Il
linguaggio della chimica si basa sulle formule, rappresentazioni convenzionali
delle specie che costituiscono la
materia, praticamente incomprensibili a chi non è del mestiere. Si parla di
formule brute se indicano soltanto gli atomi componenti e le rispettive proporzioni
numeriche, mentre si parla di formule di struttura se forniscono un’immagine
spaziale delle molecole. Talvolta è proprio la complessità di questo linguaggio
la causa della disaffezione di alcuni per la chimica. Non è stato facile
giungere a stabilire, negli anni ’60 del secolo XIX, le prime formule di
struttura dei composti chimici. Occorreva innanzitutto fissare le basi e gli
elementi di una teoria applicabile alla generalità dei casi e bisognava farlo con
mezzi artigianali, senza le raffinate tecniche d’indagine a livello
microscopico di cui dispongono i moderni laboratori (spettrometria di massa,
spettrometria NMR ed IR). Tutto, in pratica, era basato sull’osservazione
macroscopica e sul comportamento chimico.
I primi significativi contributi a tale teoria si debbono al chimico tedesco August Kekulé (1829-1896) e allo
scozzese Archibald Couper
(1831-1892). Al primo è attribuita la paternità della formula di struttura più popolare,
quella del benzene, ovvero del capostipite della serie di composti detti
“aromatici”.
Il benzene, isolato per la prima volta da Faraday nel 1825, ha
formula bruta C6 H6 ed è un liquido incolore che bolle a 80,08°C.
È infiammabile ed emana odore
caratteristico. La sua molecola è piana ed è rappresentata da un esagono
regolare i cui vertici sono occupati dagli atomi di carbonio e sono uniti da
linee, alternativamente semplici e doppie, a significare i legami chimici tra
gli atomi di carbonio. A ciascuno di questi è legato, con legame semplice,
anche un atomo di idrogeno. Volendo essere precisi, bisogna dire che in realtà
“convivono” due formule: laddove in una c’è un legame doppio, nell’altra ce n’è
uno semplice. Si parla propriamente di formule di risonanza e di delocalizzazione
della nube elettronica.
La rappresentazione del benzene che rende
ragione del comportamento chimico non fu un evento improvviso ma avvenne per
stadi. Risale a centocinquant’anni fa la pubblicazione dell’articolo di Kekulé
che pose le basi della teoria dell’aromaticità e quindi della stessa formula
del benzene.
Fu pubblicato nel 1865 sul Bulletin
de la Societé Chimique de Paris (T.III, p. 98). A onore del vero,
l’articolo non riporta la formula del benzene come viene disegnata oggi ma
parla chiaramente di una catena chiusa dove gli atomi di carbonio sono legati
con “affinità” semplici e doppie, ossia (per noi) doppi legami alternati.
All’epoca, Kekulé preferiva rappresentare i composti con formule dette “a
salsiccia” che possono sembrare strane. A parte questo, la sua idea che
esistessero non solo composti organici a catena aperta ma anche chiusa, fu
un’elegante conquista del pensiero chimico. Dopo questo articolo, la sua
ricerca non si arrestò. L’anno dopo (1866), Kekulé pubblicò sul suo Lehrbuch der organischen Chemie (Vol. 2,
p. 496) una formula diversa, più vicina alla nostra, senza “salsiccie” ma con
gli atomi di carbonio a forma circolare. Più tardi, nel 1872, videro la luce gli
esagoni con i doppi legami alternati (Ann.
Chem. 162, p. 77).
Molti si chiedevano in che modo Kekulé avesse intuito la formula di struttura del benzene. Quando gli fu chiesto, egli rispose che l’aveva sognata. La prima volta fu a Londra, nel 1854. Era una sera d’estate e si stava recando in visita a un amico con un omnibus a cavalli. Era seduto nella parte superiore del veicolo, quella scoperta. A un tratto (forse) si assopì e “vide” gli atomi danzare vorticosamente e creare forme inusuali, mai viste prima. La seconda volta fu a Ghent, nel 1861, quando si assopì davanti al caminetto e vide chiaramente gli atomi unirsi in file sinuose e ricurve, a guisa di serpenti. Uno di questi, curiosamente, afferrò con la bocca la sua stessa coda. Kekulé fu impressionato da questa visione e, una volta sveglio, riprese a lavorare alle sue formule tentando di riprodurre ciò che aveva visto in sogno. A questo punto occorre dire che l’immagine del serpente che forma un circolo è un classico dell’alchimia e simboleggia l’eternità o l’eterno ritorno. Si tratta del famoso uroboro, già presente nella letteratura magica egizia.
Kekulé raccontò il sogno del serpente molti
anni dopo, durante la Benzolfest del
1890 organizzata in suo onore. Alla luce degli studi storici successivi la
narrazione di Kekulé è stata messa in dubbio, fino a considerarla un esempio,
se non proprio di frode scientifica, di quella che è definita research misconduct. Secondo alcuni,
alla formula del benzene come catena chiusa di atomi, era arrivati altri prima
di Kekulé.
Innanzitutto l’austriaco Johann Josef
Loschmidt (1821-1895) e il tedesco Albert Ladenburg (1842-1911).
Kekulé conosceva senz’altro i loro contributi ma non li citò e così, secondo i
critici, citando semplicemente i propri sogni non pagò il debito che aveva nei
confronti dei predecessori. Un’altra circostanza difficile da spiegare è quella
del sogno sull’omnibus. Questo era un mezzo tutt’altro che confortevole, molto
rumoroso, affatto idoneo a conciliare il sonno. Per la cronaca, sui sogni di
Kekulé si è scritto parecchio e non manca neppure l’interpretazione
psicoanalitica .
Accanto agli scettici, però, ci sono quelli
che tutto sommato danno scarsa importanza all’aspetto onirico e sottolineano la
differenza qualititativa fra il primo contributo di Kekulé e quelli dei
predecessori, in particolare di Loschmidt.
A parte queste polemiche, la definizione
di una formula di struttura del benzene capace di spiegarne il comportamento
chimico rimane una tappa fondamentale della storia della chimica. Viste le
applicazioni industriali dei composti aromatici, anche la tecnologia ne ricavò
enormi vantaggi e gran parte del merito va anche al nostro sognatore.