Lo spettacolo è finito. Spenta l'eco delle risate, un breve silenzio sospeso viene coperto dall'applauso finale. Seduto in prima fila, mi volto a guardare le facce per capire qual è l'effetto sul pubblico: divertimento, perplessità, adesione? Qual è il messaggio di Farmageddon: c'è davvero una catastrofe imminente? E che cosa possiamo fare, oltre a preoccuparci, per impedire che la medicina si capovolga in un maleficio?
Per rispondere alla prima domanda occorre osservare che la medicina contemporanea sta accelerando. Non tanto, o non solo, perché aumentano gli anziani e quindi le malattie, o perché compaiono sempre nuove tecnologie mediche. E' soprattutto l'utilizzo che facciamo nel mondo occidentale di quelle tecnologie, vecchie e nuove, che sta esplodendo, a prescindere da ogni aumento reale delle malattie. Le quali malattie appaiono sempre più numerose non solo perché si campa sempre di più, ma soprattutto perché le si cerca sempre più intensamente.
Fra le tecnologie che si usano con crescente intensità vi sono infatti gli esami diagnostici di ogni tipo, ed è ormai noto che più si cercano le malattie più se ne trovano. Non solo, ma molte di quelle che si scovano prima che abbiano dato qualsiasi disturbo non si sarebbero in realtà mai manifestate e non avrebbero prodotto nessun problema di salute se non le si fosse cercate. Questo fenomeno è una “scoperta” recente, ancora poco chiaro ai medici e ignorato dal pubblico, a cui viene dato in gergo il nome di sovra diagnosi e sovra trattamento, e su cui si stanno scrivendo molti articoli scientifici e libri.
Fu saggio Steve Jobs con la sua malattia?
Per fare un esempio celebre si può prendere la vicenda di Steve Jobs. Quando nel 2003 il genio della Apple scoprì, quasi per caso, di avere un cancro al pancreas, i suoi medici lo invitarono a farsi operare subito. Lui invece decise di temporeggiare, e ricorse al chirurgo solo nove mesi più tardi, quando risultò che la neoplasia era cresciuta e si era diffusa anche al fegato. Otto anni dopo quel tumore lo uccise. Qualcuno ha commentato che era stata una decisione molto stupida, per una persona così intelligente.
In realtà la scelta di aspettare non era stata irrazionale ed emotiva: prima di prenderla Jobs si consultò con un gran numero di clinici e di ricercatori a livello mondiale, ci pensò e poi prese una decisione ponderata. Infatti il tumore di Jobs (di un tipo raro, detto neuroendocrino) era stato scoperto incidentalmente, nel corso di una TC fatta per un motivo banale come un mal di schiena, e rientrava quindi appieno nel novero dei casi che possono dar luogo a sovra diagnosi e sovra trattamento.
Ormai gli scienziati sanno che questo tipo di masse sono frequenti, e purtroppo nessuno è in grado di distinguerle da quelle pericolose. A lui è andata male, ma nessuno può dire che sarebbe stato meglio se avesse accettato l'intervento immediato, perché non vi alcuna prova che l'esito di un cancro al pancreas possa essere migliorato con un intervento precoce.
La decisione di Jobs, razionale o meno che sia giudicata, è stata sicuramente atipica. Tornando all'accelerazione di cui si diceva, non c'è dubbio che la tendenza prevalente sia quella di fare sempre e subito tutto il possibile, nella convinzione che per la salute fare di più sia sempre meglio. Non si spiegherebbero altrimenti i dati che dimostrano, anno dopo anno, un impressionante aumento del consumo di quasi tutte le prestazioni mediche, dai farmaci di quasi tutte le categorie ai test diagnostici, dagli strumenti elettronici agli interventi chirurgici.
Chirurugia finale
Per esempio, secondo un rapporto pubblicato su Lancet, – frutto dell'analisi di quasi 2 milioni di assistiti di Medicare (la mutua degli americani anziani, sopra i 65 anni) defunti nel 2008 – negli USA una persona su dieci nell'ultima settimana di vita subisce un intervento chirurgico. Nell'ultimo mese si sale a una su cinque, e nell'ultimo anno addirittura a una su tre.
Dati come questi non permettono di distinguere tra chi ha avuto un intervento completamente futile mentre già stava morendo, chi invece è stato portato in sala operatoria con buone ragioni, ma poi non ce l'ha fatta, e chi infine (speriamo pochi) è deceduto proprio a causa dell'intervento.
