Una premessa disordinata
Oggi riconoscono quasi tutti che il nostro Paese è in declino, tanto che nelle scorse elezioni una lista si richiamava proprio a un attivo “FARE per fermare il declino” (prima di declinare anch’essa, ancor prima delle elezioni e per ragioni abbastanza imbarazzanti). Ho scritto prima “quasi tutti” e la precisazione è necessaria perché fino a poco tempo fa c’era chi negava il declino con l’argomentazione che i ristoranti erano pieni e, oggi, c’è chi collega la crisi che stiamo attraversando esclusivamente alla situazione internazionale e alle politiche deflattive dell’ultimo anno. Fortunatamente qualcuno parla della necessità di rivedere il ruolo che scuola, cultura, formazione e università devono avere nello sviluppo di una società avanzata collegando innovazione tecnologica e ricerca.
Ricordiamo, tra questi, il documentatissimo ed efficace libro di Bruno Arpaia e Pietro Greco (La cultura si mangia, Guanda 2013) uscito recentemente e anche il fatto che, molto più di prima e più diffusamente, si riconosce che i nostri problemi attuali nascono anche dal fatto che il nostro mondo produttivo ha innovato poco, anche se poi si sorvola sul perché questo sia accaduto e su che cosa si intende per innovazione. Qual è l’innovazione che sarebbe servita? E quella che potrebbe servire ancora?
Queste domande non sono poste neanche da coloro che oggi cominciano a porsi e a porre a un più ampio uditorio il problema. Il declino italiano non trae origine solo dalla situazione economica internazionale e dalle politiche restrittive recenti. Queste si sovrappongono a un dato specifico dell’economia italiana che ha fatto suo un modello di sviluppo senza ricerca e che è entrato in crisi quando con l’euro non ha più potuto avvalersi dello strumento della svalutazione. Volendo fare un paragone di tipo medico, se il contesto internazionale e la recessione sono una grave malattia infettiva, presa per contagio, il nostro non essere attrezzati sul fronte dell’alta tecnologia rappresenta un grave difetto cardiaco preesistente. Non solo la malattia cardiaca ci pone maggiori problemi per guarire dalla malattia infettiva ma le cure per quest’ultima non risolveranno i problemi cardiaci.
Dai problemi creati al nostro Paese dalla crisi mondiale e dalla recessione non ne usciremo se non affrontiamo l’altro problema che abbiamo. Dovremmo prendere occasione della malattia infettiva per impostare anche la cura dei nostri problemi cardiaci. Ma che cosa c’entra tutto questo con la ricerca scientifica e con il CNR?
Noi possiamo tornare a essere un Paese competitivo se cominciamo a produrre anche beni con alto contenuto di conoscenza incorporato ma questo può avvenire solo se riusciamo a costruire (e rendere permanente) una vera e propria filiera che vada dalla ricerca di base a imprese innovative che producano beni di alta tecnologia.
Questa filiera si dovrà fondare da un lato su un tessuto forte e robusto di scambi reali tra mondo della ricerca e mondo produttivo (più veri di quanto non sia avvenuto fino a ora) e dall’altro su una ricerca di base, di punta e competitiva. Solo un motore che genera nuova conoscenza può dare stabilità e unicità a questa nuova capacità produttiva e competitiva.
Gli enti di ricerca in generale, dunque, e il CNR in particolare -– data la sua complessa struttura interdisciplinare che trae origine dalla sua storia e dalle sue dimensioni – dovrebbero (e potrebbero) svolgere un ruolo cruciale nel complesso sistema dell’alta formazione e di quello che a essa è connesso (dallo sviluppo produttivo al vivere civile). Non dimentichiamo poi che la ricerca scientifica è connessa in modo essenziale all’uso di un metodo critico che fa discendere le conclusioni cui essa arriva dalle argomentazioni addotte e non dall’autorità di qualcuno.
Per queste ragioni esiste un nesso molto stretto tra ricerca scientifica e democrazia. Tutto questo indurrebbe a credere che nel corso del tempo si sia intervenuti per favorire e potenziare le attività di ricerca visti i loro risvolti positivi sia per lo sviluppo economico sia per quello di una formazione culturale e civile. Purtroppo dobbiamo prendere atto che invece molti degli interventi sugli enti di ricerca sono stati frutto di considerazioni diverse di quello a cui si è fatto riferimento prima, interventi che hanno messo in forse la loro stessa sopravvivenza oltre a depotenziare il loro ruolo strategico.
