Tornano alla ribalta delle cronache le polemiche sull’insegnamento in inglese. La decisione di alcuni Atenei di tenere corsi in questa lingua, infatti, ha aperto un acceso dibattito. Sollevando una levata di scudi che ha perfino avuto riflessi giudiziari: il Senato Accademico del Politecnico di Milano ha fatto ricorso contro la recente decisione del TAR che ha detto “no” all’insegnamento esclusivo in inglese nelle lauree specialistiche e nei dottorati, accogliendo la richiesta di diversi docenti secondo cui va difeso il primato della lingua italiana sancito dalla Costituzione.
Una decisione, quella del TAR - peraltro presa sulla base di una legge del 1933 - ancora più sorprendente se consideriamo che arriva in un momento in cui persino la Francia, il Paese in cui il computer viene chiamato ordinateur, si apre all’uso dell’inglese nell’insegnamento, per essere competitiva a livello internazionale in quella che è la “corsa all’oro” del terzo millennio. L’oro grigio, i cervelli.
I corsi in Inglese, altamente qualificati e capaci di attirare gli studenti più talentuosi, sono uno degli strumenti di questa war for brains, cui il nostro Paese purtroppo partecipa da “fanalino di coda”. L’Italia è potenzialmente attrattiva per giovani studenti qualificati. Ad esempio per l’International Medical School (MIMed), il corso di Laurea internazionale in Medicina dell’Università degli Studi di Milano che ha sede in Humanitas, per l’anno accademico 2013/2014 le richieste sono state più di 1.500, di cui oltre 600 da parte di studenti stranieri, che hanno effettuato un test di ingresso di Cambridge per riuscire ad accedere ai 60 posti disponibili. E per l’anno accademico in corso (2012/103), quasi la metà dei nuovi iscritti (il 44%) non sono italiani e provengono da Paesi diversi, sia dell’Unione Europea sia extra UE. L’utilizzo della lingua inglese - che, piaccia o no, rappresenta la lingua della Scienza - è un elemento imprescindibile nei corsi di studio cui partecipano studenti provenenti da tutto il mondo.
Opporsi all’insegnamento in lingua inglese per preservare la nostra lingua e difendere la cultura italiana è profondamente sbagliato. Anzi, è vero il contrario. Accogliere giovani talenti da tutto il mondo, che studiano nel nostro Paese restandovi per anni, è in assoluto il modo migliore per promuovere la nostra cultura. Questi ragazzi, infatti, mentre studiano in inglese vivono in Italia, accanto agli italiani. Quando, per loro, sarà il momento di mettere in pratica le nozioni acquisite - ad esempio per gli studenti di Medicina di passare dalle aule alla clinica, a contatto con i pazienti - saranno comunque stati guidati nell’apprendimento dell’italiano, che usano nella vita di tutti i giorni. Infatti passano nel nostro Paese i momenti liberi andando al cinema, a teatro, ai concerti. Mangiano il nostro cibo. Fanno qui conoscenze ed amicizie, costruiscono legami organici con l’Italia. Respirano in tutto e per tutto la nostra cultura ed i nostri valori, per anni, e quando ritornano nei rispettivi Paesi d’origine contribuiscono a diffonderli.
Non dimentichiamo, poi, che avere una forte componente internazionale a livello dei corsi universitari è un valore aggiunto anche per i nostri stessi studenti, perché li abitua a vivere in un ambiente più stimolante, aperto al confronto con coetanei di culture diverse, ampliando i propri orizzonti.
La cultura italiana, quindi, non si difende chiudendo le porte al mondo. Al contrario. Si difende aprendole e attirando i migliori talenti, che arricchiscono il Paese che li ospita e favoriscono la crescita scientifica di quello da cui provengono. E l’insegnamento di alta qualità in inglese è il modo migliore in cui possiamo fare questa operazione.
Pubblicato su Corriere della Sera, 8 giugno 2013