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L’adattamento al cambiamento climatico nella scienza

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Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici è stato approvato dopo sei anni e quattro governi a fine 2023, consta di un documento di sintesi di 106 pagine seguito da 4 appendici: due di natura giuridica e amministrativa (2023), uno di approfondimento scientifico degli impatti e vulnerabilità (2018), e un Excel finale in cui vengono elencate 361 misure, molte delle quali “soft” e al momento senza portafoglio.

A parte l’aspetto e il linguaggio respingente da tesi di laurea, con pagine in cui le note superano il testo, il confronto con i Piani di adattamento di altri paesi quali Francia, Spagna e Germania mette in luce differenze importanti1: laddove gli altri hanno iniziato a metà del primo decennio del Duemila e a questo punto hanno pubblicato una nuova edizione del Piano che fa tesoro di diversi cicli di monitoraggio e un collaudo più che decennale, quello italiano è al suo inizio, e si limita a un’analisi degli impatti e vulnerabilità e ad abbozzare la metodologia di quella che sarà nei prossimi anni la messa in campo di una pianificazione a livello regionale e locale ancora da costruire e coordinare a livello centrale.

Venendo alla scienza, il Piano italiano finalmente approvato dedica uno spazio rilevante (le prime ottanta pagine del documento) all’analisi degli scenari climatici e alla caratterizzazione dei rischi. Rispetto alla versione del 2018, per esempio, dove veniva usato un solo modello, nella versione finale si è deciso di utilizzare un insieme di modelli climatici regionali disponibili in letteratura alla risoluzione di 12 km, sotto 3 diversi scenari emissivi (“alte emissioni” RCP8.5; “scenario intermedio” RCP4.5 e “mitigazione aggressiva” RCP 2.6), così da ottenere simulazioni dei possibili cambiamenti e impatti nelle cinque partizioni territoriali del Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole.

I principali impatti e vulnerabilità da qui a fine secolo vengono caratterizzati correttamente nei diversi settori: acqua, criosfera, mari, biodiversità, foreste, agricoltura, pesca, economia, turismo, salute, città, energia, trasporti, beni culturali e altro ancora. Come analizzato nei contributi a seguire, nonostante la buona qualità scientifica dell’analisi, per molti di questi ambiti non mancano lacune anche di rilevo, com'è d'altronde inevitabile in un documento di sintesi2. La dimensione dell’incertezza, cruciale in questi modelli, viene citata ma poco spiegata. E in generale il tono del documento è di tipo accademico e ostico anche per uno strato acculturato della popolazione3. Al contrario di piani come quello francese e spagnolo, chiaramente concepiti, scritti e impaginati per un pubblico generale, mancano o sono assai deboli i richiami alle disuguaglianze sociali e di genere, a una prospettiva di giustizia climatica e di pace (come sottolineato in particolare del piano spagnolo), alla dimensione transdisciplinare alla base dei processi di adattamento e una adeguata valorizzazione delle conoscenze e competenze locali che possono utilmente integrare quelle strettamente scientifiche in un dominio come quello dell’adattamento, per sua natura locale.

Per alcuni ambiti - come quello relativo al dissesto geo-idrologico (frane, alluvioni, erosioni costiere), valgono le considerazioni del contributo specifico a cui rimandiamo, in cui si rileva la vaghezza delle misure di riduzione dell’esposizione e vulnerabilità, concentrate soprattutto sulle azioni di monitoraggio, allerta ed educazione della popolazione. Ma non su quelle di delocalizzazione di edifici posti nelle aree più a rischio, e su politiche più stringenti di governo del territorio, e altre misure praticate altrove dove vi è ormai un ampio consenso tecnico-scientifico.

Infine, la parte su comunicazione, educazione e partecipazione - davvero cruciale per una matura cittadinanza scientifica sull’adattamento climatico - non è compiutamente elaborata, come descritto nel contributo specifico che pubblichiamo, e debole soprattutto nei meccanismi di partecipazione (demandati a un forum) «che si riducono a mera cassa di risonanza e non a gruppi di lavori territoriali di ascolto e confronto, visto che molte opere e azioni inevitabilmente creeranno conflitto sociale ed economico»4.

Nonostante questi limiti, il PNACC italiano è un punto di partenza che ora va riempito di contenuti, strumenti di governance e risorse, con cicli serrati di monitoraggio, di prove, errori e correzioni, anche per evitare il rischio concreto di mal-adattamenti. E accompagnato da una attività scientifica che andrà a sua volta orientata e finanziata adeguatamente.

Note

1. A questo link le diverse situazioni nazionali: https://climate-adapt.eea.europa.eu/#t-countries
2. In particolare nei settori biodiversità, salute e geo-idrologia.
3. Il compito di aggiungere stakeholders, e - naturalmente tutta la popolazione - viene demandato alla Piattaforma Nazionale Adattamento al Cambiamento Climatico di ISPRA: https://climadat.isprambiente.it/
4. Si veda il commento al link: https://www.renewablematter.eu/articoli/article/arriva-pnacc-piano-nazionale-adattamento-cambiamenti-climatici-delude-tutti

 


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