Qualità vo' cercando. Il rapporto tra quantità delle risorse disponibili e qualità del sistema formativo e della ricerca è complesso, niente affatto semplice da dipanare. Ma, a costo di commettere un peccato di riduzionismo, proviamo a schematizzarlo. La quantità da sola non basta a generare qualità. Ce ne ha dato dimostrazione Pervez Hoodbhoy nel suo appassionato commento sulla situazione in Pakistan. L’università e la ricerca hanno potuto godere, nell’ultimo decennio, di una crescita rapidissima di risorse che non si è tradotta in crescita della qualità, anzi ne ha prodotto un deterioramento.
In maniera meno eclatante, ma più profonda lo dimostra anche la vicenda di lungo periodo della scienza in Giappone. Da molti anni gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) nell’arcipelago nipponico sono tra i più alti al mondo. L’arcipelago impegna ogni anno il 3,5% del suo ricco Pil (Prodotto interno lordo) in R&S: tre volte e mezza l’Italia, il doppio dell’Europa, un 30% abbondante più degli Stati Uniti. Eppure la ricerca di base giapponese non produce quei risultati che dovremmo aspettarci – e che loro stessi si aspettano. La produttività scientifica giapponese, per quantità e qualità, resta inferiore sia a quella americana che a quella europea.
Occorre, dunque, un metodo per far sì che la quantità si trasformi in qualità. Questo metodo in Italia manca.
Tuttavia è anche vero il contrario. Non c’è qualità – o, almeno, nella storia recente non ne abbiamo esempi – senza quantità. Le migliori università, i migliori centri di ricerca sono in quei paesi che mettono a disposizione una quantità di risorse generosa. Nell’Academic Ranking of World Universities 2010 elaborato dall’università Jiao Tong di Shanghai, tra le prime 25 università 19 sono degli Stati Uniti, due inglesi, tre inglesi, due giapponesi e l’unica dell’Europa continentale è svizzera.
Ebbene la classifica di qualità ha una correlazione stretta con quella di quantità. Gli Stati Uniti investono nell’educazione terziaria universitaria e post-universitaria il 2,9% del Pil: è la percentuale più alta al mondo (dati OCSE). Pari al doppio della media OCSE e a oltre tre volte la spesa italiana (0,9% del Pil). A questo si aggiunge una spesa notevole in ricerca (2,6% del Pil), per un totale investito in ricerca e alta formazione che ammonta a oltre 900 miliardi di dollari l’anno: il 5,5% del Pil americano. Due punti secchi oltre la media OCSE. Su questa base di risorse gli Usa innescano un sistema meritocratico che funziona e che è capace di attrarre ricercatori bravi da ogni parte del mondo. Gli Usa sono i massimi importatori di cervelli al mondo.
Il Giappone investe nell’università la metà esatta del Stati Uniti: l’1,4% del Pil. Cui aggiunge, tuttavia, un 3,4% di spesa in R&S, per un “pacchetto conoscenza” che ammonta al 4,8% del Pil.
La Svizzera investe nell’università come il Giappone (1,4% del Pil) e in R&S come gli Usa (2,5% del Pil), per un “pacchetto conoscenza” che in totale ammonta al 3,9% del Pil.
La Gran Bretagna, infine, investe nell’università l’1,3% del Pil e nella R&S l’1,8%, per un totale “pacchetto conoscenza” che ammonta al 3,1% del Pil. Inferiore alla media Ocse. Ma nettamente superiore alla media italiana, dove il “pacchetto conoscenza” sfiora appena il 2,0% del Pil.
La classifica delle migliori università del mondo (certo discussa, ma altrettanto certamente significativa)dimostra che nessun discorso può prescindere da questa considerazione: non c’è qualità senza quantità. Non lo diciamo noi. Lo dicono – e lo praticano – le persone che fanno politica della ricerca negli altri paesi. Diamo solo uno sguardo al nostro cortile di casa. E a tre paesi che hanno problemi di bilancio pubblico simile al nostro e un governo di colore politico simile a quello italiano.
In Germania il governo di centrodestra di Angela Merkel ha varato un piano di risanamento del bilancio che prevede tagli complessivi per 80 miliardi di euro. Ma, pur in un quadro di drastico ridimensionamento della spesa pubblica, ha previsto un aumento della spesa per l’università e la ricerca di circa 13 miliardi di euro.
In Gran Bretagna il nuovo governo di centrodestra di David Cameron ha deciso tagli della spesa pubblica per 130 miliardi di euro, addirittura superiori a quelli tedeschi. Tutta la spesa pubblica subirà un ridimensionamento secco del 19%. Tutta, con un’unica eccezione: quella per l’università e la ricerca, che resterà invariata.
In Irlanda, il governo di centrodestra di Brian Cowen deve fronteggiare un deficit di bilancio che ha raggiunto i 50 miliardi di euro, pari al 32% del Pil irlandese: il maggiore tra i paesi industrializzati. Il deficit deve rientrare. Per conseguire l'obiettivo, come tutti i governi conservatori anche quello di Brian Cowen ha scelto di non aumentare le tasse, ma di tagliare la spesa pubblica. Ciononostante Dublino ha deciso di aumentare gli investimenti nell’università e nella ricerca per una somma che ammonta a 2,4 miliardi di euro. Una spesa impegnativa: è come se l’Italia avesse aumentato gli investimenti nel “pacchetto conoscenza” di 25 miliardi di euro.
Perché tutti questi paesi – e altri ancora – pur in condizioni di difficoltà di bilancio incrementano gli investimenti nell'università e nella ricerca? Per due motivi. Perché sanno che, nella società e nell’economia della conoscenza, investire in alta formazione e in ricerca significa investire nel futuro del proprio paese. Oggi più che mai la cultura fa mangiare.
E perché sanno che la quantità forse non è condizione sufficiente per la qualità. Ma certo ne è condizione necessaria.