Lo scorso agosto la rivista The New Yorker, nota per le sue posizioni liberali e le sue pungenti
vignette, ha pubblicato un articolo di M.
Specter, autore d’un discusso libro (Denialism, o Negazionismo), che nel sottotitolo
denunciava “come il pensiero irrazionale ostacola
il progresso scientifico, danneggia il pianeta e minaccia le nostre vite” (sic).
Era il 2009: ora Specter attacca l’indiana Shiva per il suo “pensiero irrazionale” e la sua lotta agli
Ogm.
Un equilibrato commento di Rampini su la Repubblica
del 3 ottobre ha scatenato una raffica d’interventi (Cattaneo, Petrini, Serra,
Veronesi e altri). Riparte il dibattito sulle manipolazioni genetiche? Pare di
sì, ma forse c’è qualche novità. Si noti anzitutto una relazione tra scelta di
campo e professione degli antagonisti: in Italia gli “scienziati” (Cattaneo,
Veronesi) sono pro Ogm, gli “altri” (Shiva, Petrini, Serra) contro.
Come mai? “La scienza ha sempre ragione”, fa dire un po’ capziosamente Serra a
Cattaneo che aveva rivendicato il primato della scienza sulla … scienza, anche su
quella che sbaglia: il geocentrismo di Tolomeo cede all’eliocentrismo di Copernico,
cioè a una nuova scienza o almeno a un suo “cambio di paradigma”, secondo
Popper (o il New Yorker: v. vignetta).
Se la scienza degli Ogm è fasulla, solo
la scienza può e deve dirlo: e nel farlo non si svilisce, anzi. Di recente è
stato così per Dolly la pecora clonata; ma potrebbero emergere altri casi.
Comunque oggi alla scienza non basta essere corretta: deve confrontarsi anche con
i suoi risvolti politici, economici, sociali e etici.
Gli scienziati, attratti più dal Nasdaq che dal Nobel
L’acronimo Ogm sta per “Organismo Geneticamente Modificato”
(o “Manipolato”, se si vuol enfatizzare l’artificiosa creazione), ma la definizione
è carente: gli organismi per vivere devono continuare a modificare i loro
componenti, quindi anche i loro geni. Le mutazioni sono inevitabili e per lo
più neutre o dannose; quelle utili per l’evoluzione delle speci e lo sviluppo
degli individui sono rare e secondo il Nobel francese Jacob realizzano un lento
bricolage naturale che i moderni apprendisti stregoni cercano d’accelerare e
migliorare. Oggi s’evita di parlare di manipolazioni del DNA in vitro: si parla
di “editing” per sottolineare la precisione e la delicatezza d’interventi sempre
più assimilabili alle modifiche subite dal DNA in vivo.
Il trapianto di geni, vanto
(o onta?) delle biotecnologie, avviene anche in natura: sfrutta un imprevisto ma
diffuso trasferimento orizzontale di DNA (e RNA) ed è studiato da una “metagenomica”,
che indaga su quantità e funzioni di questi geni senza fissa dimora in un
organismo.
Se le manipolazioni genetiche non sono poi così
artificiali, alcuni termini del dibattito vanno rivisti. Partiamo dalla storia
recente: dopo l’epocale scoperta del DNA come vettore molecolare dei geni (1944),
la clamorosa delucidazione della sua doppia elica ('52) e la geniale
decifrazione del codice ('60), s’è passati dall’analisi alla sintesi: si parla
d’isolamento (’68), assemblaggio ('69), ricombinazione in vitro ('70) modifiche e
trapianti in vivo ('71), prima di geni e poi di genomi, come vorrebbe fare la
clonazione ('96).
È stato un crescendo wagneriano, o meglio rossiniano: i
progressi sono stati notevoli, ma s’è parlato d’una “seconda creazione”,
l’avvento d’un suo “ottavo giorno”, un “ritorno all’Eden” (sono solo un
campionario dei titoli usciti in quegli anni, e oggi dimenticati). Altri più
laicamente hanno brindato alla terza rivoluzione tecnologica, dopo l’invenzione
dell’agricoltura (10.000 anni fa) e dell’industria (200).
