fbpx Tiangong-1 e rottami spaziali | Scienza in rete

Tiangong-1 e rottami spaziali

Primary tabs

Tiangong-1 è una stazione spaziale davvero semplice se la paragoniamo alla Stazione spaziale internazionale. Sostanzialmente è formata da un corpo cilindrico del diametro di 3,5 metri e lungo 10,4 dal quale si dipartono due batterie di pannelli solari. Il volume abitabile pressurizzato è di 15 metri cubi e il peso complessivo è di 8,5 tonnellate. Crediti: China Manned Space

Tempo di lettura: 14 mins

Sono trascorsi solamente poco più di sessant’anni dallo storico lancio dello Sputnik 1 che decretò l’inizio dell’era spaziale, eppure – dati ESA del gennaio 2017 – sono già stati effettuati oltre 5.250 lanci ufficiali che hanno messo in orbita circa 7.500 satelliti. Questi lanci, però, non solo hanno felicemente portato oggetti costruiti dall’uomo a orbitare intorno alla Terra (e anche di gran lunga più lontano!), ma hanno inevitabilmente finito col popolare lo spazio che circonda il Pianeta con detriti di vario tipo. Una popolazione davvero complessa, composta dagli stadi superiori dei vettori impiegati per collocare in orbita i satelliti, dai satelliti ormai obsoleti o non più funzionanti, da frammenti staccatisi o perduti dai veicoli spaziali nel corso delle loro missioni, ma anche da un incredibile numero di minuscoli rottami di dimensioni di qualche centimetro o ancora più piccoli.

Benché sia ormai da un paio d’anni che la dismessa stazione spaziale cinese Tiangong-1 faccia parte di questa variegata nuvola di spazzatura spaziale, negli ultimi mesi è aumentata la preoccupazione per il suo rientro incontrollato in atmosfera. Proviamo a fare il punto su questo rientro e sulla situazione attuale sul versante della spazzatura spaziale coinvolgendo l’astronomo Alberto Buzzoni (intervista in fondo), da anni studioso delle tematiche riguardanti i satelliti artificiali e dei problemi dei detriti spaziali.

L’affaire Tiangong

Tiangong-1 (in cinese, Palazzo Celeste) è la prima stazione spaziale orbitante dell’Agenzia spaziale nazionale cinese (CNSA). Lanciata il 29 settembre 2011, venne raggiunta da due successivi equipaggi (giugno 2012 e giugno 2013) che vi soggiornarono in tutto una ventina di giorni, dopo di che la stazione venne messa in stato dormiente. L’intenzione era quella di studiare l’usura dei suoi materiali prima di condurla a un rientro controllato in atmosfera e alla sua completa distruzione senza pericolose conseguenze. Una procedura standard, già utilizzata con successo dalle agenzie spaziali per gestire il rientro di ingombranti rifiuti spaziali. Proprio la pianificazione di rientri controllati, per esempio, ha permesso di far bruciare in atmosfera e senza rischi la stazione statunitense Skylab (11 luglio 1979, 85 tonnellate), la stazione sovietica Salyut 7 (5 febbraio 1991, 22 tonnellate), la stazione MIR (23 marzo 2001, 135 tonnellate) e i cinque ATV (Automated Transfer Vehicle) del peso di oltre 25 tonnellate ciascuno progettati dall’ESA per trasportare materiale scientifico e rifornimenti verso la Stazione spaziale internazionale e per essere utilizzati, una volta completato quel compito, per asportare e smaltirne i rifiuti.

Nel caso di Tiangong-1, però, qualcosa non va come dovrebbe. Nel maggio dello scorso anno, infatti, l’Agenzia spaziale cinese, senza entrare troppo nei dettagli, comunica all’Ufficio delle Nazioni unite deputato alle problematiche dello spazio (UNOOSA – United Nations Office for Outer Space Affairs) che dal 16 marzo 2016 Tiangong-1 ha cessato di funzionare. Da Pechino, comunque, sottolineano che la situazione è costantemente tenuta sotto controllo e che, in base ai loro calcoli, non vi saranno problemi né per la circolazione aerea né tantomeno al suolo. Inevitabile, però, che la faccenda cominci a diffondersi tra i media, talvolta con toni esagerati che dipingono una nave spaziale completamente alla deriva e senza alcun controllo.

