Verso altri mondi
Quindi l'ali sicure all'aria porgo
né temo intoppo di cristallo o vetro:
ma fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo.
E mentre dal mio globo a l'altri sorgo,
e per l'etereo campo oltre penétro
quel ch'altri lungi vede, lascio a tergo.[1]
Così si esprime Giordano Bruno in uno dei tre sonetti premessi al dialogo italiano De infinito, universo e mondi del 1584. E con parole simili si esprimerà all'inizio del poema latino De immenso, pubblicato sette anni dopo.
Così io sorgo impavido a solcare con le ali l'immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio [...] Mentre mi sollevo da questo mondo verso altri lucenti e percorro da ogni parte l'etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti.[2]
Qual è il senso dell'utilizzo del linguaggio poetico in testi scientifici e filosofici, come questi senza dubbio sono? Che cosa ha a che fare la poesia, linguaggio di elezione dei sentimenti e delle emozioni, con la ricerca di una verità rispetto alla quale ogni affermazione in prima persona non può che essere irrilevante?
Come prima ipotesi, si può pensare ad un utilizzo della poesia come ornamento, come modalità retorica per alleggerire la proposta di argomenti filosofici e scientifici attraverso il ricorso a componimenti poetici propri, a citazioni di testi conosciuti, a loro interpolazioni o calchi.
Ma i brani appena proposti permettono di intuire che questo uso, pur ampiamente presente nei testi bruniani, non è l'unico, e soprattutto non è il più importante. C'è invece uno stretto collegamento tra l'impresa conoscitiva di Giordano Bruno e l'uso da parte sua del linguaggio poetico, e l'adozione di tale modalità espressiva ha un significato profondo.
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Verità e saggezza
Nel corso del Secondo dialogo degli Eroici furori, si discute sulla saggezza. L'ignoranza - si afferma - è "madre della felicità e della beatitudine sensuale", per cui solo qualche "insensato e stolto" può appagarsi del proprio stato di ignoranza, condannandosi così ad abitare "l'orto del paradiso degli animali". D'altra parte, come si legge nel Qohèlet: "chi aumenta la sapienza aumenta il dolore". "Chi dunque sarà savio" - chiede Cicada, uno dei dialoganti - "se pazzo è colui ch'è contento, e pazzo è colui ch'è triste?".
A questa domanda, che sembra non ammettere risposta, il poeta Tansillo risponde tessendo l'elogio del sapiente, che "non è contento, né triste".
Considerando il male e il bene, stimando l'uno e l'altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch'il fine d'un contrario è principio dell'altro, e l'estremo dell'uno è cominciamento dell'altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell'inclinazioni e temperato nelle voluptadi; stante ch'a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente, la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. Così il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono, ed afferma quelle non esser altro che vanità ed un niente; perché il tempo a l'eternità ha proporzione come il punto a la linea.[3]
La filosofia della natura, come lo stesso Bruno afferma nell'Epistola proemiale al De l'infinito universo et mondi,
apre gli sensi, contenta il spirto, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudine che può aver come uomo e consistente in questa tale composizione; perché lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori, lo fa goder dell'esser presente e non più temere che sperar nel futuro.[4]
La prospettiva qui proposta è simile a quella - a Bruno ben nota - della filosofia epicurea, e in particolare di Lucrezio, poeta da lui amato e al quale si ispira per i suoi componimenti latini in versi. La conoscenza della natura e delle sue eterne vicissitudini, infatti, ha per Lucrezio la funzione di consolidare il suo atteggiamento di distacco emotivo dal mondo: un mondo agitato, travagliato dal dubbio.
Ignorare le cause assilla le menti dubbiose,
se il mondo abbia avuto davvero un'origine e un giorno
natale,
e insieme se avrà un termine [...].[5]
Si tratta di un assillo, di un tormento senza tregua che può comportare lo svuotamento del senso stesso della vita, in un perenne affannarsi senza scopo.