Le nuove frontiere
portano all’Eldorado: quella comprensibile eccitazione per l’ignoto diventa
presto una vera e propria corsa al profitto e gli scienziati, attratti più dal
Nasdaq che dal Nobel, pretendono di brevettare non solo le tecnologie, ma anche
gli organismi e persino i geni, nella riduttiva forma di sequenze di DNA; e di
controllare non solo i flussi delle conoscenze, ma anche quelli di farmaci,
alimenti, semi, enzimi, diserbanti, disinfestanti ecc. Prendono corpo un monopolio
tecnologico e un colonialismo scientifico insofferenti di regole e insensibili
ai rischi: il giovane ricercatore che nel suo laboratorio in cantina ha appena fatto
una scoperta, smette jeans e t-shirt, indossa camicia bianca e cravatta scura,
e diventa Ceo d’una multinazionale.
Dal Dogma centale della biologia molecolare alla Conferenza di Asilomar
Ma dopo la prima ricombinazione in vitro, alcuni
ricercatori s’accorgono che c’è del nuovo: invitati nel 1975 dall’americano
Berg, in circa 150 (tra cui il sottoscritto) convennero da tutto il mondo a
Asilomar, California e si confrontarono apertamente sugli Ogm prossimi venturi.
Tre giorni e tre notti d’accese discussioni (i giornalisti erano stati lasciati
fuori) sviscerarono gli Ogm: per alcuni erano il frutto d’una pericolosa “hubris” che violava biblici comandamenti
(l’uomo non congiunga ciò che Dio ha
separato!), per altri fornivano all’uomo un nuovo e potente mezzo di
controllo sulla materia (i geni
sostituiranno la chimica; e la fisica: datemi un gene e solleverò il mondo),
per altri ancora erano strumenti di democratizzazione della medicina (l’insulina da Ogm costerà meno della siringa
che l’inietterà). Asilomar premiò
questo “coming-out”: ritornammo tutti fieri d’aver licenziato ragionevoli
linee-guida; due, Boyer e Cohen, ansiosi di brevettare tutta quanta l’ingegneria
genetica; uno, Berg, felice d’una sicura candidatura a un Nobel che gli arrivò
nel 1980. Questi entusiasmi furono amplificati dai media in chiave
sensazionalistica e s’avviò un vero e proprio processo di mitizzazione del DNA.
Nuove conoscenze s’accumulavano senza un’adeguata metabolizzazione: ricordiamone
alcune tra quelle che oggi riconosciamo come le più importanti. Al
concepimento ogni vivente riceve dai genitori un genoma nuovo, unico e irripetibile,
ma effimero (dura 24 ore, poi incomincia il ciclo delle copiature); crescendo, nelle
sue cellule si ritrova genomi diversi dall’originale, copie di copie, e così
via per decine di cicli, ma la fedeltà delle copie decresce. In più, metà del
nostro DNA è instabile e tutto è danneggiabile: quindi ogni vivente è un
mosaico di genomi in continuo, seppur limitato, cambiamento; i gemelli
monozigotici hanno all’inizio genomi identici ma alla fine diversi, sia entro che
tra loro. Il concetto della discontinuità del genoma individuale è provato da
una robusta teoria e da un’ampia sperimentazione. Questa discontinuità contrasta
col “dogma centrale della biologia molecolare”, con cui mezzo secolo fa Watson
e Crick, i padri Nobel della doppia elica, imposero al DNA individuale una
costanza tanto improbabile quanto ingiustificata; oggi invece s’ammette che modifiche
sia accidentali e quindi casuali, sia funzionali e quindi programmate, alterano
le sequenze del DNA individuale vita natural durante con ritmi, frequenze e
modi diversi; si tende però a minimizzarne gli effetti sulle tecnologie emergenti
basate sul DNA (staminali, analisi forensi ecc.).
Solo le modifiche dei
genomi delle cellule riproduttive sono ereditabili, quindi “immortali”; non lo
sono le modifiche dei genomi delle altre cellule (dette “somatiche” e destinate
invece a morire con l’organismo); questa differenza risulterebbe da una “barriera”
che, proposta verso la fine dell’800 da un autorevole scienziato tedesco, Weismann,
divideva le cellule somatiche dalle riproduttive e impediva che le mutazioni passando
dalle prime alle seconde compromettessero l’identità della specie.
Le
modifiche del genoma d’organismi d’ogni specie basate su trapianti di geni estranei
alla loro storia evolutiva (anche inventati) li rendono “transgenici” e come tali
ancor più sospetti, specie se le modifiche toccano la linea riproduttiva.
Oggi
è sempre più evidente che i caratteri ereditabili, per tradizione associati a
sequenze del DNA, sono determinati anche da modifiche chimiche, interazioni con
RNA e proteine e (tras)posizioni di elementi genetici mobili: le proteine
prioniche fanno addirittura saltare l’equazione “gene=sequenza
di DNA”.
