Anche la scienza, come ogni fenomeno culturale, è soggetta a “mode” più o meno passeggere e il termine open science rinvia a una questione che, affondando le sue radici nello scenario di crisi strutturale in cui sta prendendo corpo la società del XXI secolo, è troppo importante perché questo rischio possa essere corso. In questa sede proviamo a considerarne le linee generali soffermandoci in particolare su un punto che passa spesso in secondo piano, trascurato o dato per scontato, ma che è propedeutico a ogni approfondimento: scienza aperta a chi?
La risposta a questa domanda va condotta su due piani: uno interno e uno esterno rispetto alla comunità degli esperti.
Sul primo, si tratta di qualificare l’apertura della scienza nella costituzione epistemica del merito della conoscenza scientifica; sul secondo, nella costituzione materiale della cittadinanza della science-based society.
Nel considerare entrambi i piani, argomenteremo che l’indirizzo politico definibile
come open science contribuisce in maniera decisiva alla costituzione della knowledge-society, intesa come democratic science-based society.
Internal open science
Come internal open science possiamo intendere la libera circolazione di dati e ritrovati, prove, scoperte, idee e ipotesi (ivi compresi i data negativi, quel che non è stato trovato mentre lo si cercava, le disprove e quel che va scartato ecc.) fra coloro che possono essere considerati esperti e aventi diritto a usufruirne (peer). In questo senso, la open science è sancita come costitutiva della comunità scientifica in base al principio etico del comunitarismo, uno degli ethos che Merton individuò come valore fondativo della scienza per
garantirne il buon funzionamento in vista dell’incremento della conoscenza certificata. Tale principio afferma che la conoscenza è un bene comune: nessuno può appropriarsene, ma anzi ogni scienziato deve contribuirvi. Perfino l’autore di una grande scoperta non possiede come titolo proprietario altro
che quello autoriale che al massimo corrisponde al privilegio dell’eponimia con la quale si può, peraltro, entrare nella storia.
La sociologia della scienza successiva ha però messo in dubbio la reale presenza di questo imperativo etico dietro ai comportamenti degli scienziati.
Non foss’altro per la impossibilità pratica di controllarne l’effettivo rispetto a partire dagli unici dati scientifici sui quali si può pensare di studiare il comportamento di uno scienziato, ovvero le pubblicazioni scientifiche che produce.
Recentemente, si è assistito però a un revival di studi sull’ethos mertoniano proprio perché la considerazione della diminuita autonomia e delle stesse determinazioni storico-sociali della “soggettività” degli scienziati ha
fatto esplodere da un lato il ginepraio filosofico del relativismo e, dall’altro, ha minacciato le fondamenta epistemologiche della conoscenza effettivamente generata e dunque della stessa science-based society. Né la semplice affermazione di autonomia né la sua cinica negazione “relativistica” sono soddisfacenti.
Non possiamo approfondire il tema in questa sede, ma si comprende come di qui sia sorta l’esigenza di un riesame dell’impegno riflessivo etico-epistemologico dello scienziato nel mutato contesto.
L’open science, da questo punto di vista, più che una caratteristica naturalmente costitutiva della scienza, sembra piuttosto un indirizzo politico per la tutela del valore civico e culturale della scienza ovvero del carattere pubblico (“bene comune”) della generazione e istituzionalizzazione della conoscenza.
L’inappropriabilità della conoscenza scientifica, d’altra parte, si fonda sul carattere cooperativo del bene conoscenza che ne fa, sì, un bene comune ma di natura particolare. Non solo con l’uso la conoscenza non si deteriora (e dunque non siamo rivali nell’accedervi) ma anzi, al contrario, migliora la qualità della conoscenza istituzionalizzata e ne aumenta il valore. Ne sono esempio sia l’uso personale ripetuto (uso multiplo), sia anche l’uso da parte di persone diverse (uso plurimo).
Se dunque nella conoscenza vi è utile pubblico, anche al di là dei benefici ottenibili dai suoi frutti applicativi, allora vi è un interesse pubblico a garantire più ampia possibile l’apertura del suo uso. Più ampia è la base costituita da coloro che hanno effettivamente accesso alla conoscenza prodotta, migliore è lecito aspettarsi sia la qualità della scienza prodotta. E qui si innesta la seconda accezione di apertura: a chi bisogna guardare in questa apertura della produzione di conoscenza?
External open science
Se l’utilità della conoscenza aumenta con il suo uso, come abbiamo argomentato, la risposta programmatica a quest’ultima domanda è: a tutti i cittadini.
