuti embrionali. Lo sviluppo dei teratomi è un indicatore della pluripotenza delle staminali embrionali. Nel senso stretto che usiamo lo sviluppo dei teratomi come prova che un gruppo di cellule è costituito davvero da staminali embrionali. Il guaio è che se provi a trapiantare direttamente le staminali embrionali in un tessuto si formano teratomi. È uno dei motivi per cui nessun clinico oggi propone trapianti di staminali embrionali. Solo di recente negli USA è stato autorizzato un test clinico con le embrionali. Il problema dal punto di vista della medicina rigenerativa è, dunque, come impedire che le staminali embrionali generino teratomi. Come? Una possibilità è quella che noi stiamo sperimentando: il pre-indirizzo in vitro. In pratica: hai bisogno di neuroni striatali? Indirizzi con opportuni segnali biochimici in laboratorio lo sviluppo delle embrionali verso la formazione di cellule neurali, ti fermi a un certo stadio di sviluppo (che dobbiamo ancora da definire) e poi le trapianti in sicurezza, perché quelle che trasferisci nel cervello di una persona non sono più staminali embrionali ma progenitori del neurone. Il differenziamento completo avviene poi in vivo, dopo il trapianto. Oggi tutta la nostra ricerca è volta a sviluppare dei protocolli, dei metodi di coltura che spingano le staminali embrionali a differenziarsi nelle cellule desiderate, nel nostro caso i neuroni, e che non “scappino”, diventando invece cellule cardiache, del fegato o del muscolo. Il processo deve essere efficiente, di grande qualità, deve fornire il progenitore giusto e senza contaminazione, e questo progenitore deve essere ancora sufficientemente potente da dare origine ai neuroni del sottotipo che ci interessano (nel nostro caso i neuroni striatali), poiché noi non vogliamo ottenere neuroni di qualsiasi tipo, ma vogliamo ottenere neuroni di un sottotipo specifico».
Il progetto non è completato. Ma alcune tappe intermedie sono state raggiunte. «Conosciamo una di queste tappe intermedie in vitro davvero spettacolare. Diciamo a una cellula staminale embrionale di neuralizzare, cioè di far finta di entrare nel percorso per diventare sistema nervoso, quindi di formare il tubo neurale. Riusciamo davvero a produrre una specie di sezione di tubo neurale che chiamiamo rosette. In pratica le staminali embrionali ripercorrono in vitro il percorso di differenziamento neurale che avviene in vivo. Si tratta di una tappa di incredibile interesse, perché consente di studiare tutti gli stadi dello sviluppo cellulare. Siamo abbastanza avanti. Sappiamo che se nella coltura mettiamo l’ingrediente A otteniamo la differenzazione in un certo tipo di neuroni, se mattiamo l’ingrediente B otteniamo altre cellule neurali. Stiamo cercando di ottenere a comando e con alta efficienza proprio le cellule del corpo striato, quelle che degenerano nell’Huntington».
Uno dei primi passi lungo questo percorso a tappe il gruppo Cattaneo lo compie già nel 2004, quando entra nel programma EuroStemCell. È l’unico progetto del VI programma quadro finalizzato allo studio delle cellule staminali. Il primo in assoluto finanziato dall’Unione Europea. La dimostrazione che il Vecchio Continente ha deciso finalmente di muoversi ...
Ma si ferma subito. Bloccato in partenza. I 15 ministri dalla ricerca (nel 2004 l’Unione Europea è ancora composta da 15 paesi membri) decidono un anno di moratoria. Molto attiva in questa politica attendista è il ministro italiano, Letizia Moratti, contraria all’uso delle staminali embrionali.
La moratoria si chiude comunque l’anno successivo e nel 2005, dunque, si aprono i primi bandi europei. «È in quell’anno che i laboratori dell’Unione iniziano a lavorare effettivamente sulle staminali embrionali umane». Ed è in quell’anno che anche il laboratorio di Elena Cattaneo inizia a lavorare. «Siamo i primi in Italia a chiedere e a ottenere l’autorizzazione del comitato etico dell’Università. Cominciamo da zero, senza soldi, raschiando il fondo del barile. Tutto quello che abbiamo sono 10.000 euro, ottenuti nell’ambito appunto del progetto europeo».
Il budget iniziale potrebbe sembrare (ed è) piuttosto ridotto, perché la ricerca sulle staminali è particolarmente cara: richiede molti reagenti costosi. Ma c’è, in compenso, una forte determinazione.
