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Ricerca e innovazione in biomedicina per rilanciare il Paese

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Perché l'Italia, nonostante l'esiguità degli investimenti e il numero tutto sommato basso di ricercatori, se la cava nella ricerca di base mentre arranca nelle applicazioni? Perché, fatto 100 i risultati della Germania, l'Italia arriva al 75% della produzione scientifica tedesca, ma solo al 19% nella produzione di brevetti?
L'ipotesi di lavoro da cui ha preso il via l'incontro "Scienza e Industria. Ricerca e Innovazione in biomedicina", organizzato dal Gruppo 2003 (Bocconi, 27 novembre 2013) è che motivi culturali, di struttura industriale, di organizzazione della ricerca, meccanismi distorti da parte del pubblico e una cieca burocrazia rendono difficoltoso il passaggio dal laboratorio al mercato delle scoperte scientifiche.
Ci sarebbe, in altre parole, una "valle della morte" da attraversare per portare a frutto i risultati della ricerca scientifica nel nostro paese. (vedi sintesi di Alberto Mantovani)
Su questa ipotesi si sono confrontati gli esperti convocati all'incontro in Bocconi dal Gruppo 2003, che si sono focalizzati sulle scienze biomediche.

Big Pharma sceglie di investire nell'accademia 

Riccardo Patacchini, project leader drug discovery della Chiesi farmaceutici di Parma, ha mostrato come a partire dalla seconda metà degli anni novanta il numero delle molecole veramente innovative in ambito pharma si siano livellate globalmente: negli USA, per esempio, si assestate intorno a una ventina all'anno, con costi sempre più alti (dai 15 miliardi del 1995 ai 50 miliardi di dollari/anno del 2010).
La stretta nelle regolamentazioni, il maggior accento sulla sicurezza, ha reso il processo di scoperta di farmaci innovativi sempre più lento, costoso e in ultima analisi inefficiente.
L'Europa in particolare ha sofferto di questa situazione, testimoniata dalla chiusura di molti centri di ricerca farmacologica, che solo in Italia ha coinvolto Merck, GSK e il centro di Nerviano.
Per rendere la ricerca farmacologica più efficiente meno a rischio di fallimenti (che si verificano soprattutto nella fase avanzata dello studio di un nuovo farmaco, ovvero nelle fasi cliniche) è necessario focalizzarsi su un numero minore di sostanze meglio testate in fase proclitica.
Una delle soluzioni individuate ormai da qualche anno dalle principali industrie è di stringere un'alleanza forte con gli istituti universitari, facendo convergere senza pregiudizi ricerca industriale e mondo accademico su temi di ricerca specifici. Si è visto infatti che nell'ultimo decennio, a fronte di un numero maggiore di molecole prodotte dalla ricerca industriale, c'è una forte prevalenza di molecole scientificamente innovative prodotte dalla ricerca accademico rispetto a quella industriale. Lavorare insieme può quindi orientare la ricerca a una maggiore eccellenza scientifica ed efficenza nelle sopente davvero importanti per la medicina.

In questa direzione vanno ormai diverse esperienze: da quella di GSK con Telethon, Tigem e Shire soprattutto su progetti di terapia genica, al progetto Faber che vede collaborare la Chiesi con l'Università di Firenze. La collaborazione prevede un accordo chiaro in chi può depositare brevetti (l'università sulla ricerca di base, l'industria sui prodotti), con benefici per entrambi i soggetti: sia nell'acquisizione di grants e nuovi progetti, sia nel selezionare nuovi ricercatori e offrire nuovi posti di lavoro. Il nuovo modello di partnership accademia-industria consente di fatto di potenziare anche la ricerca pubblica sviluppando i laboratori condivisi da ricercatori pubblici e privati nelle sedi universitarie stesse.
Perché questo modello diventi virale sarebbe opportuno fornire adeguati incentivi fiscali all'industria. Per esempio adottando il modello francese di riconoscere alle aziende che aderiscono questo schema collaborativo con l'università un credito d'imposta pari al 30% sulle spese sostenute (fino a un massimo di 100 milioni di euro.

vedi presentazione di Riccardo Patacchini

Vaccini: un modello di allenza fra ricerca di base e applicazioni

Rino Rappuoli, della Novartis Vaccine, ha illustrato il modello che per l'industria italiana può rappresentare il settore dei vaccini, che così tante vite hanno salvato nell'ultimo secolo. Da quando sono stati scoperti, i vaccini avrebbe salvato circa 150 milioni di vite (700 milioni di casi di malattia), e secondo l'organizzazione mondiale della sanità, solo nel periodo 2011-2020, i nuovi vaccini salveranno 25 milioni di vite.

