Immagine: French Presidency of the Council of the European Union, Media gallery
Una delle parole chiave di One Ocean Summit, il vertice voluto da Macron a Brest per migliorare la governance degli oceani, è seabed, fondale. È una delle idee più elementari che possiamo associare al mare: c'è una superficie e poi sotto c'è un fondale. Il problema è che di quello che c'è nelle profondità degli oceani sappiamo ancora pochissimo: uno degli impegni più interessanti del vertice di Brest è proprio questo: migliorare la messa a fuoco di cosa c'è sul fondo del mare. Al momento siamo in grado di misurare con esattezza la nostra ignoranza: la mappatura ha da poco superato il 20%, vuol dire che l'80% dei fondali oceanici è ancora al buio. Questa misura è in realtà un progresso importante: fino al 2017 la mappatura globale era ferma al 6%. Quell'anno è partito un programma UNESCO, finanziato in gran parte da Nippon Foundation (la più grande fondazione privata del Giappone) per portare avanti il costosissimo sforzo di creare una cartografia completa dei fondali oceanici, necessaria per identificare meglio rischi sismici o di tsunami, per la costruzione di infrastrutture off-shore, per rispondere in tempo ai disastri, per visualizzare meglio le conseguenze dei cambiamenti climatici, per portare avanti o scoraggiare il deep sea mining, l'esplorazione mineraria di profondità.
Da One Ocean Summit è quindi uscito l'impegno di arrivare all'80% di mappatura globale entro la fine del decennio. Per arrivarci servono uno sforzo finanziario massiccio e il coordinamento della comunità globale. Soldi e governance, insomma. Secondo la Intergovernmental Oceanographic Commission (IOC) sono necessari 5 miliardi di dollari per finanziare l'operazione 80%, 625 milioni di dollari all'anno da qui al 2030. Questa è diventata una tendenza cruciale nella diplomazia del clima, a ogni livello: la capacità di mobilitare fondi privati è stata uno dei temi centrali di One Ocean Summit, allo stesso modo in cui lo è stata per COP26 di Glasgow a novembre. Le risorse per la mappatura oceanica servono a portare avanti la ricerca tecnologica sui sonar, alla creazione di una flotta di cinquanta navi dedicate esclusivamente alla mappatura, all'esplorazione con veicoli sottomarini autonomi, pilotabili come se fossero droni, alla messa a regime dei dati esistenti ma non catalogati. Parte delle informazioni mancanti esistono già, ma sono custodite gelosamente sui server di governi, aziende, enti di ricerca. L'UNESCO si è anche impegnata a rendere pubblico entro il prossimo anno uno strumento di monitoraggio globale che possa aggiornare la comunità mondiale sui progressi in questo processo.
Questa campagna di mappatura ha obiettivi scientifici ma si intreccia a un'altra grande questione che riguarda la conoscenza, la governance del mare e la sostenibilità delle risorse: il deep sea mining. Le associazioni ambientaliste, in vista di One Ocean Summit, avevano fatto propria la richiesta di 600 scienziati, diffusa mesi fa con una preoccupata lettera aperta: una moratoria per l'esplorazione mineraria di profondità. Sul fondale oceanico ci sono immense ricchezze minerarie, soprattutto su quello dell'Oceano Pacifico orientale, nella Clarion-Clipperton Zone, una frattura geologica a 4mila metri di profondità tra Stati Uniti e Oceania. Si stima che su questo fondale ci siano migliaia di miliardi di noduli polimetallici, depositi delle dimensioni di una patata composti dei materiali critici che saranno sempre più richiesti nei prossimi anni a causa della transizione energetica e della richiesta di batterie: nickel, cobalto, manganese, rame. Al momento non esiste ancora uno sfruttamento commerciale, perché l'estrazione è troppo costosa e difficile e non ci sono regole. Ma nei prossimi anni i prezzi delle materie prime saliranno, rendendo questa strada economicamente conveniente, e l'innovazione tecnologica farà il resto. Da qui la richiesta di una moratoria prima che gli interessi economici travolgano qualunque principio di precauzione. One Ocean Summit non ha portato alcun risultato su questo fronte, anche perché il padrone di casa, il presidente francese Emmanuel Macron, più volte si è detto interessato a questa frontiera. Intanto la settimana scorsa uno dei principali produttori francese di auto, Renault, ha appoggiato la richiesta di un blocco preventivo. La decisione spetta a un organismo delle Nazioni Unite, la International Seabed Authority con sede a Kingston, in Giamaica.