Alimentata anche dal fatto che il gruppo dimostra in concreto che anche in Italia la ricerca sulle staminali embrionali umane si può fare. La legge 40 vieta infatti di “derivare” cellule staminali dagli embrioni, ma non vieta la ricerca su cellule “già derivate”. All’estero ci sono linee di cellule staminali embrionali ed essendo quelle cellule “già derivate” possono essere impiegate anche in Italia. Il gruppo di Elena Cattaneo ne acquista quanto può negli Stati Uniti, proprio dal laboratorio di James Thomson. Sono cellule che appartengono a una linea derivata nel 2001.
Una strada è stata aperta. E si inizia a camminare spediti. Nel 2006 Elena Cattaneo contribuisce a fondare – insieme a Giulio Cossu (Dipartimento di Biologia), Fulvio Gandolfi (Dipartimento di Scienze Animali) e Ivan Torrente (Dipartimento di Scienze Neurologiche) – il Centro Interdipartimentale di Ricerche sulle Cellule Staminali dell’Università di Milano (UniStem). Il centro ha l’obiettivo non solo di promuovere la ricerca sulle staminali (comprese quelle embrionali) e di coordinare e integrare le informazioni, ma anche di sensibilizzare l’opinione pubblica. Elena Cattaneo è eletta direttrice di UniStem.
È un nuovo successo personale. Che si aggiunge al Premio Marisa Belisario per la Ricerca ottenuto l’anno prima e alla nomina, proprio nel 2006, a Cavaliere Ufficiale della Repubblica Italiana da parte del Presidente, Carlo Azeglio Ciampi.
Intanto in laboratorio continua e anzi si accresce l’attività di ricerca sulle staminali embrionali. Nel 2007 il gruppo ottiene un finanziamento europeo di 400.000 euro nell’ambito di un progetto dedicato in buona parte alle embrionali umane. Si tratta, finalmente, di una cifra importante. Che consente al laboratorio di crescere, sia in termini di spazio (dai vecchi 30 m2 si passai ai 40 m2) sia, soprattutto, in termini di risorse umane. Il gruppo si concede una persona in più. A partire da questo momento il laboratorio milanese inizia ad acquistare cellule staminali embrionali umane in Svezia, dal gruppo di Outi Hovatta del Karolinska Institute, e in Gran Bretagna, dal gruppo di Peter Andrews della Sheffield University. Persone che Elena Cattaneo conosce bene, perché fanno parte con lei di EStools, il Consorzio europeo che raggruppa i maggiori centri di ricerca dell’Unione nel campo delle staminali embrionali umane.
Ma l’attività di ricerca in laboratorio, ormai, è sempre più affiancata nella vita di Elena Cattaneo da un’attività più estesa, che tocca la politica della ricerca, la politica tout court, l’etica, la comunicazione. Insomma tutto quanto riguarda i rapporti sempre più interpenetrati tra scienza e società. È così che la ricercatrice milanese entra a far parte, nell’anno 2007, del Comitato Nazionale di Bioetica, organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Subito è nominata vicepresidente. Ma, altrettanto rapidamente, Elena Cattaneo dimostra che non è disponibile a facili compromessi. E prima che l’anno cessi si è già dimessa.
Nei dettagli la vicenda è complessa. Ma nella sostanza è riducibile a due visioni del mondo e dell’etica. Lei, Elena Cattaneo, dell’etica della ricerca ha un’idea precisa. E nulla meglio delle parole che ha scritto di recente in un testo Raccontare la scienza ce ne restituisce l’essenza: «Ho sempre considerato la ricerca come un’attività fortemente etica. Ti prende cuore, mente, mani. Ti chiede di innamorarti della tua idea. Poi ti chiede di verificarla al bancone di laboratorio. Infine ti restituisce i risultati: una risposta. Non sarà subito e non sarà dopo poca fatica e pochi esperimenti. Qualunque essa sia dovrai accettarla. Non potrai mentire se le evidenze diranno che il semaforo è rosso. Dovrai girare pagina. Ma quante volte spererai che quel semaforo si colori di verde. Quando ciò succede, avrai vinto e il risultato della tua ricerca e della tua intuizione diventerà visibile. Metterai tutto a disposizione affinché altri verifichino e poi usino il tuo risultato. Questa, per me, è etica. Qualcosa che risiede nell’intimo della coscienza individuale e che porta con sé molto altro di fondamentale: il pensiero e la speranza che ricercando bene si possa essere utile agli altri».