Il progresso nel campo dei vaccini è strettamente correlato alle nuove scoperte scientifiche, soprattutto nel campo della genomica. Se nel 1930 si adottava ancora un metodo che potremmo definire empirico (si isolava il microrganismo responsabile della malattia e lo si metteva in forma inattivata nel vaccino), nel 1980 si ha il primo grande salto con il DNA ricombinante (che consente nuovi vaccini per l'epatite B, pertosse, malattia di Lyme e papilloma virus).
Dieci anni dopo (1990) i vaccini coniugati rappresentano un altro salto in avanti, consentendo di mettere a punto nuovi vaccini (per es. per alcune forme di meningococco C, che introdotto in Gran Bretagna nel 1999 ha consentito di prevenire 13.000 casi di malattia e 1.300 morti). Dieci anni più tardi (introno al 2000) gli sviluppi della genomica (in particolare con i lavori di Craig Venter) hanno consentito l'approccio della reverse vaccinology (letteralmente, la vaccinologia al contrario). Infatti non si parte più dall'individuazione del microrganismo per poi sintetizzare il vaccino, quanto da tutti i potenziali vaccini basati sulle caratteristiche genetiche del microrganismo per poi selezionare quello ideale per prevenire la malattia: con questo metodo è stato messo a punto per esempio il vaccino per il meningococco B, che, approvato nel 2012, sta entrando in commercio proprio in queste settimane.
La reverse vaccinology viene ora impiegate per lavorare a un vaccino contro i batteri resistenti agli antibiotici, che si stanno affermando fra i più seri di salute pubblica nel mondo. Altre tecnologie di avanguardia, come gli adiuvanti, vengono ormai routinariamente impiegati per aumentare l'efficacia di alcuni vaccini, come quello dell'influenza. Infine, la nuova frontiera della biologia sintetica (sempre inaugurata da Craig Venter con la sintesi del primo microrganismo man-made) sta cominciando a dare i suoi frutti: è il caso del virus influenzale potenzialmente pandemico H7N9 (con i primi casi mortali registrati in Cina quest'anno), dalla cui analisi genetica è stato possibile ricavare un vaccino in appena 5 giorni (contro i circa due mesi dei metodi precedenti). Queste nuove tecnologie possono aprire ora nuove strade ai vaccini. Concepiti all'inizio soprattutto per la popolazione infantile, si può ora pensare a vaccini anche per la popolazione adulta e anziana (sempre più prevalente), indirizzandosi a malattie non infettive quali tumori, malattie autoimmuni, demenze, oltre a indirizzarsi alle malattie infettive emergenti e a proteggere dalle "malattie della povertà" finora sostanzialmente ignorate dall'industria. Prende così il via il Novartis Vaccine Institue for Global Health, che ha avviato un master in vaccinologia e sviluppo di farmaci presso l'Università di Siena, rivolto a studenti dei paesi in via di sviluppo. Uno dei primi risultati del nuovo istituto è la sintesi di un vaccino per il tifo (attualmente in fase II).

Oltre a generare nuovi vaccini che dall’Italia avranno la possibilità di eliminare malattie gravi nel mondo intero, nell’ultimo decennio la leadership in ricerca nel settore ha generato investimenti per circa 1 miliardo di Euro e circa 2.000 posti di lavoro. Persone di 42 nazionalità diverse lavorano nel sito Novartis di Siena. Questo è un esempio di come la ricerca di alta qualità non solo trova soluzioni per migliorare la qualità della vita dell’uomo, ma genera posti di lavoro di alta qualità, attrae investimenti e talenti da tutto il mondo. 