Se gli uomini potessero, come è chiaro che sentono il peso
che grava loro nell'animo e li tormenta e li opprime,
conoscere anche le cause per le quali ciò avviene,
e perché quel fardello di pena sussista immutato nel cuore,
non trarrebbero la vita così, come ora per lo più li vediamo
non sapere che cosa ciascuno desideri [...][6]
Il sapiente osserva da lontano questo vano agitarsi dell'umanità, e ad esso si sente estraneo, pur ben conoscendo i penosi moti dell'animo che attanagliano i mortali.
E' dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto
mare,
guardare da terra il grande travaglio di altri;
non perché l'altrui tormento procuri giocoso diletto,
bensì perché t'allieta vedere da quali affanni sei immune. [7]
Questo atteggiamento di distacco è reso possibile dalla conoscenza della natura delle cose, dalla conoscenza scientifica. La proposta di Lucrezio, dunque, è quella di innalzarsi con la ragione al sopra e al di là del mondo: l'uomo gli apparirà allora come un nulla nell'infinita estensione dell'universo, il tempo della sua vita sarà un nulla rispetto al tempo infinito del mondo, la sua stessa esistenza si rivelerà un nulla rispetto all'infinita ricchezza delle possibili - e casuali - combinazioni di atomi.
Eppure - secondo Lucrezio - sarà proprio questo sguardo, che orgogliosamente relativizza se stesso fino quasi ad annullarsi, a permettere all'uomo di possedere la verità e giungere alla saggezza. E il linguaggio poetico verrà usato da Lucrezio proprio per celebrare la straordinaria portata della conoscenza alla quale Epicuro, primo tra i sapienti, è riuscito a innalzarsi, trapassando anch'egli metaforiche sfere di cristallo costituite dall'ignoranza e dal timore degli dei, per riportare agli uomini la conoscenza, nucleo della sapienza.
E dunque trionfò la vivida forza del suo animo
E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo,
e percorse con il cuore e la mente l'immenso universo,
da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere,
quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa
ha un potere definito e un termine profondamente
connaturato.[8]
In questa prospettiva, la conoscenza scientifica non è soltanto, per il sapiente, una distaccata rassegna di verità sul mondo: essa ha a che fare con la sua vita, con il suo rapporto con le passioni, con l'importanza attribuita alle cure e alle brame che occupano l'esistenza dei più.
L'anima del mondo
La prospettiva di Giordano Bruno, però, è diversa. Nel seguito del passo citato dagli Eroici furori appare chiaro che egli non si identifica con il sapiente lucreziano, ma ricerca una verità più profonda, che lo coinvolga più intimamente e più completamente.
In questa nuova prospettiva gnoseologica, egli propone allora un itinerario che potremmo definire mistico[9]: un itinerario che incontra da subito la difficoltà del distacco dalle brame mondane, che trascinano verso il basso chi vorrebbe volare in alto: egli non è, come il sapiente, "nella temperanza della mediocrità", ma piuttosto "nell'eccesso delle contrarietadi: ha l'anima discordevole, se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri" [10]. Come esprimere meglio che in poesia questo paradossale sentire?
Ahi, qual condizion, natura, o sorte:
in viva morte morta vita vivo.
Amor m'ha morto (ahi lasso) di tal morte
che son di vit'insieme e morte privo. [11]
Per Epicuro e per Lucrezio la materia è inanimata, costituita di atomi immortali ma inerti, soggetti - come dirà Lucrezio - a immutabili foedera naturae: a "leggi" di natura, potremmo dire con un antropomorfismo che avrà una straordinaria fortuna a partire dalla rivoluzione scientifica del seicento. Di tale rivoluzione Bruno non fa parte, non tanto per motivi cronologici, quanto piuttosto per la sua prospettiva profondamente diversa. Egli non nega il valore e l'importanza della matematica (qui chiamata a rappresentare la conoscenza scientifica), ma afferma per bocca di uno dei suoi personaggi che
[i matematici] son come quelli interpreti che traducono da un idioma a l'altro le paroli; ma son gli altri poi che profondono ne' sentimenti, e non essi medesimi.[12]
Sono "altri", insomma, quelli che colgono il senso di ciò che i matematici mettono in formule, quelli che si avvicinano alla verità più intima della natura.