È chiaro che, con questa visione dell’etica, fondata sulle risposte tormentate alla propria coscienza individuale tesa alla ricerca del bene collettivo, Elena Cattaneo trova difficoltà a dialogare con chi, nel Comitato Nazionale di Bioetica, propone di elaborare norme prescrittive assolute che tutti, indipendentemente dalla propria coscienza, devono rispettare.
In nome della laicità, la cattolica Elena Cattaneo lascia il Comitato Nazionale di Bioetica.
In capo a un anno, alla fine del 2008, la ricercatrice milanese è chiamata a un’altra prova, di natura in apparenza diversa: il coordinamento dell’European Consortium for Stem Cell Theraphy in Neurodegenerative Desease, NEuroStemCell, un grande progetto di ricerca internazionale di ricerca indirizzato in maniera specifica allo studio delle cellule staminali e alla loro applicazione nella cura delle malattie neurodegenerative di particolare gravità.
NEuroStemCell è un network europeo composto da 16 gruppi di 7 diversi paesi. Ha vinto un bando dell’area salute del VII Programma Quadro dell’Unione Europea a cui hanno partecipato 14 altri cordate con altrettanti progetti. Durerà quattro anni, dovrà caratterizzare e confrontare in maniera sistematica tutte le staminali oggi note e disponibili ai ricercatori, per identificare quelle con le caratteristiche biologiche e funzionali migliori per future strategie sperimentali di medicina cellulare rigenerativa e riparativa. Per fare tutto questo ha avuto assegnato un budget davvero considerevole: 11,9 milioni di euro.
Elena Cattaneo dovrà coordinare il lavoro di 16 capi-laboratorio, 35 postdoc e 25 studenti di dottorato con modalità e tempi precisi. L’articolazione del programma prevede 6 WP (Workpackages, frammenti di lavoro intrecciati tra loro), 79 Deliverables (“prodotti” da consegnare al committente) e 211 PCP (Progress Check Point, punti intermedi di monitoraggio della progressione verso i Deliverables). Ogni anno il network dovrà consegnare un grosso rapporto (centinaia di pagine) agli esperti dell’Unione Europea. Ogni 18 mesi dovrà effettuare un’analisi critica – una specie di “tagliando” – delle performance scientifiche ottenute. La Commissione Europea può monitorare in ogni momento con propri ispettori e con ricercatori nominati ad hoc il lavoro, in termini amministrativi e scientifici.
Con il coordinamento di questo progetto Elena Cattaneo e il suo gruppo diventano uno dei punti di riferimento europei della ricerca sulle staminali e sulla biologia di base per la cura delle malattie neurodegenerative. Una grossa opportunità. Tanto più che da pochi mesi la scienza delle staminali ha subito una nuova accelerazione.
Nel marzo 2007, infatti, il giapponese Shinya Yamanaka con il suo gruppo di lavoro è riuscito a “riavvolgere il film” dello sviluppo di alcuni fibroblasti (le cellule della pelle e in generale del tessuto connettivo), riportandolo indietro fino allo stadio di cellule staminali embrionali pluripotenti. Yamanaka chiama “induced pluripotent stem cells” (iPS) le cellule della pelle ritornate bambine che promettono di differenziarsi e di diventare una qualsiasi delle 250 cellule dell’organismo umano. E, infatti, Yamanaka riesce a trasformare sia in neuroni che in cardiomiociti (cellule cardiache) le sue “staminali embrionali indotte”.
La nuova pista è davvero promettente. Tanto più che – se si provasse la totale identità tra le cellule pluripotenti estratte dai blastocisti e le cellule embrionali indotte di Yamanaka – potrebbe spazzare via ogni tipo di problema etico. Yamanaka stesso invita a non correre troppo. La perfetta identità tra embrionali da blastocisti ed embrionali indotte è tutt’altro che dimostrata. Che in ogni caso il suo lavoro non sarebbe stato possibile senza la ricerca sulle staminali embrionali. Ricerca, quest’ultima, che deve continuare.
