Il premio Nobel per Medicina o Fisiologia per il 2012 è stato assegnato al britannico John Gurdon e al giapponese Shinya Yamanaka "per la scoperta di cellule che possono essere riprogrammate per diventare pluripotenti rivoluzionando così la nostra comprensione dello sviluppo di cellule e organismi". Agli addetti ai lavori non sarà sfuggito che la motivazione ricorda procedure un tempo di gran moda in genetica sperimentale: la clonazione per trapianto di un nucleo somatico in un ovocita e la terapia genica a base di DNA.
A 60 anni dalla sua prima pubblicazione Gurdon, ottantenne, è ancora scientificamente attivo: rampollo di una famiglia importante fu bocciato da un suo insegnante come inadatto a fare ricerca, oggi è considerato uno dei fondatori della clonazione animale. Le sue ricerche iniziarono verso la metà del ‘900 e ripresero il problema della riprogrammazione di cellule uovo per trasferimento del nucleo estratto da cellule di embrioni precoci d’anfibi (preferiti per ragioni operative: uova numerose, grosse e facili da recuperare; fecondazione extracorporea). Gurdon scelse lo Xenopus laevis, un rospo africano nuovo alla ricerca: all’inizio come donatrici di nucleo usò cellule di embrioni precoci (blastule) secondo l’approccio avviato un decennio prima dagli americani Briggs e King con la più tradizionale Rana pipiens. In particolare Gurdon studiò la dipendenza di qualità e quantità dei suoi ‘cloni’ rispetto al grado di sviluppo delle cellule donatrici: i suoi risultati mostrarono che il differenziamento non inibiva la totipotenza del materiale nucleare, ma anche che le rese crollavano da un decoroso 30% (se i nuclei da trapiantare derivavano da girini), a zero (se da adulti). Dopo aver trapiantato 129 nuclei di cellule della pelle di rospi adulti (coltivate in vitro) e prodotto 6 girini, che purtroppo non seguì nel loro eventuale sviluppo, concluse: "La specializzazione delle cellule non causa nessun perdita, o inattivazione irreversibile o modificazione permanente dei geni cromosomici richiesti per lo sviluppo". Da notare che, rispetto a Gurdon, Briggs e King vantavano risultati per un verso un po’ più incoraggianti (ottennero 27 girini dopo 197 trasferimenti di nuclei di cellule di blastule, o embrioni preimpianto, non dell’intestino di girini, come fece Gurdon); ma meno incoraggianti per il grado di sviluppo del donatore di nuclei (già i girini non funzionavano più). Per via di quest’ultima differenza la conclusione di Gurdon andava in direzione opposta a quella di Briggs e King, per i quali il differenziamento era incompatibile con il mantenimento della totipotenza.
Il lavoro di Gurdon pose termine, perentorio ma non del tutto giustificato, ad una lunga diatriba iniziata a fine ’800, che aveva visto contrapporsi le scuole di Spemann e di Weissmann, entrambi tedeschi: il primo sosteneva la costanza della totipotenza del ‘genoma’ nel corso dello sviluppo, il secondo la negava. La comunità scientifica del tempo apprezzò di più i pochi ranocchi che si riusciva a produrre da cellule di organismi a sviluppo limitato (al massimo girini), rispetto all’incapacità di produrre cloni a partire da cellule di organismi pienamente sviluppati o addirittura adulti: nonostante rare e flebili obiezioni, optò per la costanza della totipotenza e s’incamminò verso ambiziosi traguardi come la clonazione di animali completamente sviluppati, la terapia genica, la genomica, il recupero della staminalità. Tutte procedure basate sulla persistenza della totipotenza e quindi in accordo col Dogma Centrale della biologia molecolare, emesso proprio in quegli anni. Oggi Gurdon dirige il J. B. Gurdon Institute for Cancer and Developmental Biology, fondato nel 1989 col supporto del Wellcome Trust, la potente ‘charity’ inglese, e intitolato a lui: è uno dei pochi istituti di ricerca inglesi che portano il nome di uno scienziato vivente; un altro è l’Institute for Genomics, pure a Cambridge, intitolato al pluri-Nobel Fred Sanger pioniere del sequenziamento di proteine e DNA, ma che dopo tanti riconoscimenti ha preferito dedicarsi al giardinaggio. Intanto Gurdon è stato nominato sir, pubblica in prevalenza reviews del suo lavoro e ha vinto numerosi premi (penultimo il Lasker e buon ultimo l’inatteso Nobel).
