Succede anche nel “nuovo mondo”. Anche in Corea del Sud i creazionisti sono riusciti a “crocifiggere Darwin” e a cacciarlo, di fatto, dalla scuola.
E sì che la “tigre asiatica” vanta la maggiore percentuale di giovani laureati al mondo: nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni, infatti, il 63% dei coreani ha conseguito un titolo di studio nel terzo livello di educazione. Pur essendo una nazione di dimensioni demografiche ed economiche medie, occupa la quinta posizione al mondo – dopo Usa, Cina, Giappone e Germania – per spesa assoluta in R&S, ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Da molti anni, è nel novero dei quattro o cinque paesi al mondo (con Israele, Svezia, Finlandia e Giappone) che hanno centrato quello che in Europa è noto come “obiettivo di Barcellona”: un’intensità di investimenti in R&S pari ad almeno il 3% del Prodotto interno lordo (Pil): di cui almeno l’1% di investimenti statali e oltre il 2% di investimenti privati. Grazie a questa scommessa sull’educazione, sulla ricerca scientifica e sull’innovazione tecnologica la Corea del Sud ha segnato performance economiche di valore assoluto. Dopo la Cina è il paese che negli ultimi 30 anni ha fatto registrare la maggiore crescita del Pil al mondo. Il reddito medio pro-capite, che nel 1980 era un quarto rispetto a quello italiano, da un paio di anni ha superato il nostro. L’indice di Gini, che misura la disuguaglianza sociale, è diminuito: oggi la distribuzione del reddito è di gran lunga più equa in Corea che in Italia. Inoltre il paese asiatico è leader al mondo della cosiddetta “green economy”.
Ebbene in questo paese, che è considerato a giusta ragione l’avanguardia assoluta dell’”economia della conoscenza”, una minoranza organizzata – la “Società per la revisione dei testi scolastici”, legata all’Associazione coreana per la ricerca sul creazionismo – ha lanciato una campagna per espungere dai libri di testo i riferimenti all’evoluzione biologica: no a ogni richiamo all’evoluzione biologica dell’uomo, via persino ogni riferimento all’evoluzione del cavallo, che nessuno provi a indicare nell’Archaeopteryx una linea evolutiva che lega i dinosauri agli uccelli.
Dunque, neppure i paesi emergenti – che qualcuno ha definito il “nuovo mondo” – sono immuni da forme di irrazionalismo di massa con marcati caratteri antiscientifici che si condensano quasi sempre in una “crocefissione di Darwin”. Proprio come succede negli Stati Uniti, il paese tradizionalmente leader della società della conoscenza.
Proprio come negli Stati Uniti, in Corea il creazionismo ha una diffusione di massa: uno su tre degli abitanti del paese asiatico non crede nell’evoluzione biologica e, tantomeno, nell’evoluzione biologica dell’uomo. E proprio come negli Stati Uniti questo sentimento trova espressione in movimenti organizzati che conseguono successi concreti: la gran parte degli editori di testi scolastici coreani, come riporta la rivista Nature in un recente reportage da Seul, ha aderito alla richiesta della “Società per la revisione dei testi scolastici” e ha espunto ogni riferimento all’evoluzione nei libri destinati agli studenti delle scuole medie. Il problema è che in Corea la gran parte degli insegnanti – anche degli insegnanti di biologia – non crede nell’evoluzionismo. E che persino l’Istituto Coreano di Studi Avanzati di Scienza e Tecnologia, il più importante del paese, ha display creazionisti nel suo campus e un’Associazione di professori e studenti creazionisti piuttosto numerosa e agguerrita.
Come mai questa contraddizione? Come mai nei paesi scientificamente e tecnologicamente all’avanguardia – dagli Stati Uniti alla Corea, appunto – c’è una cultura antidarwiniana così diffusa? A differenza che in America, gli antidarwiniani della Corea non hanno una forte connotazione religiosa. Dunque, occorre cercare spiegazioni più profonde. Una prima ipotesi è che la cultura scientifica abbia avuto occasione di produrre risultati pratici, ma non è stata ancora metabolizzata né in Corea né negli Stati Uniti (dove il 40% della popolazione non crede nell’evoluzione biologica). Un’ipotesi di spiegazione, forse più profonda, fornita anni fa dall’antropologo americano Christopher P. Toumey è che le manifestazioni di irrazionalismo si affermano e gli «scienziati di Dio» scendono in campo quando in una società tecnologicamente avanzata quando diventa egemone un preciso modello di cultura scientifica: il modello banale della scienza. Un approccio culturale, intrinsecamente «pragmatista», che guarda all’impresa scientifica solo come a una fonte di prodotti di consumo. Questo modello non ha bisogno di un’epistemologia forte, ma solo di una collezione di fatti. Non ha bisogno di senso critico e di scelte. Delega agli esperti la soluzione dei problemi, pratici, metodologici e soprattutto teorici, mentre, scrive Toumey, «invita a rispettare i simboli della scienza, piuttosto che a comprenderne i contenuti».
Forse
è questo modello culturale di interpretazione della scienza che si sta
affermando anche in Corea. E rischia di minare alla base la società globale
della conoscenza.
Converrebbe
discuterne. E non far finta di niente.