Davanti a una natura inanimata avrebbe ragione la "santa asinità", ossia la devozione timorosa e ignorante, della quale egli si fa beffe nello Spaccio de la bestia tronfante quando domanda
Che vi val, curiosi, il studiare,
voler saper quel che fa la natura,
se gli astri son pur terra, fuoco
e mare?[13]
Ma Bruno non concepisce una natura passivamente obbediente a foedera naturae: egli parla piuttosto di una natura vivente in ogni sua più piccola parte. La dinamica del mondo, per lui, è dovuta non già a impassibili leggi (come sarà invece per Galileo e per tutta la rivoluzione scientifica), ma ad attrazioni vitali, a "ordinate e natural volontà".
Se ben consideriamo, trovarremo la terra e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l'universo, come danno la vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno la materia, ed a' medesmi la restituiscano, cossì e molto maggiormente hanno la vita in sé: per la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno a le cose e per gli spacii convenienti ad essi. E non sono altri motori estrinseci, che col movere fantastiche sfere vengano a trasportare questi corpi come inchiodati in quelle; il che se fusse vero, il moto sarrebe violento fuor de la natura del mobile [...]. Consideresi dunque, che, come il maschio se muove a la femina e la femina al maschio, ogni erba e animale, qual più e qual meno espressamente, si muove al suo principio vitale, come al sole e altri astri [...].[14]
Uno spazio infinito e privo di un unico centro è popolato di innumerevoli mondi, infiniti di numero seppure di natura finita, composti di atomi. Gli atomi, a loro volta, sono il ricettacolo ultimo della potenza vitale: ciascuna di queste unità minime è investita di tutta la potenza della causa infinita. Facendo propria la famosa immagine di Cusano, Bruno può affermare che ciascun atomo si trova al centro della sfera infinita, il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo.
Anche l'universo lucreziano è infinito: ma si tratta di un infinito gelido e lontano, reso concettualmente necessario da ragionamenti come quello sul destino di una freccia lanciata verso l'esterno dall'estremo limite dell'universo. In questo vuoto infinito gli atomi si agitano senza tregua e senza scopo, e con il loro congiungersi e disgiungersi danno luogo a tutte le effimere architetture dell'esistente, del tutto casuali e prive di senso.
Democrito e gli epicurei, i quali, quel che non è corpo, dicono esser nulla, per conseguenza voglion la materia sola esser la sostanza delle cose. [...] Questi medesmi [...] voglion le forme non esser altro che certe accidentali disposizioni della materia.[15]
Il problema del senso, appunto, è centrale nel pensiero di Giordano Bruno, e lo avvicina a scienziati come Keplero che, alle soglie della rivoluzione scientifica, si pongono domande che verranno decretate prive di senso dai paradigmi dominanti.
Nell'aderire alla proposta copernicana, Keplero si interroga appunto sul senso del sistema solare: perché le distanze tra le orbite dei pianeti sono proprio quelle e non altre? Perché quell'inspiegabile, immensa distanza tra il sole e le stelle? E cerca di rispondere - seguendo e sviluppando la lezione pitagorica - immaginando i poliedri regolari inseriti tra un'orbita e l'altra a determinarne la distanza, quantificando l'armonia musicale che alle orbite corrisponde, sviluppando questa armonia in polifonia quando immaginerà orbite ellittiche, leggendo lo spazio immenso tra il Sole e le stelle come immagine della seconda persona della Trinità.
