fbpx Valutazione, anche gli Usa piangono | Scienza in rete

Valutazione, anche gli Usa piangono

Primary tabs

Tempo di lettura: 3 mins

Valutare la ricerca non è facile. Neppure negli Stati Uniti, paese considerato all’avanguardia nel settore. Neppure per gli US National Institutes of Health (NIH), che hanno un sistema di valutazione considerato un modello. Solo una piccola parte dei progetti selezionati dall’agenzia federale americana si dimostra, infatti, eccellente. E solo una minima parte dei progetti americani eccellenti hanno superato il sistema di valutazione NIH.

È questa la conclusione del rapporto che Joshua M. Nicholson, ricercatore del Department of Biological Sciences del Virginia Tech di Blacksburg in Virginia, e  John P. A. Ioannidis, dello Stanford Prevention Research Center di Stanford in California, hanno di recente pubblicato su Nature. I National Institutes of Health degli Stati Uniti, ricordano i due, son il maggior singolo finanziatore al mondo di ricerca biomedica. Con il suo sofisticato sistema di valutazione mediante peer review, tra il 2002 e il 2011, l’agenzia federale ha promosso ben 460.000 progetti di ricerca, finanziandoli con qualcosa come 200 miliardi di dollari (una cifra pari a quella investita dall’Italia per tutta la ricerca scientifica, pubblica e privata).

Con quali risultati qualitativi?

La domanda non ammette risposte semplici, perché la qualità non è facilmente definibile e, tantomeno, misurabile. I due ricercatori hanno tentato comunque di farlo, pur conoscendo i limiti del metodo. In definitiva, hanno preso in esame i 1.380 articoli scientifici highly citated, sui 20 milioni pubblicati nel mondo tra il 2001 e il 2012 classificati nel database di Scopus. Gli articoli highly citated sono quelli che hanno ricevuto oltre 1.000 citazioni. Difficile dire se siano gli articoli migliori, certo sono gli articoli più influenti. Tra quei 1.380, ben 700 articoli sono classificati come biomedici e hanno almeno un autore affiliato a un istituto di ricerca degli Stati Uniti. I 700 articoli hanno 1.172 autori che figurano come primo o ultimo firmatario, o addirittura come autore singolo. Troppi, per essere analizzati compitamente. Cosicché Nicholson e Ioannidis, tra quei 700 articoli, hanno ne hanno selezionato a caso 158, per un totale di 262 “autori eleggibili”: ovvero autori afferanti a istituti americani, primi o ultimi (o singoli) firmatari. Ebbene solo 104 tra loro, il 39,7% del totale, hanno la ricerca “altamente citata” con fondi NIH. Ben 158 autori “altamente citati” americani, pari al 60,3% del totale, hanno svolto le loro ricerche altamente influenti con fondi diversi da quelli erogati dall’NIH. Qualsiasi sia la ragione, la parte prevalente della ricerca di punta americana in campo biomedico non è finanziata con i fondi pubblici degli NIH. Di conseguenza, l’influenza degli stessi NIH sulla ricerca di punta biomedica va leggermente ridimensionata.

Ma c’è di più. Tra i 1.172 autori americani “altamente citati” in campo biomedico solo 72 (il 6%) fanno parte del gruppo di studio che assegna i fondi NIH. Ma il gruppo di studio degli NIH è formato da 8.517 membri. Il che significa che solo lo 0,8% dei ricercatori che assegna fondi NIH è un ricercatore “altamente citato” e “influente”. Tutto questo – rilevano Nicholson e Ioannidis – contrasta alquanto con la missione assegnata ai National Institutes of Health: utilizzare i migliori ricercatori per finanziare i migliori progetti. Né la prima né la seconda parte dell’assunto viene rispettata.

Perché? Difficile dirlo, visto che finora il metodo di assegnazione dei grants da parte degli NIH era considerato tra i migliori al mondo. La verità è, probabilmente, che ogni sistema ha i suoi difetti. E che ogni sistema su vasta scala finisce per promuovere i progetti di ricerca che rientrano in quella che Thomas Khun – a proposito, sono 50 anni dalla pubblicazione del suo fondamentale The Structure of Scientific Revolutions – chiamava “la scienza normale” e che noi, più modestamente, potremmo definire più conformisti. Moda che prevale, inevitabilmente (?), anche nella selezione dei selezionatori.

Se Nicholson e Ioannidis hanno ragione, la loro analisi dimostra, ancora una volta, che occorre riflettere più a fondo su come si giudica la qualità nell’era della ricerca caratterizzata dalla quantità (di risorse, di ricercatori, di output).


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.