Ma senza una dotazione di capitale di conoscenza, quella scientifica risulta di fatto inaccessibile, tantomeno migliorabile. Essa, in effetti, mostra di essere, per sua natura epistemologica e in assenza di politiche pubbliche, un “bene di club”. L’external open science concerne, allora, proprio l’apertura al contributo attivo dei cittadini non esclusivamente considerabili esperti (peer) attraverso interventi di empowerment. Essa coincide sostanzialmente con le politiche pubbliche della conoscenza, dall’educazione all’informazione, sino alla citizen science cui si ispira l’attuale frontiera della comunicazione della scienza ovvero sino alla sperimentazione di modalità partecipative dei cittadini nei vari contesti della società della conoscenza (cfr. public engagement in S&T, civic epistemology, socially robust science ecc.).
Oltre alle opportunità offerte dalla crowd-sourced science (si pensi alle scienze amatoriali e al loro contributo alla scienza “ufficiale”, come per esempio nel caso degli astrofili) si è sperimentato, infatti, che la miglior comunicazione scientifica è quella che più efficacemente stimola i partecipanti al coinvolgimento attivo inteso emotivamente, creativamente e partecipativamente nella costruzione di risultati condivisi.
Quel che può succedere, e a ben vedere sempre succede, è che il risultato produce innovazione, oltre a promuovere un consenso decisivo nelle questioni di policy dell’innovazione.
Lo si vede chiaramente quando si stimola la fantasia dei bambini nell’educazione scolastica formale e informale ma non è meno vero quando si ha a che fare con adulti in questioni tecnologicamente complesse. Non solo bisogna infatti considerare le cosiddette folk sciences, i cosiddetti “saperi tradizionali” o “saperi locali” che possono utilmente essere introdotti (soprattutto ove si tratti di geolocalizzare la conoscenza, come nel caso di installazioni ad alta tecnologia e alto danno potenziale).
Bisogna anche tener conto del fatto che sempre più spesso i cittadini che vengono a confrontarsi con un tema “da esperto” sono essi stessi esperti, seppur di altri temi, o potenzialmente tali su questioni che entrano nella loro “agenda”.
Dunque, il loro apporto può essere decisivo su molte delle questioni socialmente più rilevanti proprio per il miglioramento del merito tecnico intrinseco.
La finalità delle politiche educative nella knowledge-society, insomma, deve essere appunto di aumentare i cittadini (knowledge-able citizens) che vi partecipano attivamente.
E anche – non dimentichiamolo – l’occasione di ripensare una volta in più i fondamenti del proprio patrimonio di conoscenze esperte per presentarle a un pubblico non esperto, importante perché costituisce per lo scienziato “certificato” un’opportunità preziosa onde evitare la sclerosi dogmatica del taken-for-granted della scienza (deformazione professionale). Lo spirito scientifico è un fuoco sacro da mantenere acceso contro dottrinarismi e scolasticismi, tanto più è rilevante la scienza per la società, tanto meno le si può
far correre questo rischio.
La scienza nella knowledge-society
Nella prima accezione, open science è aperta comunicazione interna alla comunità dei peer (quelli certificati o riconoscibili come tali) mentre nella seconda è aperta comunicazione esterna, a tutta la società (tutti i cittadini).
Entrambe, per altro, sono due facce della stessa medaglia, sfumando i loro contorni nella knowledge-society (democratic science-based society). Lo sviluppo di una società della conoscenza produce sempre più cittadini
dotati di una conoscenza che non è più solo esperienziale e non formalizzata, ma anche esperta a tutti gli effetti. Dunque, sempre più spesso essi sono in grado di fornire conoscenza utilizzabile socialmente. D’altronde, proprio per il carattere cooperativo della conoscenza, il campo di conoscenza del singolo
è sempre più limitato rispetto al campo del sapere necessario al proprio corso di vita. La dipendenza dalle conoscenze altrui – possiamo dire – cresce proporzionalmente al crescere della propria conoscenza personale, al di là di quanto possa sembrare. È questo il “paradosso della knowledge-society”, che è tale solo se letto alla luce delle specie sociali precedenti in cui, a pochi “dotti di corte”, si contrapponevano masse sterminate di “sudditi incolti”.
Da qui sorge, invece, tanto il carattere individualista dei cittadini contemporanei quanto il carattere globale della società della conoscenza in cui essi vivono. Ognuno viene a dipendere sempre di più dagli altri ma, valendo questo per tutti, il contributo di ciascuno entra nella vita di tutti gli altri.
Le due comunicazioni costituiscono, allora, la circolazione della conoscenza ovvero il processo fondamentale che contraddistingue la società della conoscenza da quelle che l’hanno preceduta e che solo può garantire, contemporaneamente, la produzione di merito e di cittadinanza, capacità individuale
e democrazia collettiva. Ma vediamo meglio come si inserisce la comunicazione aperta nella società della conoscenza.