Anche Bruno cerca un senso profondo, ma non lo cerca presso i matematici. Egli parte da Copernico - "più studioso de la matematica che de la natura"[16] -, poi se ne allontana, relativizzando la centralità del SolePer lui, infatti, ogni cosa, ogni atomo "può essere centro, perché ogni essere, visibile o invisibile, indipendentemente dalle sue dimensioni, è animato dalla stessa forza vitale".[17]
La materia, per Bruno, non è soggetta ad un caso che, insieme alle leggi naturali, ne definisce le forme, e nemmeno, aristotelicamente, a forme che la plasmano dall'esterno. Le forme scaturiscono piuttosto dalla materia stessa, da
un artefice interno che forma la materia e la figura da dentro, come da dentro del seme o radice manda ed esplica il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brancie, da dentro queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le fronde, gli fiori, gli frutti [...][18]
Si può ben affermare allora che "la materia non è quel prope nihil, quella potenza pura, nuda, senza atto, senza virtù e perfezzione" a cui la riduceva Aristotele. E se, appunto, Aristotele per "elucidare che cosa fosse la prima materia" prendeva "per specchio il sesso feminile", sottolineandone la passività, l'inferiorità, l'imperfezione, Bruno replica con una immagine altrettanto femminile, ma di segno opposto: è la materia che dà vita a tutte le forme possibili[19]. Non si tratta però, come si è detto, di una nuova contrapposizione dualistica, perché materia e forme sono indissolubilmente congiunte nell'universo "uno, infinito, immobile" [20].
Bruno afferma la conoscenza profonda dell'unità della natura come oggetto proprio della filosofia naturale: si tratta di una proposta che è insieme necessaria e di impossibile realizzazione.
Eroici furori
Un "vincolo" lega profondamente l'appassionato ricercatore - il "furioso", come Bruno lo definisce - alla natura: un vincolo al quale il sapiente lucreziano è estraneo, un vincolo che porta insieme gioia e sofferenza. Per parlare di questo legame, egli ricorre alle immagini dell'amore, dell'amore eternamente inappagato e sofferente, rivisitando così in modo originale i modelli e gli stilemi della poesia del suo tempo[21].
Il furioso, quale il poeta si dipinge, al tempo stesso soffre ed è felice, e non vorrebbe essere felice senza questa sofferenza.
Mai fia che de l'amor io mi lamente
senza del qual non vogli' esser felice[22].
La ragione della necessità di questa ricerca è mirabilmente espressa nel De immenso, in stretta analogia con il rapporto tra materia e forme.
E' connaturato in tutti gli uomini e in ciascuno il desiderio di abbracciare la totalità [...]; considerare nella sua universalità ciò che gli appare invece nella sua singolarità; usufruire totalmente di ciò di cui usufruisce solo in parte. Insomma, convinto di riuscirvi, cerca di dominare anche quelle cose da cui è dominato; e non è soddisfatto dei risultati raggiunti, quando si presenti ancora qualcosa da poter conseguire. Nello stesso modo, la materia particolare, sia essa corporea o incorporea, non assume mai una struttura definitiva e, non essendo paga delle forme particolari assunte in eterno, aspira nondimeno in eterno al conseguimento di nuove forme.[23]
In termini meno filosofici e più vicini all'esperienza diretta della ricerca, questo stesso problema viene affrontato anche negli Eroici furori, in un dialogo tra Cicada a Tansillo.
Cicada. Onde procede, o Tansillo, che l'animo in tal progresso s'appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch'il stimola sempre oltre quel che possiede?
Tansillo. Da questo, che ti dirò adesso. Essendo l'intelletto divenuto all'apprension d'una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all'affezione commensurata a tale apprensione, l'intelletto non si ferma là. [...] Perché sempre vede che quel tutto che possiede, è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l'universo, non è l'ente absoluto, ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma [...]. Sempre dunque [...] fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margine e circonscrizione alcuna.[24]
Si tratta dunque di una ricerca necessaria, perché impossibile a realizzarsi una volta per tutte proprio perché è senza fine, perché "è conveniente e naturale che l'infinito per essere infinito sia infinitamente perseguitato"; ma nello stesso tempo "non è cosa naturale né conveniente che l'infinito sia compreso".[25]
Ecco dunque l'origine del "dolce languire" nella ricerca del vero, che in molti componimenti poetici viene cantato da Bruno.
