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Libero accesso ai dati per una scienza libera

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I costi sarebbero alti, ma non proibitivi: circa 60 milioni di sterline ogni anno. Ma in compenso gli scienziati di sua Maestà Britannica avrebbero un sistema di comunicazione on line con peer review totalmente open access: in rete, libero e gratuito. I vantaggi sarebbero enormi. In termini logistici: non ci sarebbero più spazi fisici da cercare. In termini economici, perché attualmente le università inglesi spendono il 2,7% del loro budget per abbonarsi alle riviste e allestire le loro librerie (cartacee e on line). Ma soprattutto in termini cognitivi, perché la comunità scientifica potrebbe continuare a rispettare uno dei suoi valori fondativi (comunicare tutto a tutti) e uno dei suoi procedimenti più significativi, l’analisi critica da parte dei pari di tutti i suoi risultati.

È questo, in estrema sintesi, il succo del rapporto Accessibility, sustainability, excellence: how to expand access to research publications reso pubblico nelle scorse settimane dal Working Group on Expanding Access to Published Research Findings, il gruppo inglese, presieduto da Dame Janet Finch, che studia il sistema di comunicazione scientifico. Il rapporto viene dopo che, lo scorso mese di giugno la Royal Society ha pubblicato un suo report dal titolo inequivocabile: Science, as an open enterprise. Open data for open science. La scienza – sostiene la Royal Society, che è una delle accademie più prestigiose del mondo, quella che ha pubblicato la prima rivista scientifica in assoluto, la Philosophical Transactions - è un’impresa aperta, che ha bisogno di libero accesso ai dati.

Il giornale inglese The Guardian ha reso noto che nei giorni scorsi, il 16 luglio per la precisione, il governo conservatore inglese ha fatto proprie le indicazioni del Finch Report e della Royal Society e cercherà di portarle avanti. D’altra parte la stessa rivista inglese Nature, una delle più prestigiose e vendute riviste scientifiche su abbonamento al mondo, ritiene che nei prossimi anni l’open access sarà una condizione inevitabile nell’ambito della comunicazione della scienza.
Ma il tema dell’open access è tutt’altro che limitato alla Gran Bretagna. E tutt’altro che risolto. Di recente è stata depositata presso il Congresso degli Stati Uniti una proposta di legge (US Congress, HR 3699) che chiede ai National Institutes of Health di ribaltare la sua politica, che obbliga i ricercatori che lavorano con i soldi del contribuente di pubblicare i loro lavori su riviste open access, ad accesso libero e gratuito.

Il problema non è banale. E la posta in gioco è molto alta. La scienza moderna, come ci ricordava Paolo Rossi, il grande storico delle idee venuto a mancare nei mesi scorsi, nasce nel XVII secolo abbattendo un paradigma: il paradigma della segretezza. Uno dei valori in cui si riconobbe la comunità scientifica nascente fu quello di “comunicare tutto a tutti”, all’insegna della totale trasparenza. Un valore che divenne una prassi: il sistema di comunicazione, come ha scritto il fisico John Ziman, è diventata l’istituzione sociale primaria della comunità scientifica. E il metodo della peer review, l’analisi critica di tutti i dati disponibili, ha consentito a questa attività umana di mietere successi senza pari nella produzione di nuova conoscenza. Tanto che, parafrasando lo stesso Ziman, potremmo dire che non c’è scienza – non come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 400 anni, almeno – se non c’è comunicazione totale della scienza: ovvero se non c’è un completo, effettivo e libero acceso a tutti i dati prodotti dalla comunità scientifica.
Oggi ci sono almeno tre fenomeni che rendono difficile avere quelli che la Royal Society definisce gli “open data for open science”: la cultura e la prassi delle imprese private che finanziano la ricerca; il numero crescente di ricercatori e di riviste scientifiche; l’alto costo delle riviste su abbonamento.

È per aggirare il primo ostacolo che i National Institutes of Health degli Stati Uniti hanno inaugurato la politica dell’open access obbligatoria per coloro che fanno ricerca con fondi pubblici. Il contribuente ha diritto di accedere alla nuoca conoscenza per cui ha pagato.

Il secondo ostacolo emerge dal processo enorme di ampliamento della comunità scientifica che si è registrato negli ultimi anni. Oggi ci sono al mondo oltre 7 milioni di ricercatori, che producono 1,9 milioni di articoli scientifici pubblicati su 25.000 riviste con peer review censite, per lo più cartacee. A questi bisogna sommare la quantità indefinita, ma certo enorme, di dati raccolti e fatti circolare fuori da questo circuito (con libri, conferenze, opuscoli, riviste non censite o senza peer review). Nessuna istituzione al mondo è in grado di abbonarsi a 25.000 riviste cartacee né tanto meno di raccogliere i dati diffusi in maniera meno organizzata.

Il terzo ostacolo è rappresentato dal costo degli abbonamenti. Si calcola che il costo medio di una rivista di chimica supera i 3.000 euro annui. E che per abbonarsi ad alcune riviste molto accreditate nell’ambito delle scienze naturali si debba sborsare anche dieci volte tanto. Gli alti costi derivano soprattutto dal regime di oligopolio che esiste nell’editoria scientifica internazionale. Tre soli gruppi privati – la Elsevier, la Springer e la  Wiley-Blackwell – controllano il 42% degli articoli pubblicati. Non pagando né gli autori (il cui interesse primario è pubblicare) né i referees che per tradizione prestano in maniera anonima e gratuita la loro collaborazione, e potendo imporre il prezzo che vogliono a istituzioni generalmente pubbliche, queste aziende riescono a ottenere margini di guadagno che superano il 40%, del tutto sconosciuto ad altri settori industriali. I costi salgono proprio mentre i fondi per le librerie delle università e dei centri di ricerca diminuiscono. Sia negli Usa che in Gran Bretagna, per esempio, la quota parte del budget delle università riservato alle librerie è sceso in pochi anni dal 3,5 al 2,5%.

Il combinato disposto di questi tre ostacoli impedisce la totale e libera circolazione dell’informazione scientifica. L’accesso, per un motivo o per l’altro, è negato a molti. E l’intera umanità perde in parte il vantaggio di avere, in questo momento, un numero di ricercatori superiore alla somma di tutti gli scienziati vissuti nelle epoche precedenti, che oltretutto hanno a disposizione ogni anno una quantità di risorse economiche (il 2,0% del Pil mondiale è investito in ricerca e sviluppo; la cifra sale al 2,3% nei paesi OCSE) senza precedenti. Una soluzione a questi tre problemi è tecnicamente possibile: creare in rete, con fondi pubblici, un insieme di riviste open access dove l’antico valore del «comunicare tutto a tutti» possa essere in concreto recuperato. Almeno una parte di questi soldi potrebbe essere recuperata dal risparmio che ne deriverebbe alle librerie. Se il network di riviste open access fosse poi creato su scala internazionale, l’abbattimento dei costi sarebbe ancora più marcato.

Da questo punto di vista l’Unione Europea potrebbe fare molto. Perché non iniziare almeno a discuterne (o, lo diciamo a beneficio di chi il problema lo ha sollevato da tempo) rilanciare la discussione, come stanno facendo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti?

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