Due immagini radar di Tiangong-1. Sono riconoscibili la struttura centrale e il profilo dei due pannelli solari. Le riprese sono state raccolte dal sistema TIRA del Fraunhofer Institute for High Frequency Physics and Radar Techniques (FHR) durante un passaggio della stazione spaziale cinese a una quota di circa 270 km. Crediti: Fraunhofer FHR

In realtà non è proprio così. L’ultimo documento ufficiale dell’Agenzia cinese sulla situazione di Tiangong-1 è quello inviato alle Nazioni Unite lo scorso 8 dicembre. In esso si ribadisce che l’assetto della stazione è sotto controllo, che il rientro in atmosfera è previsto tra i primi 10 giorni di febbraio e gli ultimi 10 giorni di marzo e che il rientro non creerà alcun motivo di pericolo per le popolazioni al suolo.

Nonostante il tono tranquillizzante dell’Agenzia cinese, la situazione non è affatto così tranquilla e chiara. È vero, infatti, che non possiamo escludere che alcuni frammenti grandi anche qualche centimetro possano giungere fino al suolo, ma è altrettanto vero che le probabilità che a qualcuno cada in testa un frammento della Tiangong-1 sono estremamente marginali. Ovvio come, per valutare correttamente i rischi, sia fondamentale conoscere i tempi di caduta e quale regione del globo possa essere coinvolta. Fondamentale in tal senso l’aumento del numero delle stazioni di osservazione in tutto il mondo che mantengono sotto attento e costante controllo il moto orbitale di Tiangong-1. I dati osservativi sembrerebbero confermare che la stazione spaziale sia in assetto di volo e che abbia già iniziato il suo lento ma inesorabile spiraleggiare verso gli strati sempre più densi dell’atmosfera.

Previsioni dello Space Debris Office - ESOC (European Space Operations Centre) sul decadimento della quota orbitale della stazione Tiangong-1. Le previsioni sono aggiornate al 21 marzo. Crediti: ESA

A proposito dell’ampio arco di tempo sul quale si estendono le previsioni della data di caduta è necessario fare un’importante precisazione. Prevedere quale possa essere la data in cui la stazione spaziale inizierà la fase più drammatica della sua interazione con l’atmosfera è estremamente difficile. Nella valutazione, infatti, entrano pesantemente in gioco variabili che fino all’ultimo non possiamo conoscere con la necessaria precisione. Basti pensare alla densità della nostra atmosfera, influenzata com’è dall’attività solare, oppure allo stesso assetto di Tiangong-1, indispensabile per valutare l’attrito al quale è sottoposta e la conseguente traiettoria.

Dalle previsioni di inizio febbraio, che suggerivano una finestra che si estendeva grossomodo da metà marzo al 10 aprile, le previsioni ESA emanate il 21 marzo hanno ridotto tale finestra a una manciata di giorni a ridosso del 1° aprile.

Nel grafico si può notare come, con il trascorrere dei giorni, stia gradualmente diminuendo l’ampiezza della finestra di rientro di Tiangong-1. Crediti: ESA.

Spazzatura spaziale

Doveroso preoccuparsi della Tiangong-1, ma altrettanto doveroso tenere ben presente il nugolo di detriti spaziali che avvolge il Pianeta. Secondo le stime ESA, la massa complessiva degli oggetti in orbita terrestre, alla quale contribuirebbero i circa 4.300 satelliti ancora orbitanti – dei quali solamente 1.200 operativi – e i vari detriti spaziali, ammonterebbe a circa 7.500 tonnellate. Il numero complessivo di oggetti catalogati e tenuti sotto osservazione fin dal 1957 dall’US Space Surveillance Network è di oltre 24 mila. Di gran lunga più numerosi, però, quei frammenti di cui non è possibile la rilevazione da terra e per il cui numero possiamo solamente affidarci a stime basate su modelli statistici. Secondo tali stime, i frammenti con dimensioni comprese tra 1 e 10 cm sarebbero 750 mila, mentre quelli con dimensioni da 1 mm a 1 cm sarebbero 166 milioni.

Il grafico mostra in modo eloquente il graduale aumento degli oggetti di ogni tipo in orbita intorno alla Terra, da quelli correlati ai vettori a quelli provenienti dai satelliti e dalla loro frammentazione. Crediti: ESA

Conoscere la posizione e il cammino orbitale di questi frammenti è di fondamentale importanza per evitare che i nuovi satelliti, oltre a quelli già operativi, siano convolti in pericolosi tamponamenti cosmici. La stessa Stazione spaziale internazionale ha già dovuto procedere per sedici volte a piccoli cambiamenti orbitali proprio per evitare di essere investita da pericolosi rottami. L’Agenzia spaziale europea considera l’impatto con detriti spaziali la terza causa della possibile perdita di un satellite, subito dopo i guasti durante la fase di lancio e quelli legati al rilascio del satellite. Non è dunque un caso se anche l’ESA si stia attivamente occupando del problema dei detriti spaziali. Opportuno sottolineare che le ridotte dimensioni dei detriti non bastano certo a lasciarci tranquilli: la velocità con cui questi detriti si muovono nello spazio, infatti, è in grado di trasformarli in devastanti proiettili.

