Se si osservano i dati sull'andamento delle transizioni degli studenti dalla scuola secondaria all'università negli ultimi venti anni, ci si accorge immediatamente come l'università italiana abbia subito una seconda rivoluzione silenziosa: nel 1980 si iscriveva all'università meno del 30% di ogni gruppo di diciannovenni; dieci anni dopo tale numero si era innalzato sopra il 40% e nel 2001/2 superava il 50%. A questa crescita si associava una crescita equivalente del corpo docente, come si ravvisa facilmente dalla figura seguente.
Come accade in medicina, l'ipertrofia può essere foriera di mali maggiori. Il quasi raddoppio di studenti ed insegnanti stanno alla base di alcuni dei problemi che si sono manifestati nel corso dell'ultimo decennio. Mi limiterò a discuterne due, spesso portati sulle pagine dei giornali come esempi di autoreferenzialità e/o di corruzione dell'accademia italiana: la moltiplicazione dei corsi universitari e la selezione all'ingresso del personale docente (più prosaicamente "concorsi universitari").
Sul versante della moltiplicazione dei corsi universitari, occorre inquadrare la situazione nel contesto del graduale trasferimento di autonomia decisionale dal governo nazionale ai singoli ateneo. Il nostro paese è passato nel giro di un ventennio da un regime strettamente centralistico (fino a metà degli anni ottanta non era possibile aprire una università senza una legge ad hoc) ad un regime autorizzativo (le università possono deliberare l'apertura di sedi e corsi purchè rispettino alcuni requisiti fissati per legge). I diversi atenei hanno adottato politiche diverse nel gestire questa improvvisa libertà: alcuni hanno replicato sul territorio "corsi fotocopia" della alma mater; altri hanno differenziato territorialmente l'offerta; altri ancora hanno "gemmato" nuovi atenei, presto divenuti autonomi. Non è chiaro quale strategia abbia pagato meglio in termini di crescita delle risorse e/o delle iscrizioni. In aggregato tuttavia questo ha favorito le famiglie, portando l'università sotto casa. Sono ormai 272 i comuni italiani sede di almeno un corso universitario (dati riferiti al 2005/6). Questo ha fatto da volano ad una crescita ulteriore delle potenziali iscrizioni, mettendo in luce una domanda potenziale che non si sarebbe manifestata nel contesto precedente. Si tratta in buona parte di domanda al margine, che non è quindi necessariamente molto selettiva in termini di contenuti dei corsi o di qualità del corpo docente. E tuttavia risponde ad una aspirazione di ascesa sociale, che sarebbe miope ignorare.
In questo contesto, la crescita delle iscrizioni ha giustificato una crescita dell'organico docente, ad un ritmo accelerato rispetto alla produzione di laureati di qualità da parte del sistema universitario stesso. A partire dalle immissioni per giudizio di idoneità prodotte dalla legge 382 del 1980 (ben tre tornate di giudizio, per assicurare pressoché a tutti i potenziali aspiranti l'immissione in ruolo) fino ai concorsi a base locale con tre idoneità introdotti nel 1997, alle ondate di iscrizioni ha fatto seguito ondate di assunzioni di personale docente che, non sorprendentemente, era in molti casi di qualità scientifica inferiore rispetto al personale preesistente.
Non credo che l'espansione del sistema universitario italiano sia da biasimare, né che l'università elitaria della prima metà del secolo scorso sia da rimpiangere. È evidente a tutti che un paese riesce a competere sui mercati internazionali solo se possiede una forza lavoro adeguatamente qualificata. Tuttavia è altrettanto evidente che il nostro paese rappresenta un case study esemplare di come l'autonomia senza valutazione premiante/penalizzante dei risultati tenda (al meglio) a riprodurre lo status quo. L'intera transizione all'università di massa è avvenuta senza alcuna valutazione dei risultati, né in termini di risultati didattici (per esempio la quota di laureati in rapporto agli iscritti) né tantomeno in termini di produzione scientifica (per esempio quantità e qualità/impatto degli articoli pubblicati per docente in ruolo). Per questi motivi la valutazione è il passaggio cruciale della fase che si apre ora per l'università italiana, seppure in un contesto di risorse calanti, fatto questo che non facilita la riforma degli assetti consolidati.