Virulenta come un accesso febbrile, una dilagante fede positivistica contagiò gran parte dei suoi contemporanei. Stizzito da tanta semplicioneria, Victor Hugo pensò allora bene di scuoterne le fondamenta con una delle sue solite geniali osservazioni: «la scienza è l’asintoto della verità». La conoscenza scientifica si avvicina indefinitamente alla verità, costantemente la sfiora, ma per quanto possa arrivarle vicino, proprio non le è dato di possederla. E non certo perché la verità sia un concetto metafisico, trascendente, accessibile solo a chi abbia avuto il dono della vera fede. O comunque non solo per questo. Molto più prosaicamente la scienza non possiede la verità perché la realtà che la scienza si propone di conoscere ha un carattere essenzialmente dinamico, mutevole, plurale, e per quanto costretta “entro i limiti della sola ragione” essa risulterà sempre eccedente rispetto ai suoi pur raffinati strumenti interpretativi. Ma comunque, se è vero che qualche decennio più in là la scienza medesima, per bocca di Heisenberg, avrebbe ratificato da par suo l’intuizione dello scrittore francese, è altrettanto vero che solo un ingenuo avrebbe potuto credere che qualche Hugo o Heisenberg di turno sarebbero bastati per far venir meno, in un sol colpo, la vecchia confortante idea di una scienza come sapere inesorabilmente cumulativo e progressivo, dotato di tutti i necessari crismi per afferrare l’intima verità delle cose.
Nella prima metà del Novecento, agli occhi di tanti filosofi e storici del pensiero scientifico, il riduzionismo assertorio e semplificatorio della fisica, della matematica, della chimica e di gran parte della biologia, continuava insomma ad apparire un insostituibile jolly ed erano in pochi quelli che cominciavano a puntare, con ostinata sistematicità, altrove. Primo fra tutti, Gaston Bachelard. Pensatore assolutamente fuori dagli schemi, “dialettico” senza essere hegeliano («Per quanto grande - scriveva in un saggio dall’originale titolo, Surrationalisme – sia la tentazione di connettere il razionalismo dialettico ai temi hegeliani, essa va certamente respinta. La dialettica hegeliana ci pone di fronte a una dialettica a priori, una dialettica in cui la libertà dello spirito è troppo incondizionata, troppo desertica»), “razionalista” senza essere cartesiano (il primo impedimento alla formazione di uno “spirito scientifico” è a suo giudizio proprio quello di pensare di poter fondare la conoscenza sull’«apparente chiarezza dell’intuizione»), acuto teorico di una “filosofia temporale” senza essere bergsoniano, intellettuale erudito senza alcuna sacra icona da venerare («Nulla – scriveva nella Filosofia del non - ha rallentato di più il progresso della conoscenza scientifica quanto la falsa dottrina del generale che ha regnato da Aristotele a Bacone incluso»), l’avventura di Bachelard è un tale caleidoscopio di idee, concetti e teorie, che non pare esagerato giudicare nel loro insieme, a uno sguardo retrospettivo, come la base speculativa a partire da cui la filosofia della scienza del XX secolo ha potuto reinventare se stessa. Per questo, per l’importanza e per la complessità delle tematiche affrontate, La storia aritmica. Saggio sull’epistemologia di Gaston Bachelard (Giannini Editore, € 10.00) di Riccardo De Biase è un libro prezioso, nel quale non solo vengono tracciate le linee essenziali del pensiero del grande epistemologo ma, attraverso di esse, si invita il lettore a scorgere idee nuove: «potremmo tentare l’esperimento – scrive De Biase – di ascoltare le parole di Bacheard che parlano del significato del ritmo, e “tradurle” in modo tale da ascoltare qualcosa d’altro». Sì ma cosa? Rielaborando le celebri nozioni bachelardiane di «rettificazione», di «ostacolo epistemologico», di «consolidazione temporale», nonché quella particolarmente insidiosa, a suo modo scivolosa, quasi burrosa, di «negazione», l’autore mostra come il pensatore francese si sia fatto portatore di una epistemologia della discontinuità, intessuta di eventi e fratture, portatore cioè di una «epistemologia storica» al cui cospetto diventa chiara «l’inevitabilità che la scienza vera sia una storia-di-scienze, una scienza temporale del tempo che, attraverso il suo proprio ritmo, le sue cadenze, discordanze, assonanze e dissonanze può fornire il “materiale” alla ragione scientifica». Musa dell’inevitabile incontro tra le “due culture”, la riflessione di Bachelard è senz’altro – e qui gli aggettivi di De Biase sono davvero ficcanti – una riflessione «d’avanguardia, sperimentale, futurativa».