Negli ultimi pochi anni c’è stata una inversione di tendenza, ma a partire da una devastazione precedente. Che gli interventi pensati e attuati dal 2002 al 2010 avrebbero devastato il CNR era facilissimo da prevedere per cui potremmo parlare, rubando un titolo a Garcia Marquez, di cronache di una devastazione annunziata.
Andiamo con più ordine
Torniamo adesso allo scopo principale di queste brevi note: ci proponiamo di sottolineare quali siano i compiti cruciali e centrali che il CNR può svolgere nel contesto dei problemi che ha un Paese culturalmente ed economicamente avanzato. Fondamentalmente i problemi sono due: permettere l’avanzamento delle frontiere della conoscenza e favorire lo sviluppo economico del Paese.
Forse potremmo riassumere questi due compiti nella frase seguente: “contribuire allo sviluppo economico e culturale del Paese”.
Sembrano solo parole ma non è così. Il declino dell’Italia – come abbiamo già scritto – è dovuto principalmente per quanto riguarda l’aspetto economico a un modello di sviluppo senza ricerca che, dopo l’introduzione dell’euro, non ha più potuto contare sulla ripetuta svalutazione “competitiva” usata dai vari governi italiani nei decenni precedenti. Segnali di attenzione a questo aspetto sono stati da sempre avanzati da menti lucide come quelle di Marcello De Cecco, Sergio Ferrari e Luciano Gallino, solo per fare – in ordine alfabetico – qualche esempio, ma non sono state ascoltate. Il problema importante e cruciale di fare interloquire e dialogare mondo della ricerca e mondo della produzione è stato ridicolizzato riducendolo nel migliore dei casi allo slogan che – in situazioni di difficoltà – la ricerca deve essere “subordinata” alle esigenze immediate del mondo produttivo. Ora, il punto cruciale e difficile da attuare più che di discutere in astratto è proprio quello di programmare e progettare un dialogo nuovo tra mondo della ricerca e mondo della produzione.
Non si tratta quindi di subordinare il mondo della ricerca alle esigenze del mondo della produzione di oggi ma di individuare insieme quei settori nei quali vi può essere un interesse specifico del mondo produttivo legato ad aspetti che sono di frontiera per il mondo della ricerca.
Questo non vuol dire soltanto che sono aspetti che interessano il mondo della ricerca ma che sono di estremo interesse per il mondo produttivo perché permettono di stabilire una presenza in settori nuovi dove non solo all’inizio c’è meno competizione ma nei quali noi avremmo un enorme vantaggio iniziale (da potere sfruttare per un tempo non breve) potendo maneggiare noi il know-how, più e meglio di chiunque altro, avendolo costruito noi stessi. È qualcosa che, tra l’altro, anche in Italia è già avvenuta in un passato più o meno recente, all’epoca di Giulio Natta e di Adriano Olivetti, quando il primo collaborava con la Montecatini e il secondo spingeva Mario Tchou a progettare il primo computer portatile (si veda il libro di Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi 2003).
Ma chiediamoci: il CNR è attrezzato per un tale compito? La mia risposta è sì, lo è ancora. Ma lo è molto meno di pochi anni fa, prima di una spietata e stupida devastazione operata da un duo che sarebbe stato comico se non avesse fatto danni gravissimi allo stesso CNR. Ripercorreremo quindi brevemente nelle prossime pagine la storia di questa devastazione riportando verbatim uno stralcio di una analisi un po’ più completa compiuta due anni fa e alla quale rinvio.
Questo ritornare su un passato recente non ha lo scopo di rivangare episodi sgradevoli in modo gratuito.
Andare alla radice della devastazione che è stata compiuta ci permette di capire quali sono stati gli errori fatti, quali sono i piccoli aggiustamenti necessari affinché il CNR possa svolgere un ruolo importante per il rilancio dell’Italia.
Brevi cronache di un disastro annunciato
Come detto, desidero brevemente esaminare un periodo recente che ritengo abbia molto a che fare con problemi presenti e pressanti ancora oggi, quelli del cambiamento di modello produttivo, a cui ho accennato prima, e anche alcuni nuovi che coinvolgono nuovi attacchi alla ricerca scientifica e all’Università.