Se la farfalla al suo splendor ameno
vola, non sa ch'è fiamma al fin discara;
se, quand'il cervio per sete vien meno,
al rio va, non sa della freccia amara;
s'il lioncorno corre al casto seno,
non vede il laccio che se gli prepara.
I'al lume, al fonte, al grembo del mio bene,
veggio le fiamme, i strali e le catene.
S'è dolce il mio languire,
perché quell'alta face sì m'appaga,
perché l'arco divin sì dolce impiaga,
perché in quel nodo è avvolto il mio desire,
mi fien eterni impacci
fiamme al cor, strali al petto, a l'alma lacci.[26]
Si tratta dunque di una impresa paradossale: di un infinito desiderio di infinito[27] che consuma e che può risultare incomprensibile, inaccettabile al volgo, a "l'ignobil numero".
Pensi chi vuol ch'il mio destin sia rio,
ch'uccid' in speme e fa viv' in desio.
Pascomi in alta impresa;
e bench' il fin bramato non consegua,
e 'n tanto studio l'alma si dilegua;
basta che sia sì nobilmente accesa;
basta ch'alto mi tolsi,
e da l'ignobil numero mi sciolsi.[28]
L'immagine più pregnante di questa infinita "caccia" alla verità infinitamente desiderabile eppure irraggiungibile viene tratta da Bruno dalle Metamorfosi di Ovidio: si tratta del racconto del cacciatore Atteone che, vedendo l'immagine di Diana riflessa nell'acqua, diviene egli stesso un cervo e viene sbranato dai proprio cani.
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
il giovan Atteon, quand'il destino
gli drizz'il dubio et incauto camino,
di boscareccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l'acqui il più bel busto e faccia
che veder poss'il mortal e divino,
in ostro et alabastro et oro fino
vedde: e 'l gran
cacciator divenne caccia.
Il cervo ch'a' più folti
loghi drizzav'i passi più leggieri
ratto voraro i suoi gran cani e molti.
Negli ultimi versi del componimento poetico, è Bruno stesso a fornire la chiave interpretativa dell'allegoria della morte del cacciatore, dopo che ha contemplato il riflesso di Diana "tra l'acqui", ossia "nel specchio de le similitudini, nell'opre dove riluce l'efficacia della bontade e splendor divino".[29]
I'allargo i miei pensieri
ad alta preda, et essi a me rivolti
morte mi dan con morsi crudi e fieri.[30]
Ma come intendere la morte di Atteone? Si tratta di
una morte de l'anima, quella che da cabalisti è chiamata morte
di bacio, figurata ne la Cantica di Salomone, dove l'amica dice
che mi
bacie col bacio di sua bocca
perché col suo ferire
in troppo crudo amor mi fa languire.[31]
Proprio negli stessi anni, San Giovanni della Croce compone un poema ispirato alla medesimo libro della Bibbia per descrivere la ricerca e il rapimento dell'anima verso Dio. Nel testo bruniano c'è un rovesciamento, nel senso che è l'amante ad andare alla ricerca dell'amata, e non viceversa: ma anche la sua ricerca aspira alla "morte di bacio".[32]
Più avanti nel testo, lo stesso Bruno scioglierà l'allegoria per bocca di Tansillo.
Cossì Atteone con que' pensieri, que' cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, divenne preda, veddesi convertito in quel che cercava, e s'accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercar fuor di sé la divinità. [33]
I cani dunque, divorando Atteone, lo rendono
morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de' perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana [...][34].