vedi presentazione di Rino Rappuoli

Da paese labour intensive a paese brain intensive

Luigi Nicolais, presidente del CNR, ha affrontato il tema di rapporti fra ricerca e industria in termini più generali. Non è più possibili competere continuando a tagliare il costi del lavoro, dobbiamo re-imparare a innovare, ha esordito. oggi la via della competizione internazionale passa attraverso a un accesso alla conoscenza. Se un tempo l'industria svolgeva in sede anche un'attività di ricerca, ora sempre più essa si appoggia a centri di ricerca esistenti (come dimostrano peraltro gli esempi portati da Patacchini). Pensiamo ad esempio alla Boeing che ha esternalizzato le competenze scientifiche nella Boeing Research network.
In Italia siamo rimasti al paradigma che vede opporre ricerca di base (pubblica) a ricerca applicata (privata), quasi vi fosse una ricerca di sinistra e una ricerca di destra. Questi pregiudizi hanno prodotto molti danni al paese, è ora di superarli e di mettere sempre di più in contatto le aziende con i produttori di conoscenza, e passare da paese labour intensive a paese brain intensive. Un caso può illustrare questa difficoltà che viviamo oggi in Italia.
Quindici anni fa Nicolais all'interno del CNR sviluppò un materiale super assorbente (1000 volte il proprio peso) che venne immediatamente sfruttato da un'azienda svedese nel settore diaper. La proprietà intellettuale della sostanza restò al CNR mentre iella relativa all'utilizzazione nel settore specifico all'azienda. Poi si ipotizzò che la sosta a potesse avere un ruolo nella cura dell'obesità: in Italia nessuno si fece avanti; finalmente un gruppo di investitori legati al MIT di Boston misero 10 milioni di euro per avviare una ricerca sull'uomo che si dovrebbe concludere l'anno prossimo. Sono rari i casi in cui aziende italiane o venture capital intercettino queste scoperte di cui il mondo della ricerca scientifica e tecnologica italiana è ricca. Ora al CNR si tenta di valorizzare non solo la ricerca ma anche il suo trasferimento tecnologico, proprio per superare quella "valle della morte" di cui si parlava all'inizio.
Per questo si stanno sviluppando iniziative informative (brochure CNR sulle applicazioni derivanti da ricerche dell'ente) e di altro genere, volte a orientare decisamente la ricerca alle applicazioni, almeno negli ambiti dove ciò è possibile.Il modello messo a punto prevede, ad esempio, che gli spin-off che nascono in seno al CNR si possano avvalere per tre anni del 50% del tempo dei ricercatori. Scaduti i tre anni - considerato un tempo ragionevole per far fruttare l'idea che sta dietro allo spin-off - il CNR ritira l'investimento.

Non esiste competizione industriale che non parta dalla ricerca. Il caso illustrato da Rappuoli lo illustra bene con un esempio che fa onore all'Italia. E' necessario però che in questa competizione tecnico-scientifica non facciamo l'errore di uniformarci agli altri, ma coltiviamo le nostre specificità anche su base territoriale, facendo valere ciò che sappiamo fare meglio in una complessiva divisione internazionale delle competenze specialistiche.

Ripartire a crescere con le scienze della vita

Ad Alessandro Sidoli, presidente di Assobiotec, il compito di fare il punto sulla attuale consistenza e le prospettive dell'industria biotecnologica in Italia. Il biotech italiano è in realtà un settore in crescita. Tuttavia tale crescita è limitata dal fatto che sono poche le imprese dotate di una certa massa critica. Ciò detto, le aziende italiane "pure biotech" sono terze in Europa dietro a UK e Germania: sono circa 250 e concentrate soprattutto al Nord, e investono fino al 45% del loro fatturato o costi operativi in ricerca e sviluppo. Come illustrano i dati, la realtà dei venture capital è ancora molto debole in Europa e in particolare in Italia, rispetto agli Stati Uniti.
Consapevoli di questi limiti, l'analisi mostra che basare lo sviluppo economico sulle scienze delle vita è possibile anche in Italia; il settore biotecnologico è strategico per la crescita del Paese, sia in termini di possibile occupazione, sia di investimenti in ricerca. E se attualmente la consistenza del settore biotech in Italia si aggira sullo 0,7% del PIL nazionale, secondo l'OCSE è ragionevole pensare a un crescita fino al 2,7% del PIL.
Qualcosa già si sta muovendo, lo dimostrano i numerosi casi in cui start-up biotecnologiche sorte in Italia hanno in breve tempo hanno attratto consistenti capitali:

Questi esempi mostrano le potenzialità di investire in ricerca, ma mostrano anche come nell'attuale sistema politico-economico italiano non vi siano le condizioni per fare un salto di scala industriale. Ciò che avviene tipicamente è che la buona idea "italiana" venga riconosciuta e fatta fruttare altrove. Cosa propone Assobiotec per creare le condizioni di uno sviluppo competitivo italiano basato sulle scienze della vita, per una crescita economica e occupazionale?