Sono gli anni delle due ultime riforme. Quella che è stata pensata nel corso di tutti gli anni Novanta del secolo scorso e poi ha iniziato a diventare operativa a partire dal 2002 e che – anche se si collega a tante altre discussioni precedenti – possiamo chiamare riforma Berlinguer o riforma Berlinguer-Bianco (dal momento che Lucio Bianco è stato il presidente che l’ha accompagnata nei suoi primi passi).
La seconda – che in realtà non sarebbe corretto chiamare riforma (e neanche controriforma ma devastazione, tentativo – parafrasando Francesco Rosi – di mettere “le mani sulla città” della ricerca) è, invece, dovuta al ministro Letizia Brichetto Moratti e al suo esecutore materiale Fabio Pistella.
Il disastro annunciato nasce prima di tutto (e indipendentemente da qualsiasi contenuto) dal fatto che il sunnominato illustre governante, ministro Brichetto Moratti, decide di intervenire prima che la riforma precedente abbia avuto modo di cominciare ad avere un qualche minimo rodaggio.
Non era stata una riforma da poco perché aveva ridotto gli Istituti da più di trecento a poco meno di cento, aveva tagliato i rapporti con l’Università che – nel tempo – erano diventati rapporti di dipendenza, dal momento che i comitati di consulenza – espressione di tutta la comunità scientifica e, quindi, numericamente a preponderante presenza universitaria – erano diventati inappellabili organi che decidevano l’attribuzione delle risorse. Era stata semplificata la struttura amministrativa centrale dando forte autonomia agli Istituti. Era quindi il momento di farla decollare per verificare – in corso d’opera – se c’erano degli aggiustamenti da fare e quali. Poi si sarebbe potuto intervenire anche per portare avanti visioni differenti. Ma dopo. Non appena iniziato il tragitto precedente.
Lo stesso presidente Lucio Bianco era convinto (e lo aveva dichiarato pubblicamente in più occasioni) che dopo due, tre anni si sarebbe dovuto fare il punto sulla situazione e individuare gli aspetti critici. Tra questi era già evidente che si sarebbero dovute studiare forme di coordinamento settoriali tra i vari Istituti, ma appunto tutto ciò avrebbe dovuto nascere da un’analisi puntuale ed empirica di quanto avvenuto.
Ritorniamo un attimo su uno degli aspetti caratterizzanti della riforma Berlinguer-Bianco.
Gli Istituti – dopo questa riforma – erano in numero limitato, come abbiamo detto (poco più di cento), ed erano autonomi con pochissimi vincoli da parte dell’amministrazione centrale. Ho scritto pochi “vincoli”, non poche verifiche o controlli su quanto fatto. Per la prima volta ci troviamo di fronte a una situazione in cui vi sono cento pedine che si muovono nel territorio nazionale assolutamente libere da un punto di vista formale-burocratico.
Queste pedine avrebbero dovuto mostrare che cosa erano in grado di fare. Si parlava della possibilità che gli Istituti potessero svolgere una limitata funzione di “agenzia”, cioè di poter finanziare particolari progetti di interesse per le attività svolte dai singoli Istituti. Si parlava anche di una mitica “direttiva Guerzoni”, che avrebbe permesso agli Istituti del CNR (o al CNR come ente, tramite i suoi Istituti) di avviare dottorati di ricerca.
Una situazione veramente nuova, almeno sulla carta e per le potenzialità che esprimeva in direzioni assolutamente inesplorate e originali. Questa novità rendeva però il CNR particolarmente inerme e esposto ad attacchi perché isolato. In primo luogo l’interesse dell’Università per le sue vicende era fortemente diminuito, non essendoci più il legame precedente di forte egemonia e in alcuni casi di quasi colonizzazione. Si sarebbero ricostruiti rapporti forti e duraturi, come ho avuto modo di intuire e percepire durante questi anni, ma appunto erano nuovi rapporti ancora da costruire e – al momento – non c’è stata una forte presa di posizione da parte dell’Università nel suo complesso. Quindi gli interessati (solo 7.000 persone, di cui 4.000 ricercatori e i cento direttori) in un certo senso si sono trovati proprio soli.