Questa di vedere "la Diana ignuda" è un'esperienza di pochi:
Rarissimi, dico, sono gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda [...]. Questa è la Diana, quell'uno che è lo stesso ente, quello ente che è l'istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole della natura superiore[35].
Non è questa, certo, la contemplazione di Dio: ma è una esperienza straordinaria di unione con la natura, con l'infinità e l'infinita vitalità del mondo.
Una sapienza nuova e antica
Nei Dialoghi italiani, Bruno esalta in versi la bellezza e l'ambiguità dell'esperienza conoscitiva. Nei poemi latini di Francoforte, composti secondo il modello stilistico lucreziano, egli canta anche i contenuti di questa conoscenza.
Ciascun essere animato, o pianta o pietra, comprende in sé ogni altro, anche se in maniera occulta[...]. Nondimeno, ogni cosa contiene il tutto nelle sue parti, anche se non è il medesimo l'aspetto delle cose, in quanto ciò che in un oggetto è implicito, nell'altro è esplicitato. Non sono meno feconde la pietra, la polvere, la cenere solo per il fatto che non hanno una forma definita.[36]
Da questa nuova conoscenza discende anche una saggezza nuova: una saggezza che si manifesta soprattutto nella fede nel senso del mondo, in una bontà naturale del tutto.
Uno spirito ordinatore, dopo essersi esplicato negli aggregati atomici, coordina il tutto, fino a che, trascorso il tempo e infranto lo stame della vita, si ricomprime nel centro e nuovamente si espande nello spazio infinito: tale evento è solitamente identificato con la morte. Poiché ci spingiamo verso una luce sconosciuta, a pochi è concesso l'avvertire quanto questa nostra vita significhi in realtà morte e questa morte significhi assurgere a nuova vita.[37]
La morte, per Bruno, non è la terribile e innominabile esperienza che spaventa l'umanità, ma nemmeno l'irrilevante trasformazione epicurea e lucreziana di una vita anch'essa irrilevante. Per lui, la morte può essere un modo di "assurgere a nuova vita", nel senso di un congiungimento più profondo e diretto con l'anima del mondo.
Dal momento della nascita a quelli successivi della vita, uno spirito ordinatore si espande in quello che è il nostro corpo, e si diffonde dal cuore, nel quale alla fine ritorna, come gli orditi della tela di un ragno che convergono al centro, in modo da entrare ed uscire per la medesima via percorsa e per la medesima porta. La nascita è dunque l'espansione del centro, la vita una sfera compiuta, la morte una contrazione verso il centro.[38]
E' questa certezza che gli permetterà di affrontare la morte che seguirà al fallimento del suo progetto di pacificazione religiosa: una certezza che è già presente anche nei dialoghi italiani.
Avete dunque come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in quello, quello in noi; e così tutto concorre in una perfetta unità. Ecco come noi non dobbiamo travagliarci il spirito, ecco come cosa non è, per cui sgomentarne doviamo.[39]
Bibliografia
[1] G.Bruno, De l'infinito, universo e mondi, in G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET,
Torino, 2002, p.31. Un'approfondita analisi delle strutture poetiche nell'opera
di Giordano Bruno si può trovare in L..Bolzoni, "Note su Bruno e Ariosto", Physis,
XXXVIII (2001), 1-2, pp.41-66.
[2] G.Bruno, De immenso, in Opere latine di Giordano Bruno, trad,.
it. di C.Monti, UTET, Torino, 1980, p.418.
[3] G.Bruno, De gli eroici furori, in G.Bruno, Opere italiane,
vol. 2, UTET, Torino, 2002, pp. 544-545.
[4] G.Bruno, De l'infinito, universo e mondi in G.Bruno, Opere italiane, vol. 1, UTET,
Torino, 2002, p.25.
[5] T.Lucrezio Caro, De Rerum Natura,
libro V, 1211-1213 (trad. it. di Luca
Canali, Rizzoli, Milano, 1990, p. 513).
