Nell’articolo autobiografico
“Le mie stagioni milanesi” Leonardo Sinisgalli, il “poeta ingegnere”, come lo definisce Giancarlo Borri in un volume a lui
dedicato[1], parla del sogno di tutta la sua vita: quello di avvicinare “il gran
giorno” nel quale “il Regno dell’Utile sarà rinverdito dalla cultura”, creando
un ponte sottile ma resistente ed efficace tra le due “sponde” della civiltà
umana, quella delle humanae litterae
e quella della scienza e della tecnica.
Per realizzare questo sogno tra il
settembre e l’ottobre del 1952 si dedicò a progettare e a dar forma a una
originale impresa editoriale, Civiltà
delle macchine, il prestigioso periodico da lui diretto dal 1953 al gennaio
del 1958, quando si spense a Roma. Questa iniziativa, fortemente voluta e
appoggiata da Giuseppe Luraghi, direttore generale della Finmeccanica (poi
assorbita dall’IRI), nasceva da un grande
amore per le botteghe fumose dei maniscalchi, per i meccanismi, per i congegni
di ogni tipo, dal rispetto per il lavoro e la capacità manuale.
L’obiettivo era
quello di avvicinare i poeti, gli artisti, ma anche la gente comune e i bambini
alle macchine, viste, senza idolatria, come simboli di civiltà, come
formidabili espressioni del genio e dell’intelligenza dell’uomo, anche se non
si mancò mai di evidenziare i loro limiti e i rischi del fanatismo, altrettanto
pericoloso quanto l’estremo opposto del disprezzo.
Due furono i filoni perseguiti dichiaratamente:
l’armonia del sapere e l’attenzione alla ricerca più avanzata (elettronica,
astronomia, cibernetica) concretamente testimoniata dal fatto che nel 1956
proprio la rivista finanziò la costruzione del primo robot di Silvio Ceccato,
l’Adamo II (nome che gli fu attribuito proprio da Sinisgalli).
Fruendo del contributo di autorevoli
e insigni studiosi, tra i quali Luigi Einaudi, Lewis Mumford, Giò Ponti,
Francesco Severi, Giulio Carlo Argan, Giuseppe Ungaretti, Paolo Portoghesi,
Franco Fortini, Alberto Burri Silvio Ceccato, questo periodico è riuscito, nell’arco
di tempo dei suoi 16 anni di vita, fino al 1979, a proporre temi di cruciale
importanza per il nostro tempo, spaziando dal campo della cultura artistica a
quello della cultura umanistica, scientifica e tecnica. Ne parlarono con
ammirazione intellettuali autorevoli come Reyen Banham, in Inghilterra, e Lewis
Mumford negli Stati Uniti.
L’ultimo numero, datato dicembre 1979 ma finito di
stampare il 15 settembre 1980, fu dedicato ai rapporti tra cultura e religione.
Nel suo prologo “Ai lettori” Francesco Flores d’Arcais, che era subentrato come
direttore a Sinisgalli dopo la sua morte, annunciò che Civiltà delle macchine sospendeva le proprie uscite perché si era
entrati «in un momento di grande austerità” ma anche perché doveva rivedere “la
formula e la sua attualità».
All’inizio degli anni ’80 lo stesso Flores d’Arcais
si fece promotore della sua rinascita e del suo rilancio insieme a un nutrito
gruppo di intellettuali, guidato da Francesco Barone, e che comprendeva Dario Antiseri,
Massimo Baldini, Salvo D’Agostino, Alberto Pasquinelli, Luciano Pellicani,
Marcello Pera, Vittorio Somenzi, Igino Zavatti. Nacque così nel 1983, giusto a
trent’anni di distanza dall’uscita del primo numero del vecchio e glorioso
periodico, la Nuova Civiltà delle macchine, il cui primo editore fu Ercole
Camurani, presidente delle Edizioni Analisi-Trend di Bologna, che era pure tra
i promotori[2].