L’altro Nobel 2012 è Shinya Yamanaka: nato in Giappone l’anno (1962) in cui Gurdon a Cambridge faceva nascere i primi rospetti clonati, passò presto dalla clinica di chirurgia ortopedica al laboratorio. S’è imposto sulla scena biomedica solo pochi anni fa, grazie alla scoperta di un gruppo di geni di topo che trapiantati in cellule somatiche differenziate, come i fibroblasti, favoriscono la loro conversione in cellule di tipo embrionale, note come iPSC (cellule staminali indotte pluripotenti): era il 2006. Da allora le iPSC sono diventate popolarissime: altri ricercatori soprattutto americani hanno esteso la tecnica a cellule umane. In pochi anni Yamanaka ha ricevuto numerosi riconoscimenti, guarda caso anche un Premio Lasker (di norma un pre-Nobel) insieme con Gurdon e altri, prima di esser laureato anche lui con un Nobel per molti osservatori ampiamente meritato.
Prima di commentare annuncio e motivazione del riconoscimento, accolti con il consueto entusiasmo dai media di tutto il mondo, vorrei riprendere i pareri sulle ricerche premiate espressi in tempi non sospetti, cioè prima del Nobel, e formulati da un paio di ricercatori di grande esperienza.
Primo esperto:
"Nel futuro il valore delle cellule riprogrammate sarà di due tipi. Uno è la produzione di linee cellulari a lunga durata a partire da cellule di pazienti con malattie genetiche: l’obiettivo specifico è usarle come bersaglio di farmaci o di trattamenti potenzialmente utili. L’altro è produrre cellule di ricambio per certe malattie. L’utilità di questo tipo di terapia ‘rigenerativa’ è legata alle seguenti condizioni: 1. essere disponibili in misura adeguata; 2. svolgere la loro funzione anche se non integrate normalmente nei tessuti del paziente; 3. essere capaci di sintetizzare la quantità giusta del prodotto desiderato. Vediamole più da vicino:
Condizione 1. Un adulto normale contiene circa 1.000 miliardi di cellule, il suo fegato dieci volte meno. Arrivare a produrne tante sfruttando processi che hanno rese bassissime, circa uno su diecimila, come nel caso delle iPSC, richiede un numero elevatissimo di divisioni cellulari in provetta, anche se i tempi lunghi delle colture cellulari portano a generose amplificazioni. Per fortuna alcune parti del corpo umano, data la loro piccolezza, potrebbero migliorare le loro funzioni compromesse con molto meno cellule. Un esempio: la retina, la cui cura potrebbe richiedere “solo” centomila cellule.
Condizione 2. Le cellule trapiantate devono apportare benefici anche se non sono integrate normalmente nell’organismo. La maggior parte degli organi consistono in complessi aggregati di diversi tipi di cellule. Il pancreas ad esempio contiene cellule esocrine, cellule del dotto, e almeno quattro tipi di cellule che secernono ormoni nelle isole endocrine. Cellule endocrine trapiantate potrebbero generare un vantaggio terapeutico anche se non incorporate normalmente nella complicata configurazione del pancreas. In certi casi le cellule trapiantate possono indurre effetti benefici attraverso percorsi indiretti.
Condizione 3. Occorre che le cellule nelle quali siano stati trapiantati i geni candidati vengano regolate correttamente in modo da produrre la quantità fisiologica di prodotto.