Quasi a giustificare le sua parole, nei primi mesi del 2010 vengono pubblicati alcuni articoli su riviste importanti in cui si dimostra che le staminali indotte conservano in qualche modo memoria dell’essere state cellule adulte e, quindi, che non c’è perfetta identità tra le iPS e le embrionali tratte da blastocisti che adulte non sono mai state.
Nel frattempo il progetto europeo EStools, diretto da Peter Andrew, è pronto a includere le iPS nei suoi piani di ricerca. E ben presto anche il gruppo di Elena Cattaneo, come abbiamo detto, si trova a lavorare su queste cellule. Ottenendo buoni risultati: nel 2009, per esempio, Elena Cattaneo lavorando con Marco Onorati e altri ottiene staminali neurali a partire da iPS. «Non per trapiantarli, perché le abbiamo ricavate da soggetti a Huntington, ma perché sono un valido strumento di studio paziente-specifico in laboratorio. È come se portassimo tutto il genoma del paziente A, del paziente B, del paziente C in vitro. Quindi possiamo studiare non solo il gene della mutazione, ma anche e soprattutto l’intorno genico. Sappiamo che questo intorno è capace di influenzare la forza e, dunque, la tossicità della malattia. Ci chiediamo se e quali polimorfismi possono rendere il gene dell’Huntington più meno tossico».
In questi studi ha trovato differenza le cellule staminali embrionali derivata da blastocisti e le iPS? Possono le iPS sostituire le embrionali? «Ormai sappiamo che le cellule IPS mantengono una memoria della propria origine e, dunque, sono diverse da quelle derivate da blastocisti. Però sono sincera. Penso ci sia da studiare almeno per i prossimi 20 anni e dunque non mi azzarderei mai a dire in modo assoluto che la ricerca sulle iPS sostituisce la ricerca sulle embrionali da blastocisti».
Tutto questo dimostra che la storia della scienza non procede affatto lungo sentieri lineari e prevedibili, ma segue strade tortuose. Nessuna delle quali può essere a priori considerata inutile. Tanto meno sulla base di considerazioni ideologiche.
Ed è proprio per impedire che una di queste strade venga chiusa per decisione burocratica che, nel 2009, Elena Cattaneo esce di nuovo fuori dal laboratorio e ingaggia – insieme a Silvia Garagna dell’Università di Pavia e a Elisabetta Cerbai dell’Università di Firenze – l’ennesima battaglia per la tutela della libertà di ricerca in Italia. I fatti, in breve, sono questi. Il 29 maggio 2009 il Ministero della Sanità mette a bando 8 milioni di euro per progetti di ricerca sulle staminali, escludendo esplicitamente quelli sulle staminali embrionali. Con l’aiuto di un avvocato, Vittorio Angiolini, le tre ricercatrici ricorrono al TAR (Tribunale amministrativo regionale) del Lazio contro una esclusione che ritengono lesiva della libertà costituzionale di ricerca scientifica. Studiare le staminali embrionali, infatti, è consentito dalla legge. E il governo – sostengono le ricorrenti – non può discriminare sulla base di pregiudizi ideologici.
Il ricorso fa rumore. Soprattutto all’estero. Ne parlano le principali riviste internazionali, comprese Nature e Science. Nell’aprile 2010 il TAR pronuncia la sua sentenza: ed è una doccia fredda. Il ricorso è respinto perché, sostiene il tribunale, le ricorrenti non hanno titolo per ricorrere d’urgenza. Caso mai avrebbero titolo i rettori delle loro università.
Per nulla demoralizzate, Elena Cattaneo, Silvia Garagna ed Elisabetta Cerbai ricorrono al Consiglio di Stato. Il tribunale amministrativo superiore le rimanda al TAR, sostenendo che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio aveva ragione sui tempi d’urgenza ma deve pronunciarsi nel merito. Il TAR dovrà predisporre una nuova sentenza. Elena Cattaneo, Silvia Garagna ed Elisabetta Cerbai sono ancora in attesa di risposta.
Conclusione
Professoressa Cattaneo, siamo alle conclusioni. Sia pure momentanee. Cosa vede alla fine della sua attività di ricerca, che durerà come credo e spero ancora molti e molti anni? «Non vedo una conclusione. Vedo un altro giro di boa. Molto probabilmente non cambieremo il punto di partenza, lo studio delle staminali embrionali umane. Ma cambieremo il percorso per esplorare tutte le potenzialità di queste “vere” staminali. Perché vede io sono convinta che il mio incontro più importante con le staminali è quello con le staminali di domani».