Nell’articolo di apertura “Ai Lettori” del primo fascicolo (anonimo ma scritto
da Barone) veniva delineato, di comune accordo con gli altri promotori, un
programma, il cui intento primario era quello di «difendere l’unità della
cultura contro la cosiddetta “polemica delle due culture” e gli atteggiamenti o
“entusiastici” o “apocalittici” nei confronti degli aspetti
tecnico-scientifici, che hanno sempre più peso nella situazione culturale
odierna». «Infatti», veniva detto, «se la cultura di ogni epoca – pena
l’autodistruzione – non può essere qualcosa di unitario, l’unità assume forme
diversamente strutturate di epoca in epoca, sicché la considerazione della
tradizione non può andare disgiunta dallo sforzo inventivo delle nuove
organizzazioni sistematiche richieste dalle condizioni mutate».
Soprattutto
per questo aspetto la nuova rivista si poneva in una linea di stretta
continuità con la precedente, in quanto nasceva, come quest’ultima,
dall’esigenza di collocare la presenza sempre più massiccia delle macchine, che
contraddistingue l’epoca in cui viviamo, la quale può, proprio per questo,
essere brevemente caratterizzata come Civiltà
delle macchine appunto, nel quadro complessivo della cultura dell’uomo, e
di sottolineare che questa presenza sarebbe pericolosamente fraintesa se la si
sradicasse dal tessuto degli altri portati che compongono questo quadro, quali
quelli letterario-artistici e filosofici.
Non sorprende quindi che la
Fondazione Francesco Barone abbia voluto riprendere questi temi, affidando a
Pietro Greco il compito di curare un volume con l’obiettivo di fare il punto
sullo stato attuale dell’antico sogno di Leonardo Sinisgalli e della sua
rivista.
Il libro, dal titolo Armonicamente:
arte e scienza a confronto (Mimesis edizione, 2013) è diviso in capitoli,
«Scienza e arte», «Scienza e letteratura», «Scienza e musica». Per ognuno di
essi vi sono quattro interventi più una lunga e bella introduzione del
curatore, che parte proprio da Leonardo Sinisgalli e affronta la questione
delle avanguardie artistiche e delle nuove idee sulla fisica agli inizi del
Novecento, concentrando, in particolare, l’attenzione sul rapporto tra cubismo
e teoria della relatività.
La Cronaca di un fragile incrocio di Danila Bertasio entra in modo esplicito e immediato nel merito della questione, richiamando lo «strappo avvenuto tra arte, scienza e tecnologia, quasi tre secoli fa, che ha comportato conseguenze generalmente positive per la scienza e la tecnica, forse negative per l'arte». A parte l’arte, le conseguenze sono state e sono tuttora particolarmente negative per la cultura in generale del nostro paese, che non ha ancora assorbito e superato quello strappo. Lo si può evincere dalla diffusione e dal successo di posizioni che considerano la tecnica un puro esercizio pratico, dove tutte le forze oggi dominanti sono destinate ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza, un’espansione incondizionata e senza limiti, al di là e al di fuori di qualsiasi possibile riferimento a ideali, valori, interessi e approfondimenti di tipo culturale. Da questo punto di vista la «civiltà delle macchine», più che formidabile espressione del genio e dell’intelligenza dell’uomo, sarebbe dunque solo cieca volontà di potere, scissa dal sapere.
La tecnologia al servizio della creatività
Pregio del libro è quello di fornire buoni argomenti a
chi ritiene che le cose non stiano così. Bertacchini, Olmedo, Pantano e
Billotta, nel loro contributo sottolineano l’apporto che allo studio e alla
comprensione dei processi creativi può essere fornito da un laboratorio
virtuale, come quello ideato e realizzato dall’Evolutionary System Group dell’Università della Calabria, grazie al
quale si ha «la possibilità di simulare numerosi sistemi caotici, di produrre
un infinito numero di forme tridimensionali imprevedibili, conosciute come
attrattori strani, di tradurle in suoni, musica e immagini». Si ottiene così
nuova materia, che gli artisti possono plasmare secondo la propria intuizione,
esperienza e sensibilità. «In particolare, per quanto riguarda la musica e
immagini, il software Chaos Explorer, realizzato dal gruppo ESG, permette di
implementare suoni e musiche e forme del Caos sul proprio personal computer,
esportabili in altri software, per la loro ulteriore manipolazione creativa».