Ma se guardiamo avanti, per terapie sostitutive si possono ipotizzare approcci diversi. Si potrebbe evitare il trapianto di geni nelle cellule: occorre però identificare la giusta combinazione dei rispettivi prodotti genici (piccoli metaboliti) e nel caso potrebbero essere loro a venire trasferiti nelle cellule; potrebbe anche essere utile identificare negli organi adulti popolazioni di cellule che si comportano normalmente, così che prima del trapianto queste cellule possibilmente in uno stato naturale di minor specializzazione possano esser amplificate e fatte differenziare in coltura. È ragionevole prevedere che nel futuro probabilmente si mirerà alla ‘unipotenza’ e alla ‘oligopotenza’ (cioè alla generazione di uno o pochi tipi di cellule) più che alla ‘pluripotenza’ (la capacità di differenziarsi in uno qualsiasi degli oltre duecento tipi di cellule derivate dai tre foglietti embrionali) e certamente più che alla ‘totipotenza’ (la capacità di differenziarsi in tutti i tipi di cellule embrionali, extra-embrionali, come la placenta, e somatiche (necessarie per formare un intero organismo). Analogamente potrebbe esser preferibile creare nuovi tipi di cellule trasformando cellule normali derivate da una linea strettamente collegata piuttosto che tornare indietro alla totipotenza e quindi da un ambito più esteso dover successivamente restringere le opzioni differenziative. Nel caso di terapie sostitutive, la totipotenza e la pluripotenza non sono criteri o obiettivi desiderabili. Uno stato di oligopotenza con possibilità di differenziamento limitato è probabilmente molto più sicuro e utile, almeno dal punto di vista terapeutico.
Diamo ora la parola al secondo esperto, che in una dichiarazione rilasciata un paio d’anni fa alla domanda ‘Che cosa si aspetta dalle iPSC entro un anno e entro 10 anni?’ rispondeva così:
"In un anno mi aspetto che verranno realizzate diverse applicazioni in tossicologia e diverse scoperte in farmacologia: sono davvero lì, appena dietro l’angolo. Tra dieci anni? Non è facile fare previsioni di questo tipo. Si spera che diventi possibile usare le iPSC in medicina rigenerativa, ma è presto per fare queste previsioni. Ci sono tante difficoltà prima della loro applicazione clinica. Le iPSC sono come i bambini: hanno enormi potenzialità, ma non possiamo predire cosa faranno da grandi. Per ora sono meno sicure delle staminali embrionali anche se molti dei problemi sono di natura tecnica. Mi auguro che riusciremo a superare quelli che riguardano e efficacia entro pochi anni, così che tra un decennio potremo usare le iPSC in terapia. Ma ripeto, non è facile fare buone diagnosi e ancor meno prescrivere buone cure".
A questo punto vorrei cercare di associare alle osservazioni dei nostri due esperti alcuni fatti rilevanti e proporre delle conclusioni personali. Tra i fatti più importanti ricordiamo che a novembre del 2011 la Geron, una delle maggiori società USA attive nel campo delle staminali e proprietaria di un numero elevato di brevetti-chiave, ha annunciato che abbandona un suo studio tanto complesso quanto controverso sugli effetti del trapianto di staminali embrionali in pazienti con ingiurie alla spina dorsale (si vedano a riguarda le previsioni a breve del secondo esperto). La Geron ha lasciato poco dopo che la Corte Europea di Giustizia aveva vietato la brevettabilità di prodotti e processi basati su cellule staminali embrionali: nell’UE nessuna procedura che porti alla soppressione di embrioni può essere brevettata in quanto ritenuta offensiva della pubblica morale. A nulla è valsa la dimostrazione sperimentale che ci sono procedure di derivazione di staminali embrionali che comportano ’solo’ la rimozione di mini-biopsie di 1-2 cellule da embrioni pre-impianto allo stadio di morula (una decina di cellule) senza causarne la soppressione. Ma anche se questa soluzione, una conquista della FIV per altro tecnicamente delicata, potesse essere generalizzata resta un’altra obiezione all’uso delle staminali: il loro coinvolgimento con la formazione di tumori. Gli studi avviati specificamente per approfondire questo legame pericoloso concordano con i più significativi risultati dell’attuale genomica e denunciano un fenomeno che se confermato porrebbe