Questo non è del tutto vero perché un appello pubblicato dalla rivista Le Scienze ha raccolto in pochissimi giorni più di diecimila adesioni e una manifestazione davanti Montecitorio ha visto una partecipazione e una risonanza mediatica inaspettata. Ma non c’è stato un blocco forte di settori anche numericamente importanti.
È questo il contesto nel quale scatta la tagliola della legge “Brichetto Moratti” che dice: dobbiamo riformare il CNR, lo dobbiamo fare per renderlo più utile al Paese. L’attenzione viene prestata a questo punto ai presunti vantaggi che la nuova legge darebbe in termini di una migliore fruizione delle forze presenti nell’ente a vantaggio del Paese. Non viene spiegato perché alcuni aspetti presenti nella nuova riforma darebbero vantaggi competitivi rispetto alla vecchia, appena entrata in vigore. Ma si procede lo stesso in modo apodittico e con la gentilezza propria dei carri armati presentando il tutto con una neolingua orwelliana. Gli Istituti non devono più rimanere da soli, devono essere collegati tra loro, ma il collegamento che viene imposto è un inquadramento in un sistema molto verticistico che sono i dipartimenti. Una conseguenza di ciò è che l’inquadramento naturale per gli Istituti è quello di tipo disciplinare. Ogni Istituto deve essere inquadrato in un dipartimento; poiché questo non è possibile (quasi tutti gli Istituti svolgono attività di ricerca riferentisi ad almeno due o tre dipartimenti, alcuni anche in un numero molto più alto), allora si inventa la nozione di afferenza primaria; altre attività dello stesso Istituto si possono rifare ad altri dipartimenti, ma ogni Istituto deve avere un’afferenza principale. Ma ci sono altri aspetti folli alla base, da un punto di vista organizzativo. Le attività di ricerca di ogni Istituto vengono raggruppate verticalmente in progetti che afferiscono ai vari dipartimenti e le unità di base, i gruppi di ricerca presenti in ogni Istituto, vengono chiamate commesse tanto per chiarire il tipo di organizzazione che si vuole dare alla ricerca. Se l’organizzazione è di questo tipo non si capisce il concetto imposto di afferenza primaria degli Istituti.
Poi, in questo contesto, non si riesce a capire se il punto di riferimento sia l’Istituto (e il suo direttore) o il dipartimento (e il corrispondente direttore). A obiezioni di questo tipo si risponde che la struttura del CNR è una struttura “a matrice”, come se con semplici definizioni fossero risolubili problemi, organizzativi, giuridici e di gestione della vita reale e concreta di chi fa ricerca. A complicare il tutto c’è una forte riduzione di fondi che non permette di finanziare ragionevolmente diversi tipi di attività, come pure era stato previsto e ipotizzato. A un’attività di base e a un finanziamento ordinario degli Istituti si sarebbe potuto affiancare un’attività preordinata, richiesta, eterodiretta, “a commesse” appunto. Ma così non è stato. Anzi quello che è stato fatto è di ripartire i fondi normalmente assegnati agli Istituti, ai dipartimenti a partire dalla configurazione delle varie commesse degli Istituti.
Tutto questo è avvenuto, mentre il commissario straordinario nominato dalla ministra Brichetto Moratti, Adriano De Maio, che aveva tra le altre cose l’incarico di scrivere i nuovi regolamenti dell’ente, girava l’Italia (nel tempo libero che gli lasciavano l’impegno di rettore della LUISS e altri incarichi, non so se tutti incrementalmente retribuiti) facendo proclami del tipo: dobbiamo capire quali sono le condizioni migliori per fare ricerca, poi adatteremo la legge (che, per inciso, era già stata approvata dal Parlamento) a quello che noi riterremo più efficace. Nel frattempo, il suo sub-commissario Fabio Pistella con la delega di direttore generale lavorava sulla struttura interna dell’ente. Negli ultimi mesi prima della scadenza del suo mandato, De Maio nei suoi proclami ha fatto intendere sempre di più che ha avuto modo di apprezzare quanto nel CNR viene svolto e che personalmente desidererebbe continuare a svolgere almeno un ruolo di consulenza scientifica.