La
tecnologia si pone così al servizio della creatività e la arricchisce, anziché
mortificarla, come sostengono sulle terze pagine anche dei nostri maggiori
quotidiani illustri pensatori che la considerano il più pericoloso killer della
cultura. Armonicamente induce così a
sfatare questo mito, come molti altri ampiamente diffusi nel sapere comune.
Come quello che riguarda il ruolo dell’ambiguità, generalmente considerata
nemica irriducibile della razionalità scientifica e totalmente estranea a essa.
Giuseppe Caglioti ci invita a riflettere criticamente su questo presupposto,
riferendosi all’opera di Franco Grignani (1908-1999), architetto praticante visioni
estetico-scientifiche, fotografo, pittore, figura complessa che muove dal
secondo Futurismo e ha poi lavorato nel
contesto ottico visivo, indagando i fenomeni della percezione nel contesto
della pittura, del graphic design e della fotografia, il quale ha assegnato un
ruolo privilegiato proprio all’ambiguità, sottolineandone lo stretto legame con la creatività. Con la sua opera,
nella quale scienza e arte si fondono, intrecciando
un discorso di metodo e di sperimentazione che si sviluppa con continuità sullo
stesso terreno di indagine proprio della psicologia della percezione, egli ci fa comprendere che l’ambiguità è ovunque e costituisce un valore culturale permanente, per cui è difficile
considerarla come
un’incrinatura della razionalità: essa è invece un luogo dove arte e scienza
possono incontrarsi e dialogare.
Per fornire ulteriori argomenti a supporto di questo assunto Caglioti per parte sua rileva come il processo della percezione delle figure ambigue, che si conclude con la formazione del pensiero visivo, ricordi molto da vicino il processo di misura nella meccanica quantistica: al punto che, grazie a questa analogia, diventa addirittura possibile proporre che l’andamento del pensiero visivo durante la percezione dinamica dell’ambiguità sia descrivibile, in prima approssimazione, dalla stessa equazione che regola il processo di misura di una struttura quantistica. Con la conseguenza (paradossale ?) che ciò che saremmo portati a classificare come un’illusione ottica si presta egregiamente a illustrare un problema importante dell’epistemologia, dibattuto dai fisici fin dagli albori della meccanica quantistica e più recentemente dai filosofi della scienza: il problema dell’interazione tra l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione, quando le dimensioni di questo siano subnanometriche. Il problema della perturbazione prodotta dall’osservatore con il suo strumento di misura sull’oggetto misurato è fondamentale perché, in fondo, le nostre certezze si basano sull’osservazione e sull’esperienza. E di primo acchito è a malincuore che si accetta che esse possano essere fondate su dinamiche così paradossali e ambigue.