Fino al dicembre 2016 si sono registrate almeno 5 importanti collisioni (casuali o programmate) che hanno coinvolto la popolazione di satelliti e detriti. La prima risale al 13 settembre 1985, quando il satellite americano P78-1 Solwind, ormai inattivo, venne distrutto in volo da un missile USA nell’ambito di uno specifico programma militare. L’evento generò oltre 280 frammenti tracciabili da terra. Una decina d’anni più tardi, il 24 luglio 1996, si verificò il primo incidente vero e proprio. Il protagonista fu il satellite militare francese Cerise, colpito da un frammento staccatosi da un lanciatore Ariane.

Il 10 febbraio 2009, per la prima volta, si verificò lo scontro diretto tra due satelliti: il russo Cosmos-2251, fuori controllo, impattò contro il satellite Iridium 33. Si stima che la collisione avvenne alla velocità di 11,7 km/s (circa 42 mila chilometri orari) e che sparse tutt’intorno almeno 2.000 frammenti tracciabili da terra. Un altro importante aumento di frammenti si ebbe nel gennaio 2007 a seguito di un esperimento anti-satellite cinese in cui venne abbattuto il vecchio satellite meteo FY-1C. Si stima che nell’evento vennero prodotti 3.400 nuovi frammenti tracciabili e che circa il 30% di quelli superiori ai 10 cm resteranno in orbita fino al 2035.

L’ultimo evento in ordine di tempo risale al 21 febbraio 2008, quando un razzo lanciato dalla nave da guerra USS Lake Erie al largo delle Hawaii venne indirizzato verso il satellite spia USA-193 e lo distrusse. La versione ufficiale è che si voleva evitare che il satellite, praticamente fuori uso appena dopo il lancio avvenuto nel 2006, potesse cadere rovinosamente al suolo. Vi fu però chi suggerì che si trattò di una sorta di risposta al test cinese e anche chi lo vide come una mossa prudenziale del Pentagono che non voleva rischiare che tecnologie impiegate nel satellite potessero cadere in mani sbagliate.

Di gran lunga più numerosi – circa 290 – gli eventi collisionali che hanno interessato in varia misura oggetti in orbita terrestre. Appare insomma evidente come l’analisi di un urto distruttivo e delle sue conseguenze non sia solo un mero esercizio accademico. Altrettanto evidente come lo scenario ipotizzato nel 1978 dall’astrofisico Donald Kessler, consulente NASA, non fosse affatto campato per aria. Noto come sindrome di Kessler, lo scenario contempla che il numero crescente di detriti spaziali e delle loro collisioni inneschi una sorta di reazione a catena in grado di rendere di fatto impraticabile per generazioni l’immissione in orbita di nuovi satelliti. Scenario indubbiamente apocalittico, ma da tenere ben presente quando si affronta il problema dei detriti spaziali.

 

Occhi puntati sui cieli italiani: intervista ad Alberto Buzzoni

Per approfondire alcuni aspetti di questa complessa – e preoccupante – tematica, abbiamo chiesto aiuto ad Alberto Buzzoni, astronomo dell’INAF in forza all’Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio (OAS) di Bologna, coordinatore scientifico del progetto PRISMA e membro per INAF di OCIS, l’organismo nazionale che coordina le attività di sorveglianza e difesa spaziale.

Che cos'è e di cosa si occupa il progetto PRISMA di cui lei è coordinatore scientifico. Esistono organizzazioni analoghe a livello internazionale? Qual è il ritorno scientifico di questa rete osservativa?