E' però chiara almeno una cosa: la tecnologia medica appare, agli occhi degli operatori e dei pazienti stessi, come un'attraente scorciatoia per mettere comunque una pezza a qualcosa che può essere materialmente aggiustato, anche se questa riparazione, nella migliore delle ipotesi, non consentirà comunque al malato di vivere più a lungo o meglio. Nei casi disgraziati, invece, gli interventi più invasivi al termine della vita, o comunque quando non ci si può aspettare che cambino l'esito, possono anche infliggere sofferenze aggiuntive, come dolore, debilitazione o varie forme di invalidità. Oltre allo spreco di risorse, di cui è meglio non parlare, perché quando vi si accenna si rischia di essere fraintesi, come se si volesse risparmiare sulla pelle dei malati.
Invece la questione centrale è la capacità di comunicare. “Le difficili spiegazioni e discussioni tra il paziente e il suo curante che dovrebbero precedere qualsiasi decisione terapeutica di un certo peso troppo spesso non si svolgono neppure” denuncia per esempio Ashish Jha, principale autore del rapporto su Lancet. E con questo centra il cuore della questione, che come in molti altri casi di possibile eccesso di cure, può essere affrontata solo attraverso una trasparente comunicazione e una relazione paritaria tra chi le deve ricevere e chi le propone.
Per arrivare alla seconda domanda formulata all'inizio, si potrebbe dire che la risposta può stare in una formula: sano scetticismo. Scetticismo per i lati oscuri e affaristici della medicina contemporanea, sano in quanto costruttivo, non distruttivo. E costruttivo per la salute.
Non buttare il bambino con l'acqua sporca, innanzitutto. I benefici reali dei progressi di salute compiuti nell'ultimo mezzo secolo in generale e su alcune patologie particolari non si devono dimenticare. Non solo la speranza di vita è raddoppiata, ma si sono realizzati sotto i nostri occhi diversi “miracoli”: gli anziani resi ciechi da una cataratta o immobilizzati da un'artrosi tornano a vedere o a camminare con una protesi; i bambini che morivano per una leucemia guariscono; la terribile AIDS si è trasformata da condanna immediata senza appello a malattia con cui si convive per decenni. E si potrebbe continuare.
Nasce la Slow Medicine
Ma questi veri miracoli non devono far abbassare la guardia verso tutti quelli che sono fasulli, verso cui esercitare lo spirito critico. Considerazioni di questo tenore hanno indotto alcuni operatori, tra cui Giorgio Bert di Torino e Andrea Gardini di Ferrara, a fondare una “rete di idee in movimento” che si chiama Slow Medicine, e che ha tenuto il suo primo congresso alla fine del 2011.
Il concetto è semplice e convincente, come quello di slow food coniato una ventina d' anni fa. Mentre per certa medicina iper-tecnologica e ospedaliera conta fare in fretta e soprattutto fare tutto quello che è possibile, senza mai arrendersi all' inevitabile, e spesso senza fermarsi a pensare il senso di quello che si intraprende; per la slow medicine prendere tempo non è una perdita, puntare alla qualità della vita anziché a una improbabile guarigione è realismo, rinunciare a un esame sapendo già che non si farebbe comunque alcun intervento è il segreto per evitare guai peggiori dei possibili benefici. Con una espressione anglosassone, si potrebbe dire che per la salute “less is more” più spesso di quanto si pensi.
Come per la cucina, la lentezza in medicina è un valore che richiede più impegno e più studio rispetto al metodo "fast". Le corse in ospedale per l' improvviso aggravamento di un anziano la cui condizione è in realtà irreversibile servono spesso solo a far precipitare inutili sofferenze alla fine della vita.
Per utilizzare una metafora automobilistica appropriata a quel fenomeno di accelerazione cui si accennava all'inizio, la medicina degli ultimi anni è come una fiammeggiante Ferrari a cui ci siamo dimenticati di costruire i freni: a colpi di trapianti, riparazioni e rianimazioni raggiunge spesso risultati spettacolari, che ci hanno cambiato la vita, ma non si ferma mai se non sbattendo contro il muro della morte.
Una robusta iniezione di slow medicine, e un dialogo più serrato tra specialisti e cittadini qualsiasi su questi temi, è forse l'unica speranza per correggere quel difetto di progettazione, anche se in realtà non vi è nulla di nuovo: da tempo i medici di famiglia, gli infermieri e tutti coloro che seguono i malati vicini alla conclusione della vita sostengono gli stessi concetti. Ma talvolta un solo slogan centrato può fare più di mille proclami.
Pubblicato come Postfazione nel libro di Patrizia Paqui, Farmageddon. L'ultimo uomo sano sulla Terra, ScienzaExpress, 2012.