Scienza e letteratura
Ricca di spunti di riflessione molto invitanti è la sezione “Scienza e Letteratura”. Antonio di Meo propone un’approfondita analisi del pensiero di Leopardi, facendone emergere la capacità di rielaborare in modo originale le idee scientifiche e filosofiche dell’epoca, in particolare quelle dello spazio e del tempo, e di proporre una conciliazione fra la conoscenza estetica e quella scientifica e razionale del mondo, «partendo dall’idea che, sebbene appaiano opposte e contraddittorie, esse scaturiscono da un’unica sorgente, ossia la Natura, l’immaginazione». Gaspare Polizzi, attraverso il riferimento alla pratica teorica di due scrittori che hanno sperimentato la relazione tra immaginario e scienza, Italo Calvino e Primo Levi, letta attraverso il filtro della riflessione epistemologica di Paul Feyerabend e di Michel Serres e della chiaroveggente lezione storiografica di Paolo Rossi, evidenzia quanto potente e costitutivo sia l’apporto della dimensione immaginativa nella elaborazione e nello sviluppo delle teorie scientifiche. Giuseppe O. Longo, ad onta del tanto teorizzare sulla morte del romanzo e della storia, rivendica la persistente incidenza della narrazione, dal momento che «ciascuno di noi non fa altro che raccontare e raccontarsi interminabilmente una storia di sé stesso nel mondo» e che «raccontare le storie è l’unico modo per riacquistare il senso della Storia». Sulla base di questa convinzione egli propone la suggestiva metafora di una figura bistabile, di cui letteratura e scienza siano le due immagini oscillanti e reversibili che, pur non potendo essere afferrate insieme, interagiscono a livello profondo.
Scienza e musica
Nella sezione dedicata alla musica spicca l'articolo di
Silvia Bencivelli, in cui si sostiene che «nella nostra inclinazione per la
musica c'è qualcosa di innato, su cui poi incidono la cultura, l'educazione e
l'esposizione a musiche di un certo tipo. Biologia e cultura si combinerebbero
così». E la relazione tra musica e scienza è esplorata con erudizione e
competenza da Gianni Zanarini, il quale ricorda, mostrandocene persuasive
esemplificazioni concrete, che «in molta musica contemporanea sono i suoni
stessi (con la loro struttura e la loro evoluzione, spesso governate attraverso
la tecnologia) a costituire le strutture portanti della composizioni musicali».
Si chiude così alla perfezione il cerchio di una proposta
teorica che, riprendendo con nuovi e aggiornati argomenti l’invito di
Sinisgalli a
gettare ponti tra il campo della cultura artistica e umanistica e quello della
cultura scientifica e tecnica, fa propria la profonda e sempre attuale lezione
che possiamo trarre da questo bellissimo passo di Leonardo da Vinci:
«Arco non è altro che una fortezza causata da due debolezze, imperò che l’arco negli edifizi è composto di due parti di circulo, i quali quarti circoli ciascuno debolissimo per sé desidera cadere, e opponendosi alla ruina dell’altro le due debolezze si convertono in unica fortezza»[3]. Le due culture di cui tanto si parla da quando, nel 1959, il fisico e romanziere inglese Charles Percy Snow pubblicò il suo notissimo pamphlet[4], sono senza forzature assimilabili alle due debolezze di cui parla qui Leonardo da Vinci. Proprio per questo, per cercare di convertirle «in un’unica fortezza», vale la pena scrivere (e leggere) libri come Armonicamente.
[1] G. Borri, Ritratto di
Leonardo Sinisgalli. Il poeta ingegnere e la civiltà delle macchine, Piazza
Editore, Torino, 1990.
[2] Attorno alla rivista nel 1987 si
è poi costituita a Forlì, un’associazione culturale con la medesima
denominazione (“Nuova civiltà della macchine”), che ha organizzato seminari di
studio ed eventi culturali connessi con il programma del periodico. Barone ne
fu, fino alla sua morte nel 2001, presidente onorario, e anche per questo nel
1997, in occasione del decennale della nascita dell’Associazione, gli fu
conferita la cittadinanza onoraria di Forli.
[3] Leonardo da Vinci: MSS,
Institut de France, Paris, 50r, ‘Frammenti sull’architettura’ (1490), Scritti rinascimentali di architettura,
a cura di A. Bruschi, C. Maltese, M. Tafuri, R. Bonelli, Edizioni il Polifilo,
Milano, 1978, p. 292.
[4] C.P. Snow, The two cultures and the
scientific revolution, New York, Cambridge University Press 1959; ed. it. Le due culture, prefazione di L.
Geymonat, Feltrinelli, Milano, 1964