[6] T.Lucrezio Caro, De Rerum Natura,
libro III, 1053-1058 (trad. it. di Luca
Canali, Rizzoli, Milano, 1990, pp. 325-327).
[7] T.Lucrezio Caro, De Rerum Natura,
libro II, 1-4 (trad. it. di Luca Canali,
Rizzoli, Milano, 1990, p.157).
[8] T.Lucrezio Caro, De Rerum Natura,
libro I, 72-77 (trad. it. di Luca
Canali, Rizzoli, Milano, 1990, p.77).
[9] Si tratta però di una mistica che può anche prescindere dall'esistenza
di un Dio soprannaturale. Si veda a questo proposito N.Ordine, La soglia
dell'ombra, Marsilio, Venezia, 2003, p.135.
[10] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.548.
[11] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.548.
[12] G.Bruno, La cena de le ceneri, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.447.
[13] Lo spaccio de la bestia trionfante, in G.Bruno, Opere
italiane, vol.2, UTET, Torino, 2002, p.415.
[14] G.Bruno, La cena de le ceneri,
in G.Bruno, Opere italiane, vol.
1, UTET, Torino, 2002, p.512.
[15] G.Bruno, De la causa, principio et uno, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 1, UTET, Torino, 2002, p.678.
[16] G.Bruno, La cena de le ceneri, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 1, UTET, Torino, 2002, p.449.
[17] N.Ordine, La soglia dell'ombra, Marsilio, Venezia, 2003, p. 76.
[18] G.Bruno, De la causa, principio et uno, in G.Bruno,
Opere italiane, vol. 1, UTET, Torino, 2002, p.679.
[19] G.Bruno, De la causa, principio et uno, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 1, UTET, Torino, 2002, pp.716-720.
[20] G.Bruno, De la causa, principio et uno, in
G.Bruno, Opere italiane, UTET, Torino, 2002, p.725.
[21] N.Ordine, La soglia dell'ombra, Marsilio, Venezia, 2003, p.128;
L.Bolzoni, "Note su Bruno e Ariosto", Physis, XXXVIII (2001), 1-2,
pp.41-66.
[22] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.607.
[23] G.Bruno, De immenso, in Opere Latine, trad. it. di
C.Monti, Utet, Torino, 1980, p.420.
[24] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.584.
[25] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.585.
[26] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.559.
[27] Si leggano a questo proposito le profonde e documentate riflessioni di
N.Ordine nel suo La soglia dell'ombra, Marsilio, Venezia, 2003, pp.125 e
segg.
[28] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol. 2, UTET, Torino, 2002, p.563.
[29] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol.2, UTET, Torino, 2002, p.576.
E'chiara qui l'allusione all'immagine della conoscenza di Dio proposta da
S.Paolo.
[30] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane, vol.2, UTET, Torino, 2002, pp.575-576.
[31] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane,
vol.2, UTET,Torino, 2002, p.582.
[32] Si veda a questo proposito il commento di M.Granada in G.Bruno, Opere
italiane, UTET, Torino, 2002, p.582.
[33] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane,
vol.2, UTET, Torino, 2002, p.578.
[34] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane,
vol.2, UTET, Torino, 2002, pp.695-696.
[35] G.Bruno, De gli eroici furori, in
G.Bruno, Opere italiane,
vol.2, UTET, Torino, 2002, p.695.
[36] G.Bruno, De immenso, in Opere Latine, trad. it. di
C.Monti, Utet, Torino, 1980, pp.684-685.
[37] G.Bruno, De triplici minimo, in Opere Latine, trad. it. di
C.Monti, Utet, Torino, 1980, p.100.
[38] G.Bruno, De triplici minimo, in Opere Latine, trad. it. di
C.Monti, Utet, Torino, 1980, p.100.
[39] G.Bruno, De la causa, principio e uno, in G.Bruno, Opere italiane,
vol.2, UTET, Torino, 2002, p.730.