Sussurri e grida fanno intendere che gli verrà concessa una proroga di qualche mese del suo incarico di commissario. Invece, qualche tempo prima della scadenza, viene ufficialmente nominato presidente, il professore associato Fabio Pistella del cui notevole curriculum scientifico si parla anche nell’autorevole rivista Nature. Sintomatica è l’assemblea che si svolge allo scadere dell’anno previsto di commissariamento. Adriano De Maio – dopo aver sottolineato le cose buone trovate e ribadito la sua disponibilità a dare ancora un suo contributo – termina il suo commosso discorso d’addio con un “Viva il CNR” pronunciato con la voce incrinata e con gli occhi lucidi. Il neo presidente non raccoglie l’offerta di De Maio di continuare a collaborare e con un discorso nel quale sono vistosamente assenti tutti i temi che laici e chierici considerano essenziali quando si parla di ricerca scientifica, mostra che una cortina di ferro è caduta sul più grande ente di ricerca italiano.
Da allora, in modo graduale ma sistematico, aumenta la burocrazia centrale e fioriscono e si moltiplicano assunzioni “ad personam” a tempo determinato che sarebbero poi state in seguito graziosamente trasformate a tempo indeterminato dal successivo governo di centro-sinistra come nobile esempio di lotta al precariato. Mi limito a portare solo un esempio della burocratizzazione centralistica e dell’uso della neolingua. Il professore (associato) Pistella dopo qualche mese – rivendicando il fatto che solo il presidente è l’unico legale rappresentante dell’ente – revoca la delega automatica che avevano i direttori di Istituto per firmare una serie di atti anche banali (per esempio, per dare un contratto anche di pochi mesi, anche su fondi esterni ottenuti dall’istituto). Che il presidente fosse l’unico legale rappresentante dell’ente era cosa ben nota e risaputa così come era ben noto e risaputo che, all’atto della nomina, i direttori di Istituto venivano automaticamente delegati a svolgere tutte le funzioni che riguardavano strettamente l’Istituto stesso. Credo sia facile immaginare le complicazioni e i ritardi che questo abbia comportato.
Come nota che potremmo ritenere folcloristica, se non fosse orwelliana, dopo alcuni mesi di questo andamento paralizzante, Pistella trasmise il suo potere di firma ai direttori di dipartimento: i direttori di Istituto, a questo punto, l’autorizzazione non dovevano chiederla più al presidente ma ai direttori di dipartimento. Questo cambiamento è stato presentato dalla stampa amica della Brichetto Moratti e di Pistella come “il CNR semplifica le sue procedure” non dicendo che appunto, fino a sei mesi prima, le procedure erano ancora più snelle ed efficienti.
Superficialità e improvvisazione, oppure lucido progetto?
Il racconto precedente è solo una sintesi parziale di quello che è successo negli anni indicati. Spero si riesca a cogliere un’idea sia pur vaga della gravità di quanto è accaduto perché dovremmo cercare di capire perché è accaduto (e se cose analoghe potrebbero di nuovo ripresentarsi). In base a quanto abbiamo affermato all’inizio, c’è sicuramente bisogno che la ricerca scientifica dialoghi con tutte le richieste della società. Ma il problema di spingere a una collaborazione maggiore tra mondo della ricerca e mondo produttivo è stato preso come spunto per compiere una devastazione dell’ente. Questo è avvenuto solo per improvvisazione e incapacità? Le due cose sono senz’altro presenti. Ma c’è dell’altro. Credo sia evidente – sia pure in modo rozzo e informe – che dietro queste azioni ci sia un piano e un progetto. Anche perché successivamente devastazioni analoghe sono state compiute nell’Università. Il piano è veramente mostruoso. C’è l’idea di una centralizzazione e di un controllo ferreo e questo spesso anche al di fuori delle istituzioni preposte come mostra – tra l’altro – l’istituzione dell’IIT di Genova che non dipende dal Ministero della Ricerca ma da quello del Tesoro. E un’altra idea è che se la ricerca serve (e molti dubitano che serva) solo in quanto può dare risposte alle esigenze immediate del mondo della produzione. Potremmo stracciarci le vesti, dicendo che siamo di fronte a una concezione strumentale della conoscenza, ma non c’è bisogno di farlo.
