Fatta eccezione per i gemelli
identici, non esistono due persone geneticamente uguali. In linea teorica questo
significa che se confrontassimo due individui qualunque avvicinando le loro
doppie eliche di DNA e risalendone i gradini, troveremmo che in media ogni
mille passi c’è una differenza tra l’una e l’altra.
La mera entità di questa
variazione - che ammonta a uno 0,1% sul totale - potrebbe apparire a prima
vista insignificante, quasi ignorabile. Ma se consideriamo le dimensioni del genoma umano, il valore acquista un
significato importante. Vuol dire che da una persona all’altra ci sono circa
tre milioni di differenze genetiche per l’insieme dei cromosomi di origine materna
e altrettante per quelli di origine paterna [1], per un indice complessivo di sei
milioni di piccole variazioni sul tema della vita. Non tutte condizionano le
funzioni dell’organismo, e perciò non tutte sono rilevanti, ma a fronte di un
numero di differenze che resta comunque consistente appare ambizioso il compito
di discernere quali tra queste variazioni abbiano un significato e quali no. L’obiettivo
di questo sforzo non è scontato. La genetica umana sta riuscendo a farsi strada
tra questi sei milioni di differenze e, seppure con fatica, ha scoperto che è
qui che bisogna cercare le cause della diversa suscettibilità a una malattia e
le vie per tracciare cure su misura.
Ognuno di noi ha una diversa probabilità
di sviluppare malattie neoplastiche, neurodegenerative, metaboliche e cardiache
poiché alcune di esse dipendono da piccolissime differenze genetiche che ci
distinguono a livello molecolare e che ci rendono più o meno predisposti a sviluppare
una patologia. Il progresso spettacolare delle tecniche di screening genetico permette
di indagare con più facilità e a costi accessibili il nostro “profilo molecolare”;
ma se scoprire che tipo di variante ospitiamo è oggi sempre più semplice
nell’ambito diagnostico, isolare a monte, cioè in fase di ricerca di base, quali
sono le varianti in gioco, quali posizioni critiche del genoma sono coinvolte e
come queste determinino la nostra predisposizione a una malattia rimane una
sfida aperta. A questo scopo è fondamentale potere associare ai dati molecolari
di un paziente i suoi dati clinici per capire se esiste un nesso tra la variante
di un gene ben preciso (genotipo) e la malattia che manifesta (fenotipo
patologico).
È proprio questa una delle
sfide principali da cogliere per guadagnare una medicina
personalizzata assimilabile alla pratica medica: creare strutture, strumenti di
integrazione di dati provenienti dalla genetica e di quelli provenienti dalla
clinica. Raccogliere queste informazioni e soprattutto renderle disponibili a
medici e ricercatori richiede innanzitutto una ricerca multidisciplinare, che
sappia mettere in rete e far dialogare realtà molto diverse tra loro. In questo
contesto il progetto D.NAMICA rappresenta un caso esemplare
– e forse unico – di cooperazione e innovazione sul territorio italiano,
coinvolgendo nove realtà ad alta innovazione del Friuli Venezia Giulia: Insiel Mercato, l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste, Friuli Innovazione, Nuvon Italia, la Scuola Internazionale
Superiore di Studi Avanzati di Trieste, l’Università degli Studi di Udine, la
Fondazione Italiana Fegato Onlus, l’Istituto di Genomica Applicata e l’IGA
Technology Services Srl di Udine. L’obiettivo è proprio quello di creare una
piattaforma informatica che possa facilitare la raccolta dei dati provenienti
da analisi cliniche, biomolecolari e genomiche dei pazienti a supporto della
ricerca.
“All’interno del progetto D.NAMICA abbiamo cercato di immaginare il
futuro: un medico che davanti al paziente abbia a disposizione sia i classici
dati clinici, sia il suo profilo genetico descritto dalle analisi molecolari”, scrive Gianfranco Sinagra, direttore della Struttura Complessa di
Cardiologia dell'Azienda Ospedaliera Universitaria "Ospedali Riuniti"
di Trieste.
La piattaforma che D.NAMICA si propone di creare entro il 2014 è quindi un prototipo che servirà anche per progettare una nuova generazione di cartelle cliniche da utilizzare negli ospedali e nei laboratori e offrire così un’assistenza efficiente e personalizzata. Nel 2012, cioè all’inizio del progetto, sono stati attivati tre programmi pilota su tre patologie diverse, tutte con una chiara componente genetica: tumore al fegato (HCC), cardiomiopatia dilatativa (DCM) e atrofia muscolare spinale (SMA).