  • Ricorrere a un a politica più decisa di credito di imposta che premi le imprese che investono in ricerca (l'esempio francese già citato potrebbe essere seguito).
  • Detassare gli utili provenienti da cessione di diritti i proprietà intellettuale.
  • Sbloccare i crediti che le nostre imprese vantano nei confronti della Pubblica amministrazione per finanziamenti alla ricerca, non si può pretendere che queste imprese sopravvivono incondizionati di anossia finanziaria.
  • Snellire i processi amministrativi e burocratici.
  • Incentivare l'investimento nei capitali di rischio ed agevolare la costituzione di fondi di investimento specializzati nei settori innovativi
  • Favorire il trasferimento tecnologico potenziando con azioni specifiche la consistenza degli Uffici di Trasferimento Tecnologico, attualmente molto sotto-dimensionati.

Vedi presentazione di Alessandro Sidoli

Libera scienza e politica industriale sono la strada, non la loro commistione

Giovanni Dosi, della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, aveva il compito di sostenere gli eventuali pericoli di una eccessiva vicinanza fra ricerca e industria prendendo di mira una serie di "miti".

Primo mito: solo il mercato valorizzerebbe la ricerca. Non è vero. I dati sugli investimenti pubblici in R&D mostrano come gli Stati Uniti abbiano sempre investito molto di più, in proporzione al Prodotto Lordo,  dei paesi europei, considerati comunemente meno “market oriente”.
Secondo mito: la politica industriale produce sempre fallimenti. In realtà si possono portare molti esempi di politiche industriali di successo, dalla stessa esistenza della Silicon Valley fino al salvataggio  dell'industria auto in USA; all'industria dell'acciaio in Corea del Sud; ad Airbus in Europa... Persino nel caso italiano, dopo le privatizzazioni degli anni '90, Finmeccanica e St Microelectronics contribuiscono una percentuale rilevante – addirittura spropositata – alla ricerca industriale italiana.
Terzo mito: il venture capital è il motore finanziario dell'attività innovativa privata. In realtà i dati mostrano quanto essa sia ancora marginale, anche in USA. E in quest’ultimo paese, di gran lunga il più grande venture capitalist è il governo federale!
Quarto mito: il punto debole è il trasferimento tecnologico. Elaborando i dati Scimago-Scopus sembra emergere un quadro in cui l'Europa rivela segnali di debolezza rispetto agli Stati Uniti sia sulle scoperte  scientifiche  sia  nell’innovazione più direttamente tecnologica.

La strategia che può riavviare uno sviluppo industriale europeo basato su scienza e innovazione non deve quindi focalizzarsi sul trasferimento tecnologico. Questo, anzi, se diventa “a monte” un imperativo della produzione scientifica è in grado di corromperne l'ethos, piegandola a una logica di breve periodo e di subalternità culturale ai dettami del mercato. La storia mostra invece che proprio l'enfasi da una parte sulla ricerca di base non condizionata, libera di esplorare, e dall'altra su una robusta politica industriale che consenta un partecipazione dell'industria europea agli oligopoli internazionali, può fare la differenza. A livello istituzionale, sembra quindi più adeguato riferirsi ai modelli della National Science Foundation e dell'European Research Council che ai programmi quadro europei (Horizon 2020 compreso) pervasi dalla cultura della scienza condizionata dalla applicazione tecnologica e dalla generazione di diritti di proprietà intellettuale.

Stesse considerazioni si possono fare a maggior ragione in campo pharma e biotech, dove i diritti di proprietà intellettuale giocano un ruolo centrale. La caduta drammatica delle "new chemical entities" dimostra lo scarso interesse dell'industria a produrre significative anche se economicamente rischiose innovazioni. E dove paradossalmente si potrebbe proporre il rilancio di una ricerca e industria pubblica del farmaco più orientata a prodotti innovativi.

Vedi presentazione di Giovanni Dosi 

Discussione finale

Avvicinare, "contaminare" ricerca e industria o enfatizzarne la separazione? La discussione del panel che ne è seguita ha riconosciuto il valore della ricerca di base, aperta, libera. Ma altrettanto ha insistito sul patrimonio di conoscenze ed esperienze di comparti industriali come quelli del farmaco. In campo biomedico e non solo, gli esempi di collaborazione industria - accademia/ricerca pubblica illustrati in vari interventi delineano un modello da percorrere, di reciproco potenziamento fra la spinta rappresentata dalla ricerca indipendente e l'esperienza, le risorse e le modalità organizzative portate in dote dall'industria.
C'è stato inoltre un generale consenso verso forme di incentivazione economica e fiscale che possano spingere le imprese a investire maggiormente in ricerca.


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