Se parlassimo a interlocutori ragionevoli, potremmo limitarci a osservare che (paradossalmente, forse, per questi grandi strateghi) questa concezione è fallimentare anche dal punto di vista strumentale. In base alla banale constatazione che, oggi, un Paese è all’avanguardia se ha un sistema produttivo basato sull’alta tecnologia questa visione miope è inefficace proprio dal punto di vista dello sviluppo produttivo a medio e lungo termine. Ed è proprio il prezzo che la nostra Italia sta pagando oggi. Il prezzo aggiuntivo rispetto alle conseguenze della crisi internazionale, quello che non ha pagato la Germania che ha utilizzato gli anni successivi alla costruzione dell’euro – investendo ancora di più in ricerca e potenziando la rete di Istituti extra universitari ma in stretto contatto con l’Università e il mondo produttivo (la rete degli Istituti Fraunhofer è dedicata a questo in modo specifico) per modificare il suo modello produttivo in direzione ancora più marcata verso l’alta tecnologia.
Il fatto è che i nostri grandi strateghi che hanno programmato tali attacchi devastanti non erano e non sono interessati allo sviluppo produttivo, ma l’attacco al CNR e all’Università è motivato da ragioni che sono ben chiarite in un recente libro di Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza). Credo che sia importante avere presente un quadro complessivo degli avvenimenti e non solo di quelli italiani. Questo tra l’altro ci permette di cogliere anche gli elementi di stupidità aggiuntiva presente nelle azioni compiute negli ultimi anni da una classe dirigente inadeguata. Adesso cominciano a emergere un po’ di anticorpi, ma sono pochi e arrivano in ritardo.
Una speranza per il futuro
Cerchiamo di trarre alcune conclusioni. Il ritardo dell’Italia nella produzione di alta tecnologia può essere colmato, anche se con difficoltà, dati i tempi stretti e una situazione al contorno di grande affanno. Possiamo farlo – nonostante tutti gli attacchi e gli errori – perché ancora abbiamo un mondo della ricerca di alta qualità. In Contro il declino (Settimo Termini e Pietro Greco, Guanda 2007) proponevamo alcune ricette. Non le ripeto qui e, ovviamente e auspicabilmente, se ne possono (e devono) pensare anche delle altre. Allora, nel 2007, scrivevamo che non c’era molto tempo. Purtroppo siamo stati facili profeti. Non avendo agito allora, ci siamo avvicinati pericolosamente al baratro.
Ricette che chiedono di modificare il modello produttivo hanno bisogno di tempo per dare i loro frutti. Adesso siamo nel bel mezzo di una situazione dove i risultati non li vedremo prima di alcuni anni. D’altronde questa via – investire in ricerca, “costringere” Università, enti di ricerca e mondo produttivo a dialogare con opportuni incentivi mirati a far nascere nuove aziende innovative basate su brevetti nostri (veramente innovativi) e su prodotti che “incorporano conoscenza di frontiera” è l’unica via per uscire dalla crisi rimanendo nel novero dei Paesi di punta (e forse è l’unico modo in assoluto anche solo per uscire dalla crisi). Se altri hanno altre e più brillanti idee lo comunichino, per favore, all’universo mondo. Però, per favore, non si ripeta per l’ennesima volta il ritornello che l’uscita dalla crisi è il turismo. Non perché anche in questo settore non ci sia tantissimo da fare, tutt’altro. Un turismo bene organizzato è qualcosa di estremamente utile ma il turismo non può essere l’asse portante del rilancio del Paese.
Il CNR – in questo contesto – può svolgere un ruolo centrale e cruciale.
Deve tornare a essere più snello, più agile; deve avere più controlli sostanziali su quello che fa (i controlli dovrebbero tendere anche al fine di aiutare a superare i problemi che si presentano) e meno impacci burocratico-verticistici.
Questo deve essere ottenuto non con nuove riforme, per carità, ma lavorando a semplificazioni specifiche (anche, se occorre, con mirati interventi legislativi) e riconoscendo in primo luogo le radici della devastazione che è stata operata su di esso nell’epoca nefasta delle Brichetto Moratti e dei Pistella.