Nonostante sviluppi ineguali, tentativi egemonici e crescenti diseguaglianze (fra nazioni e gruppi di individui) e nonostante pendoli vistosi che possono offuscare i fenomeni di fondo, sulla longue durée si assiste a un cambiamento sociale in due direzioni che costituiscono le linee portanti
dello sviluppo globale (drivers della socialità): verso una società dei cittadini e verso un’economia della conoscenza.
Lungo la prima linea, gli individui tengono sempre più a partecipare alla governance della società in cui vivono e, d’altra parte, a vedere i loro diritti più concessi (spesso non solo come diritti formali ma come reali politiche di welfare, in questo caso della conoscenza, anche a costo di dure lotte). Lungo la seconda, la conoscenza diviene un fattore chiave in un numero crescente di scambi socio-economici (spesso monetari, ma sempre più spesso anche solo simbolici: si pensi al volontariato o alla filosofia wiki e al croud-sourcing).
Mettendo insieme i due drivers, emerge un modello di società della conoscenza come società democratica basata sulla scienza in cui le nuove disuguaglianze sono in primo luogo di conoscenza. Non si tratta solo di asimmetrie informative, ma di knowledge capital, ovvero quantità e qualità delle
informazioni ricevute, capacità di valutare le informazioni per usabilità e conseguenze, opportunità di apprendimento e applicazione di quanto appreso, stili cognitivi mentre si ragiona e si agisce, habitus e riferimenti valoriali nel costruirsi scenari, fiducia in se stessi e personali aspettative, resilienza e apertura mentale. Possiamo parlare anche di differente capacità di “immaginazione sociologica” ovvero di concepire l’istante che si sta vivendo come un momento dell’intero percorso biografico, all’interno delle dinamiche sociali contemporanee e, infine, nel quadro dello sviluppo storico più ampio che comprende anche proprio lo sviluppo della capacità di pensare se stessi, la propria vita sociale e l’umanità medesima.
Se vogliamo imbastire una modellazione astratta della più complessa specie sociale che l’umanità abbia mai sperimentato, dobbiamo dotarci di uno sguardo teorico articolato su questi tre piani logici dell’immaginazione sociologica: l’individuo, il collettivo e la conoscenza. Trattandosi di dimensioni logiche,
nessuno di questi tre termini può pensarsi riferito a “oggetti” dotati di vita autonoma. Si tratta, piuttosto, di “etichette” che si riferiscono ai processi inestricabilmente interconnessi che cuciono insieme le maglie della complessità.
Per quanto più da vicino qui ci concerne, la dimensione individuale ha a che fare con i complessi processi dell’agire e del ragionare nella situazione contingente (evenemenziale); la dimensione collettiva con il campo scientifico (organizzato nelle sue istituzioni e reti sociali) e le sue relazioni nell’intera knowledge-society planetaria (con le sue istituzioni nazionali e internazionali, pubbliche e private, ONG e delle arene dell’opinione pubblica). La dimensione della conoscenza è costituita dalla complessa tipologia delle produzioni culturali. Vi è una conoscenza di “tipo intellettuale” più esplicita nel linguaggio
oppure in esso più implicita (sia nelle implicature conversazionali sia nelle tacite convinzioni profondamente radicate nel dato per scontato). La conoscenza di “tipo pratico” può essere invece distesa su un asse che va dalle abilità (know-how) alle competenze (saper essere/comportarsi in specifici contesti
sociali).
Infine, la conoscenza di “tipo oggettivato” ha a che fare con oggettivazioni in cui essa compare incapsulata, utilizzabile proprio in quanto non è necessario appropriarsene né come risorsa intellettuale né come pratica, trattandosi di strumenti (con l’utente in gran parte all’oscuro del funzionamento che il progettista vi ha predisposto, attivando però, così, una catena lunga e opaca di dipendenze dagli “esperti”) o di beni culturali (con il più alto valore estetico) o anche, ampliando ancora il nostro orizzonte, di ambienti carichi di conoscenza siano essi ad alta tecnologia (per esempio web-of-things) oppure paesaggi low-tech (paesaggi urbani o semplicemente antropizzati).
Il modello teorico così delineato mostra una circolarità tra i tre livelli logici consentendoci di individuare le quattro fasi logiche che più sopra abbiamo incontrato solo frammentariamente: generazione di conoscenza,
istituzionalizzazione, diffusione, socializzazione.