La rete PRISMA è un progetto nazionale, coordinato da INAF, nato nel 2016 originalmente come estensione all’Italia Nord-occidentale della analoga rete di sorveglianza meteorica francese FRIPON. Si compone di una rete di piccole camere automatiche fish-eye, in grado di coprire tutto il cielo con il loro campo di vista, perennemente all’erta e pronte a registrare eventi celesti transienti di elevata luminosità. L’intento principale del progetto, però, non è solo quello di raccogliere serie storiche dell’attività meteorica sui cieli italiani, bensì di operare tutte le camere della rete in maniera coordinata così da poter calcolare in tempo reale la traiettoria di caduta nel caso di eventi di fireball particolarmente rilevanti, e produrre quindi previsioni accurate sull’orbita interplanetaria di arrivo del meteoroide e sul punto di caduta a terra per poter recuperare l’eventuale meteorite. Al momento (marzo 2018) PRISMA ha 21 camere operative e circa altrettante già acquisite e in via di installazione. Un aspetto molto interessante e in qualche modo unico di questo progetto è che, oltre agli istituti INAF e universitari italiani, aderiscono molte altre realtà del mondo educativo o culturale nazionale, come scuole, musei, centri culturali di divulgazione scientifica e anche singoli privati, appassionati di astronomia e desiderosi di contribuire in solido al progetto acquistando fisicamente una camera personale da aggiungere alla rete.

A proposito di Tiangong-1: cosa ci dicono i dati più aggiornati in suo possesso? Le previsioni sulla data del rientro coprono un arco temporale piuttosto esteso: gli ultimi dati permettono di restringere ulteriormente il campo e proporre una data meno vaga? A cosa è dovuta questa grande incertezza?

L’esatta predizione dei rientri in atmosfera di satelliti “dismessi” e più in generale dei detriti spaziali è un problema estremamente complesso e inevitabilmente incerto. Questa incertezza deriva essenzialmente dal carattere aleatorio dei fenomeni fisici in gioco poiché gran parte della forza di frenamento atmosferica, in grado di causare la perdita di velocità e la conseguente caduta di un oggetto in orbita, dipende dallo stato ad alta quota (sopra i 100 km) della nostra ionosfera. Ora, si sa che la densità a quelle altezze è fortemente influenzata dal flusso di particelle che ci arrivano dal Sole – il cosiddetto vento solare – e può variare in maniera erratica nel giro di ore, in corrispondenza delle tempeste magnetiche sulla nostra stella. L’altro aspetto da tenere in conto – e spesso incognito, specie nel caso dei detriti spaziali – riguarda poi l’assetto di volo dell’oggetto in orbita e l’area aerodinamica offerta alla resistenza dell’atmosfera. Anche in questo caso è evidente che questo numero può variare in maniera del tutto imprevedibile, per esempio nel caso di oggetti che ruzzolano fuori controllo o di cui non conosciamo forma e origine.

Nel caso della Tiangong-1, le nostre osservazioni indicano che, ancora pochi giorni fa, l’astronave orbitava sostanzialmente in assetto stabile, il che fa intuire che a bordo sia ancora attivo un qualche controllo di navigazione, non sappiamo se automatico o controllato da terra. Per quanto riguarda la data di caduta, a mano a mano che ci avviciniamo all’evento finale le incertezze si stanno riducendo e possiamo al momento restringere l’intervallo a circa +/- 3 giorni attorno alla data di previsione “nominale”. Quest’ultima dipende dal modo con il quale le diverse fonti specializzate nella previsione (ESA, ASI ecc.) valutano i due parametri di incertezza cui accennavamo sopra, ma l’accordo sembra stia convergendo verso i primissimi giorni del mese di aprile. Quindi in concomitanza o immediatamente dopo Pasqua.

Inevitabili le preoccupazioni che qualcosa ci possa cadere in testa. In che misura l’Italia potrebbe essere interessata dalla possibile pioggia di detriti? È noto che le possibilità di essere gli sfortunati bersagli di un detrito spaziale siano davvero infinitesime, ma vale anche nel caso di un oggetto piuttosto massiccio come la Tiangong-1? Quali sono le dimensioni limite perché un detrito non lo si debba più considerare pericoloso?

Anche sulla base di analoghe esperienze del passato, è praticamente certo che durante il rientro una gran parte della struttura in alluminio della Tiangong-1 evaporerà letteralmente attorno ai 60 km di altezza. La parte della struttura che potrà sopravvivere alla prima fase di fireball e le parti interne dell’astronave, protette dalla prima fase del rientro, si frammenteranno poi a quote più basse a causa dell’attrito con l’atmosfera terrestre più densa, per cui solo una piccola frazione della massa totale – quella in particolare in materiali a più alto punto di fusione, come il titanio e l’acciaio – cadrà fisicamente al suolo sotto forma di detriti di diverse dimensioni, raggiungendo velocità terminali di circa 200-300 km/h. Possiamo quindi attenderci pezzi di alcuni centimetri, anche se non possiamo escludere la possibilità che alcune parti molto più resistenti e di dimensioni maggiori, come alcuni dei serbatoi di propellente, possano sopravvivere quasi integre fino al suolo. Il grado di pericolosità di questi detriti è di difficile valutazione, ma più di ogni speculazione statistica credo valga semplicemente ricordare che, negli oltre 60 anni di attività spaziale, non si ha notizia di nessun incidente mortale avvenuto a terra per cause di questo tipo.

