Mi è capitato recentemente di sfogliare il bel libro di Luigi Fontana “Stelle da record” in cui, in maniera molto ordinata e mai noiosa, è presentata un po’ di storia dell’astronomia, traendo spunto dalla descrizione di un certo numero di stelle – da record appunto – e raccontando come si è arrivati alla loro scoperta e alla determinazione dei loro primati. Partendo da quella con moto proprio maggiore, si arriva a quella più grande (e alla più piccola), passando per la più vicina, la più luminosa, la più calda, la più giovane e così via.
In genere io non mi appassiono molto ai “record”; non
solo sono effimeri e destinati a essere battuti più o meno rapidamente, ma
nemmeno hanno un valore particolare per il solo fatto di essere tali, tranne
che in rare situazioni in cui raggiungono un limite teorico o addirittura lo
oltrepassano (costringendo a una revisione della teoria dopo una eventuale
conferma della violazione). Quando, ad esempio, si misurarono, per le stelle
più vecchie della nostra galassia, età maggiori dell’età stimata per
l’universo, si riconsiderarono sia i metodi di datazione delle prime che,
soprattutto, il valore della costante di
Hubble utilizzato per la determinazione della seconda, arrivando ad una
revisione che risolveva l’apparente contraddizione.
Un problema analogo si è ripresentato recentemente con la misura dell’età di HD 140283, ribattezzata “Methuselah
star” (stella Matusalemme), originariamente stabilita in 16 miliardi di anni
(ma con una grande incertezza). La stima è stata recentemente ridotta a 14,5
+/- 0,8 e resa dunque consistente, considerate le incertezze, con la misura
corrente dell’età dell’universo, grazie anche a un’accurata determinazione
parallattica della sua distanza, ottenuta con l’Hubble Space Telescope (HST).
Tuttavia è indubbio che i record affascinano; rimangono impressi nella nostra
mente e stimolano la nostra curiosità. Dunque perché non usarli come spunto per
divulgare astronomia, fisica, astrofisica e anche altre scienze? Che è poi
quello che ha fatto Luigi Fontana con il suo gradevole libricino.
Ho cercato anch’io un po’ di record astronomici, senza ovviamente rivisitare i
primati stellari già descritti, ed ecco cosa ho trovato, iniziando da molto
lontano. Quale struttura barionica detiene oggi il record di distanza? (che
corrisponde anche al record della minore età cosmologica), oppure quello di
massa? E qual è l’interesse nel battere questi record trovando oggetti sempre
più lontani e dunque sempre più giovani? Oppure sempre più “pesanti”?
L’interesse
è legato alla validazione (o piuttosto alla revisione) dei modelli di
formazione delle principali strutture barioniche: delle stelle, delle galassie
e ammassi di galassie, dei buchi neri e della loro crescita. C’è voluto
ovviamente del tempo perché intorno ai “semi” primordiali di maggior densità di
materia s’innestasse il collasso del gas a formare strutture barioniche sempre
più consistenti, fino a farle condensare in nubi e filamenti, per poi accendere
le stelle e agglomerarle in galassie, e le galassie in ammassi di galassie. C’è
voluto del tempo affinché le stelle di prima generazione esaurissero la loro
vita, e attraverso il processo di supernova arricchissero di elementi pesanti
il mezzo interstellare e si potessero formare stelle di generazioni successive,
dotate di sistemi planetari. O affinché i buchi neri accrescessero materia fino
a raggiungere masse dell’ordine di molti miliardi di masse solari. Nei modelli
di formazione ed evoluzione di questi agglomerati entrano vari parametri – ad
esempio il tasso di espansione dell’universo, la quantità di materia barionica
e oscura presenti, la densità di gas e polveri – che è importante determinare
con la maggior accuratezza possibile.
Ecco dunque
l’interesse a scoprire oggetti estremi – da record, appunto – per distanza,
età, massa ecc.: per poter confrontare osservazioni e teorie su intervalli dei
parametri il più ampi possibile e ottenere vincoli sempre più stringenti.
Qual è dunque l’oggetto astronomico più lontano? Se vogliamo limitarci a misure “certificate” (nel senso di ragionevolmente sicure perché ottenute con una determinazione spettroscopica del redshift z), allora credo che il record di distanza sia ancora detenuto dal Gamma Ray Burst (GRB) 090423 a z = 8,2. Questo valore ci dice che già solamente 700 milioni di anni dopo il Big Bang una stella di una galassia era arrivata al termine della propria vita e la concludeva con l’evento catastrofico che ha dato origine al GRB. Al secondo posto troviamo, con un redshift z = 7,51 la galassia z8_GND_5296. Entrambi questi oggetti sono lontani più di 13 miliardi di anni luce da noi.
