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Il futuro dell'Italia nelle sue risorse umane

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I dati forniti qualche settimana fa dal gruppo di Andrea Cammelli, dell’università di Bologna, nel “rapporto AlmaLaurea” parlano, come usa dire, da soli: l’Italia stenta a riconoscere l’importanza del suo “capitale umano”. E, infatti, tra il 2008 e il 2011, in appena quattro anni, la percentuale di giovani che a un anno dalla laurea magistrale (3+2) risultano ancora senza lavoro è quasi raddoppiata. Nel 2008 i neolaureati disoccupati erano il 10,4%; nel 2001 sono saliti al 19,6%. Analogo l’andamento per la laurea breve (quella di 3 anni): i disoccupati a un anno dal termine degli studi erano l’11,2% nel 2008, sono saliti al 19,4% nel 2011.

È evidente che il sistema produttivo italiano non chiede giovani laureati. Non che, beninteso, la laurea sia inutile. Il tasso di disoccupazione tra i giovani tra i 18 e i 25 anni è salito, nel 2011, al 31%. Mentre tra i neolaureati è ancora inferiore al 20%. Dunque, laurearsi conviene ancora. Ma conviene sempre meno. Il che significa non solo frustrazione per i giovani che si sono dedicati agli studi. Ma anche che il paese non ha capito dove cercare il suo futuro. E che per uscire dal suo ormai ventennale declino economico l’Italia ha un’unica possibilità: investire nel capitale umano. Ce lo dice la teoria economica. Una vera e propria “teoria del capitale umano” – ovvero di un’economia fondata su lavoratori sempre più qualificati – è nata all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso a opera del premio Nobel per l’economia Gary Becker e di altri economisti, come Jacob Mincer e Theodore Schultz. Ma c’è chi la fa risalire addirittura ad Adam Smith (o, anche, per molti versi a Karl Marx). Essa si basa sulla dimostrazione che «la più importante capacità di competere di una nazione sta diventando sempre più la qualità e la conoscenza cumulata della sua forza lavoro», come ha scritto Robert Reich in un suo famoso articolo, «Who is Us?», pubblicato sulla Harvard Business Review nel 1990.

Più di recente due altri filoni di studio hanno dimostrato l’importanza crescente di “investire nel capitale umano”. Da un lato Paul Romer, Robert Lucas e Robert Barro hanno elaborato la cosiddetta “teoria della nuova crescita” dimostrando che c’è una correlazione molto forte tra la crescita economica di un paese e gli indicatori del capitale umano, in primo luogo il livello di educazione. Secondo Romer, Lucas e Barro il capitale umano è uno dei fattori che determinano la crescita economica. Un secondo gruppo di studi, peraltro interdisciplinari, ha dimostrato l’importanza della formazione nei primi anni di studio dei bambini per lo sviluppo della creatività e dell’intelligenza e, a seguire, di un ricco capitale umano in età adulta. La formazione, dunque, a livello di scuola di base (elementari), educazione secondaria (scuole medie), di educazione terziaria (università) e, aggiungiamo noi, di formazione durante tutto l’arco della vita, è decisiva per rispondere ai tre principali problemi in cui si sono imbattuti i paesi di antica industrializzazione negli ultimi decenni: il rallentamento della crescita economia a partire dal 1973, l’aumento tendenziale della disoccupazione, la polarizzazione dei redditi (con conseguente crescita della disuguaglianza sociale).

Nelle teorie del “capitale umano”, dunque, la quantità di persone diplomate e laureate diventa un fattore economico primario e imprescindibile. Alla luce di queste teorie, i dati empirici forniti di recente dall’OCSE nel rapporto Education at a Glance 2011 ci spiegano molto della condizione italiana. Il rapporto mostra (e dice esplicitamente) che il mondo è radicalmente cambiato nell’ultimo mezzo secolo. Da un punto di vista cognitivo. Il capitale umano è esploso. Nei paesi OCSE, infatti, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso aveva un titolo di scuola media secondaria il 45% dell’universo giovanile, oggi la percentuale è salita all’81%. Ma la crescita è stata ancora più significativa a livello di “alta educazione”, ovvero di formazione terziaria. Insomma, di laureati. Alla fine degli anni ’50 nei paesi OCSE i giovani di età compresa tra 25 e i 34 anni con la laurea erano il 13% del totale. Oggi sono il 37%. L’incidenza di laureati sulla popolazione totale è dunque triplicata. Ma se guardiamo ai paesi all’avanguardia il fenomeno è ancora più impressionante. In Corea del Sud nel 2009 aveva una laurea il 63% dei giovani di età compresa tra 25 e 34 anni. In Giappone, in Canada, in Russia questa percentuale si assesta intorno al 55%. In Irlanda, Norvegia, Nuova Zelanda sfiora il 50%. In Gran Bretagna, Australia, Danimarca siamo oltre il 45%. In Francia, Svezia, Israele, Stati Uniti siamo oltre il 40%. A questi vanno aggiunti altre “tigri asiatiche”, come Singapore, Taiwan e la stessa Hong Kong (ormai passata alla Cina), dove la percentuale di laureati supera il 50% della popolazione giovanile. Nella stessa Cina ormai i laureati crescono a ritmo molto sostenuto. E già oggi il paese laurea ogni anno la metà degli ingegneri di tutto il mondo.

Ora facciamo un’estrapolazione. Da qui a trent’anni. Quando le persone che oggi hanno 25 anni ne avranno 55 e quelle che ne hanno 34 ne avranno 64. In Corea il 63% avrà una laurea. È presumibile che i giovani che stanno nascendo ora arriveranno almeno alla stesso livello culturale. Il che significa che i due terzi della popolazione in età di lavoro avrà una laurea. Qualcosa di analogo succederà in Giappone, Taiwan, Canada, Russia e così via. In definitiva, la gran parte dei paesi OCSE (ma anche Cina e India) sarà ricchissima di “capitale umano”, perché almeno la metà della popolazione in età di lavoro avrà alle spalle 20 anni di studi. Vivremo letteralmente in un altro “universo cognitivo”.

Ora guardiamo all’Italia. Il numero di laureati anche nella fascia giovanile compresa tra i 25 e i 34 anni oggi non arriva al 20%. La metà della media OCSE. Addirittura un terzo dei laureati in Corea, Giappone, Canada e Russia. Peggio di noi, nei paesi OCSE, ci sono solo Turchia e Brasile. Ma in questi due paesi il trend è in fortissima crescita. Non è questa, forse, la chiave di lettura più penetrante per leggere il declino italiano? Ma guardiamo al futuro. Fra trent’anni, abbiamo detto, oltre la metà dell’intera forza lavoro nel mondo avrà un’elevata qualificazione, a livello di laurea. Noi partiamo da una base odierna che non arriva al 15%. Se non cambiamo subito questa condizione di sottosviluppo cognitivo, che futuro pensate che avranno i nostri figli e il paese intero?

Ma c’è una domanda che forse è ancora più importante: come mai qui in Italia di queste cose nessuno ne parla? Come mai nell’agenda politica e sociale le questioni sono sempre altre?

Fonte: OECD, Education at a Glance 2011

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