Altrettanto inevitabile chiederle di controllo e gestione dei detriti spaziali. Quale membro di OCIS, può chiarirci quale sia lo stato attuale su questo fronte a livello internazionale? Oltre al controllo costante dei detriti. A questo proposito, fino a quali dimensioni oggi si riesce a tenerli sotto controllo? Vi è qualche progetto concreto per intervenire?

OCIS nasce in Italia nel 2015 come organismo di interesse nazionale per il coordinamento e l’indirizzo dell’attività di sorveglianza spaziale e difesa. La sua costituzione recepisce, a livello nazionale, una risoluzione della Commissione europea riguardo la necessità di operare su basi comuni verso un programma di Space Situational Awareness, in grado cioè di garantire la salvaguardia delle infrastrutture spaziali europee (satelliti in orbita, stazioni al suolo etc.) rispetto al crescente problema dei detriti spaziali e delle possibili minacce da impatto di corpi celesti esterni. Per queste funzioni, OCIS raccoglie il contributo delle tre entità istituzionali coinvolte nell’osservazione e nella operatività spaziale, vale a dire l’ASI (l’Agenzia Spaziale Italiana), l’INAF (l’Istituto Nazionale di Astrofisica) e lo Stato Maggiore della Difesa (principalmente con il corpo dell’Aeronautica Militare).

Oltre all’Italia, la direttiva europea è stata al momento recepita anche da Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, vale a dire dalle cinque nazioni europee attualmente proprietarie, in prima persona, di asset spaziali in orbita. Dopo una prima fase di decollo organizzativo, il consorzio a cinque è attualmente in procinto di espandersi, includendo altri Stati membri della Comunità europea. Tra gli altri obiettivi, un punto centrale dell’attività del consorzio europeo sarà quello di arrivare, in prospettiva, a un censimento condiviso di tutti gli oggetti, attivi e dismessi, in orbita attorno alla Terra alle varie quote, fino al limite geostazionario. Questo database completerà e integrerà il catalogo finora più avanzato del NORAD americano, in modo da avere un quadro potenzialmente esaustivo della situazione in orbita per oggetti di dimensioni superiori ad una decina di centimetri, attualmente censiti solo in minima parte (qualche percento del reale totale atteso).

Ci può rassicurare sulla sindrome di Kessler?

Va detto che una soluzione definitiva non sembra in verità all’orizzonte prossimo, sia per le difficoltà tecniche del problema sia, più ancora, per le difficoltà politiche, visto che lo spazio per molti punti di vista legali è ancora “terra di tutti e di nessuno”… È importante, però, che sia in atto una presa di coscienza da parte delle diverse agenzie spaziali a livello planetario. L’ESA, per esempio, ha da poco inaugurato un suo progetto di ricerca sulle tematiche di ecologia spaziale, chiamato CleanSat, con il compito appunto di studiare nuovi metodi per mitigare il problema dei detriti. In attesa che si sviluppino soluzioni attive – per andare fisicamente a far pulizia in orbita – è però urgente adottare tutte quelle modalità passive di sorveglianza e censimento del traffico in cielo, come ora sta facendo con crescente successo OCIS in Italia.

 

Per approfondire:

Space debris: the ESA approach

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il soffocamento delle università e l’impoverimento del Paese continuano

laboratorio tagliato in due

Le riduzioni nel Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) limitano gli investimenti essenziali per università e ricerca di base: è una situazione che rischia di spingere i giovani ricercatori a cercare opportunità all'estero, penalizzando ulteriormente il sistema accademico e la competitività scientifica del paese.

In queste settimane, sul tema del finanziamento delle università e della ricerca, assistiamo a un rimpallo di numeri nei comunicati della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e del MUR (Ministero della Università e della Ricerca). Vorremmo provare a fare chiarezza sui numeri e aggiungere alcune considerazioni sugli effetti che la riduzione potrà avere sui nostri atenei ma anche sul paese in generale.