Abbiamo iniziato questo racconto del rapporto tra Elena Cattaneo e la scienza definendolo di tipo baconiano. Parlando di ragione (il dubbio sistematico) e di emozioni (l’altruismo).
Abbiamo scoperto che, al di là di ogni retorica, è un rapporto denso, di impegno e di valori.
Professoressa Cattaneo, cosa ha trovato lei nella scienza?
«Nella scienza ho trovato tantissimo. Non solo quello che ho fatto con le mie mani. L’attività di ricerca mi ha insegnato che si apprende continuamente e si diventa scienziati giorno dopo giorno. Ed è questo che mi piace della scienza: la tortura continua delle idee, il continuo chiederti dove stai andando, il rimettere in gioco continuamente se stessi. Già, perché quello che c’è e mi piace nella scienza è proprio il dubbio e il modo in cui il dubbio è sciolto. Non posso mai dire: “La mia idea è giusta”. È il laboratorio, sono i fatti sperimentali gli unici giudici. Questo comporta che devi accettare che oggi i tuoi dati vadano bene, ma che poi, magari da qui a sei mesi, vadano rivisti. Mi piace questo percorso che ti aiuta a sviluppare una forte capacità critica su te stesso. È facile avere dubbi sugli altri, ma dubitare di sé è molto difficile. Il laboratorio ti insegna a farlo. Dico sempre che l’attività di ricerca è molto più che una serie di risultati, è un processo che ti insegna il metodo del dubbio. Cosicché spesso mi viene da pensare che, se ci fosse una società basata su questo dubbio sistematico, sul fatto che devi provare la tua idea e che una volta che l’hai provata la devi rendere pubblica, il che vuol dire che gli altri la possono verificare, sul fatto che devi accettare che il giorno dopo qualcuno ti possa smentire, che la tua idea finirà nel cestino, ma che tu devi cercare di uscire da quel cestino, beh sarebbe una società migliore. E in più nella scienza puoi trovare una soddisfazione, grande davvero: quando riesci a vedere per primo al mondo quel risultato. E allora voli … E se poi lavori in un campo come la biomedicina ti rendi conto che anche se è un passo piccolo, quel tuo arrivare per primo apre la speranza a molti. Trovo nella scienza che ci sono persone che ti mettono in mano la responsabilità di gestire le loro speranze. E io non mi tiro indietro. Me la voglio prendere questa responsabilità».
Ma la scienza nella sua quotidianità non è solo un idillio. E non è solo l’applicazione della cultura pedagogica del dubbio. È anche battaglia. Una lotta che richiede coraggio. In una lettera a Nature, pubblicata nel febbraio 2010, Elena Cattaneo, con Silvia Garagna ed Elisabetta Cerbai, scrivono: «Auspichiamo che tutti gli scienziati italiani e coloro che si occupano di ricerca di base protestino per l’insostenibile atteggiamento del governo verso la ricerca».
Nella lettera le tre ricercatrici fanno esplicito riferimento alla vicenda delle staminali embrionali. Ma è chiaro che l’appello ha una valenza generale. D’altra parte lo ha rilevato la stessa Cattaneo nell’incontro col Presidente Napolitano. O, più di recente, in un articolo che ha firmato con lo storico della medicina Gilberto Corbellini.
Professoressa Cattaneo, lei pensa che la libertà di ricerca in Italia sia limitata – attraverso tagli alla spesa pubblica e norme discriminanti – e che i ricercatori e le ricercatrici italiane stiano facendo sentire la loro voce in maniera abbastanza forte?
La risposta è articolata.
«Vede, se devo guardare alla mia storia personale ho larghi motivi di ottimismo. Quando, tornata dagli Stati Uniti, ho iniziato a fare ricerca il mio laboratorio era di soli 30 metri quadri. Più o meno quanto l’ufficio che avevo da studente al MIT. Per me, tuttavia, i trenta metri quadri sono diventati d’oro perché in quel Dipartimento, in quel laboratorio si è svolta tutta la mia storia. Che, anche in termini di metri quadri, è una storia di progressi. I 30 metri quadri sono diventati 40, con 15 persone al lavoro, e ora, da due anni e mezzo, sono diventati 500, con 23 persone al lavoro, studenti compresi! I metri quadri sono importantissimi. Perché se li chiedi e li ottieni non solo per attaccare alla porta d’ingresso un’etichetta, ma per lavorarci, beh rappresentano una grossa opportunità e una bella responsabilità. Se poi di quei 15 collaboratori iniziali vedi che due sono entrati in maniera permanente dell’Università, altri sono assegnisti, dottorandi, altri ancora sono andati all’estero e poi ritornati dall’estero, che uno è ritornato l’anno scorso dal Canada per riunirsi a noi, allora c’è anche una grande soddisfazione».