La prima fase di ognuno di questi progetti è stata dedicata alla raccolta del materiale genetico di gruppi di pazienti, materiale che, previo ottenimento del consenso informato, è stato poi processato per un’analisi più mirata. “L’associazione genotipo-fenotipo patologico che la piattaforma per la medicina personalizzata ci consentirà poi di condurre è fondamentale per la ricerca, che si sta muovendo verso una direzione nuova, assolutamente nuova”, spiega Renata Lonigro, ricercatrice a capo del progetto pilota sulla SMA, “bisogna capire quali variazioni hanno una funzione nel regolare la malattia e quali no. Ed è fondamentale comprenderlo, perché per patologie come la SMA la medicina personalizzata offrirà senz’altro i grandi vantaggi che le terapie usate nei trial clinici non sono purtroppo ancora in grado di dare. Attualmente non esiste una cura per la SMA, ma le promesse della medicina personalizzata ci lasciano intravedere valide possibilità”.
L’atrofia muscolare spinale (SMA) è oggi una delle patologie neuromuscolari ancora prive di una valida cura. La causa della patologia è una mutazione genetica già nota nel 1995 che mappa nel gene SMN1 e che colpisce l’organismo quando entrambe le copie del gene che possediamo – ereditate, rispettivamente, l’una per via materna e l’altra per via paterna – sono difettose. Purtroppo la patologia è invalidante, se non spesso fatale, e la mutazione del gene SMN1 non è del tutto rara all’interno della popolazione mondiale. Circa 1 persona su 40 è portatrice della mutazione e la sua presenza in duplice copia causa la perdita della funzionalità della proteina che il gene SMN1 codifica, una proteina essenziale per il corretto sviluppo e differenziamento dei motoneuroni alfa (i neuroni che collegano il tronco encefalico alla muscolatura scheletrica di cui controllano le contrazioni e i movimenti). Le tecnologie terapeutiche cercano pertanto di restituire una proteina funzionante all’organismo, sebbene né la terapia genica – per ragioni di sicurezza legate ai vettori virali - né la terapia cellulare [2] condotte nei modelli animali riescono a tracciare vie di cura definitivamente risolutive per l’uomo. Molti degli sforzi della ricerca si concentrano dunque anche su un altro gene, fisicamente adiacente al gene SMN1: il gene SMN2.
Le sequenze del gene SMN1 e del gene SMN2 differiscono di una base, cioè di una sola “lettera” nel “testo” del gene, ma questa differenza apparentemente irrisoria è responsabile, nel primo caso, della produzione di una proteina funzionante; nel secondo, di una proteina tronca, cioè non integra nella sua struttura e, quindi, come quasi sempre accade, nella sua funzione [3]. Tuttavia il gene SMN2 è comunque in grado di produrre la proteina funzionale in quantità estremamente ridotte ed è un gene pressochè sempre presente in forma normale nel paziente affetto. Stimolare dunque questo gene a produrre una quantità di proteina sufficiente a garantire lo sviluppo normale dei motoneuroni alfa è una prospettiva verosimile. Il gene SMN2 può essere oltretutto presente in un numero variabile di copie, differente da individuo a individuo, ed è noto che un numero maggiore di copie è responsabile di una quantità superiore di proteina che, ancorchè non totalmente sufficiente, attutisce comunque il fenotipo patologico grazie all’effetto additivo delle copie del gene. Il gene SMN2, inoltre, può presentarsi con una sequenza diversa. Nel DNA di persone diverse cioè - questo come molti altri geni - è “scritto” diversamente. Si dice quindi che la sequenza è sede di polimorfismo e raccogliere il maggior numero di tipologie che la rappresentano può aiutare a comprendere come ognuna di essere regoli in modo differenziale la produzione della proteina residua, la risposta farmacologica o la severità della manifestazione patologica. E a conclusione del progetto D.NAMICA questa eterogeneità genetica sembra essere sempre meglio caratterizzata.
“Sono state individuate non solo varianti note ma anche nuovi polimorfismi non descritti precedentemente. I dati ottenuti sembrano indicare l’esistenza di un’associazione tra genotipo e fenotipo, ma stiamo ampliando la coorte dei soggetti reclutati in attesa di validazione statistica dei dati”, spiega la dott.ssa Lonigro, “l’ampliamento della coorte è stato fondamentale: grazie a Eduardo Tizzano, pediatra presso l'Istituto di Genetica e Ricerca dell’Hospital de la Santa Creu i Sant Pau di Barcellona, abbiamo ottenuto il DNA di oltre 100 paziente affetti da SMA, senza il quale il ritmo della ricerca sarebbe stato senz’altro più lento”. C’è un’inflessione pratica e fiduciosa nel tono della sua voce.
Bibliografia:
[1] Bruce
Alberts, Alexander Johnson, Julian Lewis, Martin Raff, Keith Roberts, and Peter
Walter, Molecular Biology of the Cell, 4th edition. New York: Garland Science;
2002.
[2] Corti, S. et al (2008) Neural stem cell transplantation can ameliorate the
phenotype of a mouse model of spinal muscular atrophy. Journal of Clinical Investigation, 118(10):3316–3330.
[3] Cartegni, L.
& Krainer, A.R. (2002) Distruption
of an SF2/ASF-dependent exonic splicing enhancer in SMN2 causes spinal muscular
atrophy in the absence od SMN1. Nature
genetics, 30, 377-284.