La prima riguarda la partecipazione creativa dell’individuo, con il suo knowledge-capital; la seconda, il controllo del valore collettivo della conoscenza generata e la sua stabilizzazione; la terza, la diffusione di tale conoscenza nella società più ampia (attraverso i canali propri di ciascuno dei tipi di conoscenza appena esaminati); la quarta, infine, la regolazione della scienza e la socializzazione delle persone alla conoscenza socialmente riconosciuta (knowledge-able citizens). Ciò che emerge dopo una circolazione logica è quel che trattiamo come innovazione, cioè quella nuova conoscenza, sotto qualsiasi forma, che fuoriesce permeando (anche se disomogeneamente e non linearmente) l’intera società. Il modello – notiamo di passaggio – non è né causale né lineare e dunque le fasi costituiscono piuttosto una sequenza logica che non cronologica.
Conclusioni: questioni di governance
Da ultimo, possiamo considerare che tipo di governance emerge dal modello.
Si tratta fondamentalmente di una knowledge governance, consistendo nel rendere più fluida e partecipata la circolazione della conoscenza e dunque l’innovazione. Ma non sembri riduttivo. Nella knowledge-society, infatti, il piano della conoscenza è quello decisivo. Ciò non vuol dire che non esistano altre dimensioni rilevanti nella politica contemporanea ma semplicemente che la knowledge-society, piuttosto che sostituire le forme sociali precedenti, vi si deposita al di sopra ridefinendole. La storia, infatti, non trascorre ma si
stratifica e ogni strato ridefinisce i significati di ciò che lo ha preceduto. Così avviene per le società. Dunque, mentre permangono le criticità delle forme sociali precedenti, se ne mostrano di nuove e di amplificate.
È da notare che tanto lo sviluppo di una economia della conoscenza quanto quello di una società degli individui beneficiano di tale governance e contribuiscono al contempo allo sviluppo della knowledge-society.
Si tratta, certo, di una società dove non solo la scienza ma anche l’intero patrimonio di conoscenza, e dunque in generale la cultura, sono al centro degli scambi.
Inoltre, non solo i cittadini sono dotati di conoscenza sempre più sofisticata ma sono anche chiamati a esprimere liberamente la loro creatività. Dunque – detto in breve – vediamo profilarsi il superamento del contrasto tutto moderno fra merito di pochi e partecipazione di tutti ovvero fra conoscenza e democrazia (modernamente intese). Difficilmente, infatti, le principali forze politiche della modernità classica hanno saputo dimostrare di coglierne il legame, profondo quanto complesso, con la lucidità per esempio dei nostri
Padri Costituenti (si pensi solo a Piero Calamandrei, per il quale la scuola è “organo costituzionale”)4 Si capisce, dunque, come la società che viene dopo la modernità (in questo senso “post-moderna”), e che non è altro che la stratificazione di una knowledge-society (intesa come società democratica basata sulla scienza),
spiazzi chi alla politica guarda sia a partire dall’affermazione di un astratto (ipostatizzato) merito di pochi sia a partire dall’“astratta” (demagogica) eguaglianza di tutti.
Senza eguale partecipazione di tutti la qualità del merito è dubbia, così come senza piena capacità di ciascuno la democrazia di una società della conoscenza è insicura.
Massime priorità politiche sono, attualmente, entrambe le comunicazioni che con la open science si intendono liberare. Dopo tutto, l’intera circolazione della conoscenza non è altro che la “comunicazione della scienza” e proprio questa, dunque, è un fattore chiave per la governance della contemporaneità.
Promuovere l’open science significa, abbiamo visto, rendere la scienza capillarmente partecipata nella società e per ciò stesso con maggiori garanzie di qualità e con maggiore quantità di nuova conoscenza condivisa. D’altra parte, significa anche rendere i cittadini più e meglio dotati di conoscenza e in grado di prendere scelte collettive ad alto contenuto tecnico in maniera più consapevole e responsabile.
Perseguire l’open science vuol dire oggi sospingere la mente conoscente (mente collettiva) e la cittadinanza democratica in territori del tutto nuovi.
Tratto da Scienza & società - Open Science Open Data
Bibliografia
-Bourdieu P., Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano 2001.
-Cerroni A., Scienza e società della conoscenza, Utet, Torino 2006.
-Cerroni A., Il futuro oggi. Immaginazione sociologica e innovazione: una mappa fra miti antichi e moderni, Franco Angeli, Milano 2012.
-Cerroni A., Simonella Z., Sociologia della scienza. Capire la scienza per capire la società contemporanea, Carocci, Roma 2014.
-Miller C.A., “Civic epistemologies: constituting knowledge and order in political communities”, Sociology Compass 2/6, pp. 1896-1919, 2008.