Una soddisfazione contrastata. Come dimostrano le sue esperienze Comitato Nazionale di Bioetica e ora nei tribunali amministrativi. In Italia, oltre ai governi, non c’è anche un’opinione pubblica molto ideologizzata?
«Alcune settimane fa mi hanno invitato presso l’Associazione Medici Cattolici di Milano. Ho capito che per loro non è stato facile invitarmi. Eppure alla fine ho avuto tanti complimenti. Perché se racconti quello che fai puoi incontrare certamente chi non è d’accordo. Ma tra chi la pensa diversamente, anche nel nostro paese, c’è chi è disponibile a riconoscere che esiste un’altra posizione. Che tu parli perché ci credi e non perché hai qualche interesse. Questo è il punto. Il disinteresse di fondo dello scienziato. Perché, in fondo, per cosa esistiamo? Per dare il nostro aiuto l’uno all’altro: io vivo così la mia vita. E questo lavoro mi ha insegnato che posso dare il mio contributo, che non ha senso starsene con le mani in mano. Lì all’Associazione ho detto questo. Ho detto che per me queste cellule embrionali sono talenti che non voglio sperperare. E quei giovani mi hanno girato un articolo uscito su Avvenire che è bellissimo, perché affronta i problemi del rapporto con la scienza nelle medesima prospettiva».
Negli italiani, dunque, non coglie una particolare attitudine antiscientifica. Ma a livello di istituzioni pubbliche, nella politica della ricerca, la sua visione resta quella di un’ottimista?
«No. Il problema a livello politico è che non c’è interesse per la cultura, per la scienza. Non riesco neanche a trovare le parole per dire “quanto non ci sia”. In un articolo scritto con Gilberto Corbellini per l’EMBO, l’Organizzazione europea di biologia molecolare, rileviamo che il nostro paese vive in clima elettorale permanente, per cui le strategie politiche sono quelle che ti danno il consenso a breve, mentre la scienza è per strategie a lungo termine. È per grandi statisti. È un male questo che, sia pure in modo differenziato, interessa tutti i due o tre schieramenti contrapposti. Consideri invece la Germania. Ha vissuto un periodo di recessione, come noi. Ma la Germania ha triplicato il budget per la ricerca. Ottenendo, tra l’altro, risultati economici a breve di cui ora tutti parlano. Perché loro fanno così e noi no?»
Già, perché secondo lei? C’è una responsabilità dei ricercatori italiani?
«Certo che c’è. Forse le responsabilità sono molte. Una riguarda il fatto che i ricercatori italiani non hanno presente che se vogliono avere un ruolo dirigente e vogliono cambiare la società devono pretendere la massima trasparenza e il riconoscimento del merito nell’allocazione dei fondi pubblici. Non devono adeguarsi, magari per ottenere benefici immediati. Non devono stare zitti, se la loro libertà è messa a rischio. Devono ribellarsi, quando è giusto. Devono far sentire forte la loro voce. Non è solo una questione italiana. I tentativi di erodere la libertà di ricerca vanno aumentando un po’ dappertutto. Uno particolarmente significativo si è verificato anche negli Stati Uniti, durante l’Amministrazione di George w. Bush. E potrebbe verificarsi altrove. Per questo ribellarsi non solo è giusto, ma necessario. Per questo il silenzio dei ricercatori è pericoloso. Non solo per loro e per le loro ricerche, ma per la scienza e in definitiva per la democrazia».
Elena Cattaneo ha chiuso l’articolo firmato con Gilberto Corbellini e pubblicato su EMBO il 10 dicembre 2010 parafrasando il politico, filosofo e scrittore Edmund Burke vissuto nel settecento e definito il Cicerone inglese: «La cattiva scienza fiorisce quando i buoni scienziati non fanno nulla».
Tratto da "I Nipoti di Galileo" di Pietro Greco (Baldini, Castoldi, Dalai, 2011)