Se invece ci affidiamo alla stima fotometrica del redshift (basata
quindi sui colori osservati in diverse bande del visibile e dell’infrarosso e
su opportune assunzioni sullo spettro della sorgente, e dunque soggetta a
incertezze ben maggiori) allora è la galassia MACS0647-JD a detenere il primato
della distanza, con z = 10,8 (equivalente a una età di circa 500 milioni
di anni dal Big Bang).
Sempre restando nell’ambito delle strutture formate, altrettanto interesse è
rivolto alla scoperta di ammassi di galassie lontani. Con un redshift (determinato
spettroscopicamente) pari a z = 1,8, l’ammasso JKCS041 rimane ancora quello più
distante trovato sinora. Particolarmente interessante è il fatto che sia ricco
di galassie rosse, a indicare che la loro storia di formazione stellare si era
già conclusa nel primo quarto di vita dell’universo.
Per quanto riguarda la massa complessiva, il primato, ad alto redshift,
spetta all’ammasso ACT-CLJ0102-4915,
soprannominato “El Gordo”, (“il grassone”) che ha una massa più di mille
volte maggiore della nostra galassia. Ma probabilmente il record è già stato
superato con l’analisi
dei dati di Planck che permette di sfruttare l’effetto Sunyaev-Zeldovich (SZ) per trovare super-ammassi
distanti.
L’effetto SZ è una distorsione spettrale della radiazione cosmica di fondo
(CMB), causata dall’interazione dei suoi fotoni con il gas ionizzato che permea
l’interno di un ammasso di galassie. Producendo uno “spostamento” dello spettro
del CMB, permette di rivelare la presenza di un ammasso di galassie; la misura
dello spostamento fornisce numerose informazioni sulle proprietà dell’ammasso
stesso.
Se invece siamo interessati a un singolo oggetto compatto, il buco nero
più massiccio che si conosce è quello nel centro della galassia S5 0014+813: la sua massa ammonta a 40 miliardi di masse
solari! Altri record interessanti?
La pulsar
PSR J1748-2446ad è quella che ruota più velocemente su se stessa: ha un
periodo di poco superiore al millisecondo. Con un raggio di circa 16 km, la sua
superficie (all’equatore) ha una velocità pari a un quarto della velocità della
luce: un laboratorio unico e indubbiamente interessante. Le magnetar (un
particolare tipo di stelle di neutroni) sono caratterizzate dai più forti campi
magnetici che si conoscano.
Andrea Tiengo e collaboratori (Nature,
500, 312, 2013) sostengono che in alcuni punti della superficie di SGR 0418 il campo magnetico arrivi fino
a valori di circa 100 miliardi di Tesla. Il campo magnetico terrestre, in
superficie, ha una intensità di 30-70 microTesla (μT) a seconda della
latitudine, quello di una buona calamita è di 10-100 milliTesla (mT). Già con
campi magnetici di 10 miliardi di Tesla (non riproducibili in laboratori
terrestri) sono previsti fenomeni altrimenti non osservabili: il vuoto diventa
un mezzo birifrangente e le onde elettromagnetiche polarizzate che lo
attraversano rallentano e diminuiscono la loro lunghezza d’onda; fotoni X
possono liberamente sdoppiarsi o accoppiarsi; lo scattering tra fotoni
ed elettroni è quasi completamente soppresso e gli atomi vengono notevolmente
deformati: un atomo di idrogeno assumerebbe la forma di un sottile cilindro con
un raggio oltre 200 volte più piccolo delle sue dimensioni normali (chi fosse
interessato ad approfondire la fisica dei campi magnetici ultra-forti può
leggere qui). Ecco
dunque alcuni aspetti che spiegano l’interesse per trovare e studiare queste
stelle particolarmente estreme.
L’universo estremo è ricco di molte altre situazioni limite; se i record
cosmici vi incuriosiscono, vi consiglio la lettura del libro di Bryan Gaensler “Extreme Cosmos: A
Guided Tour of the Fastest, Brightest, Hottest, Heaviest, Oldest, and Most
Amazing Aspects of Our Universe” recentemente tradotto in italiano con il
titolo “Universo da capogiro” (2014, Edizioni Dedalo, p. 240, € 13,60).
Tratto da Le Stelle n° 142