dubbi molto seri sulla concreta fattibilità dei tanti impieghi annunciati per le staminali. Il fenomeno che è al centro dell’attenzione degli studiosi è l’instabilità del genoma. Il DNA contenuto nelle nostre cellule, cioè quel genoma presente nelle cellule prodotte da una serie di circa 50 cicli di divisioni cellulari (mitosi) attraverso le quali da un ovulo fecondato (zigote) s’arriva ad un organismo completo e funzionale con le sue migliaia di miliardi di cellule del suo soma. Il numero totale di queste divisioni eccede di parecchio il numero delle cellule che ci compongono: molte delle nostre cellule (come ad esempio i linfociti), sono soggette a ricambio; altre sono stabili (come i neuroni). Le divisioni necessarie sono accompagnate dalla duplicazione del DNA genomico: all’esordio il nostro genoma era il prodotto della fusione del genoma materno con quello paterno, ma già nelle prime divisioni i genomi delle cellule embrionali modificano la loro struttura, in risposta sia a stimoli esterni accidentali e spesso dannosi, sia a programmi fisiologici e utili: la più importante scoperta del Progetto Genoma Umano indica che il nostro DNA è fatto per il 50% da DNA instabile: questo potrebbe derivare dalla necessità di sopperire ad una nostra carenza di ‘geni’ che codificano per proteine (ne abbiamo circa 20.000, un terzo di certi protozoi!) altrimenti inspiegabile. L’instabilità genomica riguarda sia la sequenza stessa del DNA, sia le sue modificazioni ‘epigenetiche’, e influisce sulle sue interazioni con proteine e RNA cromosomici. Può esser utile alla versatilità della nostra dotazione ‘genetica’ e quindi all’adattamento ambientale del nostro ‘fenotipo’ (come siamo e cosa facciamo), ma al contempo è purtroppo suscettibile di degenerare in una perdita della regolazione del funzionamento e del coordinamento delle nostre cellule con conseguenze disastrose, cumulativamente note come tumori.
In relazione alle motivazioni del Nobel per la medicina le procedure che possono riprogrammare le cellule di un organismo complesso come il nostro comportano il rischio di alterare un equilibrio delicatissimo: nel caso del trapianto di nuclei somatici in cellule uovo l’alterazione di questo equilibrio causa l’interruzione prematura dello sviluppo fisiologico dell’organismo. Si pensi alle basse rese della clonazione e al problematico sviluppo di Dolly e degli animali che s’è cercato di clonare, dai rospi di Gurdon a tutti gli animali da cortile o da zoo. Per non parlare del fallimento totale nella clonazione di primati, umani e non, a meno degli annunci pubblicitari di leader di culti esoterici, tipo i raeliani, e di esperti di tecniche procreatiche con sigle strane e ancor meno affidabili. Quanto alle procedure che portano a iPSC, non si deve dimenticare che i loro ipotetici impieghi richiedono l’introduzione nelle cellule da rigenerare di DNA ricombinanti composti da vettori retrovirali caricati di geni per fattori di trascrizione riconosciuti come coinvolti in fenomeni neoplastici (i proto-oncogeni c-Myc e Klf4). In vista dei problemi che possono derivarne (mutagenesi più oncogenesi) c’è chi chiede ‘la verifica dell’integrità dei genomi di iPSC prima del loro uso in eventuali terapie’ (Blasco et al. Genomic instabilty in iPSC: time for a break. The EMBO J. 30: 991, 2011; ma si vedano anche Laurent et al. Cell Stem Cell 8: 106, 2011; Pasi et al . Cell Death Differ. doi:10.1038/cdd.2011.9). Si invoca una verifica in realtà inattuabile visto che gli usi terapeutico-rigenerativi comportano l’impiego di milioni di cellule: non è possibile esaminarle tutte, anche per via dell’invasività delle attuali analisi, e purtroppo bastano poche cellule ‘devianti’ per causare disastri; né si vede come si potrebbero richiamare dopo il trapianto, come si fa con auto difettose. Il mondo seguì con grande trepidazione la prematura degenerazione di Dolly e la sua misteriosa eutanasia: e ora la clonazione animale non esiste più. Per non parlare delle frodi purtroppo frequenti nelle offerte di terapie rigenerative oggi come ai tempi degli alchimisti medioevali.
Il primo dei due esperti sopra citati è J. B. Gurdon (Science 322:1811, 2008), il secondo è S. Yamanaka (Nature Rev. Genetics, 11:390,2010).