Sul futuro fanno bene sperare la storia passata e le idee programmatiche esposte anche di recente dal presidente Nicolais e il fatto che il nuovo direttore generale abbia una conoscenza del mondo produttivo. Ma vi sono due snodi cruciali da superare. Il primo è che deve esserci un riconoscimento esplicito che l’operazione Brichetto Moratti è stata una devastazione dell’ente e per di più è stata fallimentare proprio nella direzione di favorire una interazione efficace, di avanguardia, con il mondo produttivo. L’altro è quello che, se si condivide il fatto che uno dei problemi gravi dell’Italia è il non essere presente in modo significativo nel settore dell’alta tecnologia, allora bisogna impegnarsi a fondo su quella che per il nostro Paese può essere una trasformazione epocale come quella che negli anni Sessanta la trasformò da Paese agricolo in Paese industriale. Per dispiegare fino in fondo i suoi effetti, un progetto di questo tipo non può essere solo una delle cose che vengono fatte, un aspetto a cui si presta un po’ più di attenzione di prima ma non più di tanto. Deve essere uno dei punti centrali di un grosso piano di rilancio, di un visionario “progetto Paese”. Un progetto Paese deve essere condiviso e portato avanti, appunto, da tutto il Paese ma devo dire che non ho molti dubbi che l’Italia tutta lo perseguirebbe con dedizione, impegno ed entusiasmo se solo fosse presentato in modo semplice e lineare e portato avanti con chiarezza e determinazione. Storicamente abbiamo visto e sperimentato varie volte che di fronte a grandi sfide l’Italia ha reagito molto bene. Tutte le volte che si è trovata sull’orlo del baratro, e se ne è accorta, inimmaginabili reazioni positive le hanno permesso di salvarsi. Forse è nel quotidiano che emergono i suoi difetti profondi. Certo deve anche essere cosciente di trovarsi sull’orlo del baratro. E non sempre le nostre classi dirigenti si sono comportate correttamente. Si pensi solo con quanta informazione pregressa Mussolini precipitò il Paese in guerra o all’oscuramento sulla reale situazione economica prodotto dal criminale ottimismo propagandato dall’ultimo governo Berlusconi. Il Paese ha bisogno di conoscere per potere impegnarsi e agire. E qui risiede una difficoltà non banale. Prima che il Paese lo accetti, un tale progetto deve essere elaborato e presentato dai suoi reggitori, dalla sua classe dirigente. Esso richiede e implica scelte di fondo: di politica scientifica e di politica industriale, oltre che cooperazione tra attori diversi e investimenti mirati.
Sarà in grado la classe dirigente di assumere un tale immane compito storico?
La destra abbiamo già visto quali idee ha e come le attua. Strategicamente sono le stesse di quelle della destra americana descritte in modo estremamente efficace da Paul Krugman nel suo La coscienza di un liberal, ma ci aggiunge qualcosa di suo: molta sciatteria e arroganza che le impediscono di capire quanto alcune azioni sono gratuitamente dannose e basta, anche rispetto ai propri fini strategici. La sinistra da molto tempo sul tema della ricerca e dell’innovazione (ma non solo su questo, purtroppo) ha perso la bussola.
Pur avendo – a partire dalla sua tradizione – gli elementi per delineare una proposta coerente e unitaria, non riesce a farlo. Balbettando, nel migliore dei casi (e raramente), ha in minima parte limitato i danni delle devastazioni altrui. Gli imprenditori, infine, a mio avviso, hanno capito la portata del problema ma dopo aver lanciato timide aperture hanno fatto marcia indietro, coscienti che un cambiamento di modello produttivo riaprirebbe tutti i giochi e gli equilibri di potere interni alla categoria. Si tratterebbe di rischiare, di muoversi senza alcuna rete di protezione. È quello che ci si aspetterebbe da veri imprenditori, ma – collettivamente – non lo hanno fatto. Oggi, quindi, non c’è nulla e nessuno su cui poter contare con certezza.
C’è solo da sperare in una resipiscenza di tutti, magari dietro una spinta forte dell’opinione pubblica.
Noi dobbiamo muoverci e operare come se le condizioni esterne potessero realmente da un momento all’altro cambiare ed essere pronti per il cambiamento. Sono sicuro che – nonostante i colpi ricevuti – il CNR sia una delle componenti della società italiana che possono fare di più per un rilancio del nostro disastrato e amato Paese.
Tratto da Scienza & società - Novant'anni di CNR 1923-2013