Alla “genetica”, scoperta da Mendel nel 1865 ma tanto complessa da
dover essere riscoperta ben 35 anni dopo, si sovrappone un’“epigenetica”, ancor più
complessa: divinata da Waddington negli anni '40, ha dovuto venir anch’essa riscoperta
mezzo secolo dopo e da allora contribuisce al raccordo tra l’apollinea riproducibilità
della struttura-funzione del DNA e la dionisiaca arbitrarietà degli effetti ambientali
nello sviluppo e nell’evoluzione, oggi accomunati in una nuova disciplina
chiamata “evo-devo”. I dettagli di questo raccordo sono oscuri e impegnano le migliori
menti delle bioscienze: lo stesso Darwin quando non sapeva spiegare certe stranezze
evolutive, le attribuiva all’imprevedibilità delle variazioni casuali dell’ambiente
e comunque ne affidava il successo, o meno, alla sua scoperta prediletta, la selezione
naturale.
McClintock e i geni salterini
A riguardo sarebbe quanto meno salutare rivisitare il conflitto un
po’ fittizio sull’ereditabilità dei caratteri acquisiti proposta da Lamarck all’inizio
dell’800, a lungo contestata come eresia ma oggi riconsiderata da molti: ne
attesta la necessità l’opera di giganti delle bioscienze come Temin e Baltimore,
che scoprirono la copiatura di sequenze di RNA in DNA (retro-trascrizione) e l’incorporazione
dei DNA retro-trascritti nel genoma; e soprattutto come McClintock, che scoprì la
mobilità degli elementi genetici mobili e la sua dipendenza da stress ambientali.
I Nobel assegnati a questi geni a lungo ignorati agevolarono l’accettazione dei
loro insegnamenti ma solo dopo decenni. Infatti, è stata la dogmatica costanza dei
genomi nel corso dello sviluppo che ha legittimato l’idea stessa della
clonazione di animali adulti, e ne ha ostacolato l’inevitabile rottamazione, come
imposto anche dai suoi insuccessi, reiterati ma disinvoltamente insabbiati. Ed
è stato così che la clonazione di Dolly, nonostante l’unicità dell’evento e la
debolezza delle prove, subito denunciate da chi scrive e dal collega americano Zinder,
non solo è stata universalmente accettata ma insieme col lancio del Progetto
Genoma Umano ha suggellato la mitizzazione del DNA. Non dovrebbe sorprendere la
fascinazione del mito del DNA su divulgatori e applicatori, ma lascia perplessi
la sua presa sugli scienziati: nel 2012 i Nobel per la medicina sono andati all’inglese
Gurdon per i suoi ultradecennali (e vani) tentativi di clonare rane e al
giapponese Yamanaka, per le sue audaci induzioni di cellule adulte in staminali
“pluripotenti”.
Quanto al Progetto Genoma Umano non solo non ha spiegato che
cosa ci rende tutti umani, ma dice anche poco su che cosa differenzia un uomo
da un altro, come promesso agli esordi. La diffusa ostracizzazione degli Ogm per
molti dipende anche dalla presa che la dogmatica costanza del DNA ha avuto sulla
percezione della determinazione dei caratteri ereditabili. Infatti per molti il
DNA, per essere l’elegante, onnipotente protagonista della caratterizzazione di
ciascuno, deve restare costante per tutta la sua vita.
Operativamente, se le transazioni dell’ingegneria
genetica sono le stesse in vitro e in vivo e se gli Ogm possono essere nel
bene e nel male simili agli organismi naturali, allora dovrebbe essere consentito
un loro uso altrettanto vigilato e condizionale.
Ma c’è almeno un aspetto che
li differenzia: la scala del loro rilascio nella biosfera. I mutanti naturali sono
poco frequenti (in omaggio alla vecchia idea che la natura non fa salti): la loro
misteriosa adattabilità all’ambiente ne decreta l’eventuale successo evolutivo.
Invece gli Ogm (per ora più vegetali che animali) possono essere rilasciati in quantità
tanto massicce da stravolgere i normali meccanismi selettivi; possono così saturare
le nicchie in cui sono immessi e debordarne disordinatamente; se privi di
marcatura, come assurdamente preteso dai produttori, non possono essere rintracciati,
e tanto meno richiamati, vanificando ogni possibilità di studi epidemiologici e
d’interventi riparativi.
È qui il caso di
ricordare che gli ecodisastri sinora denunciati nascono da rilasci improvvidi e
irrevocabili d’organismi naturali, quali indubbiamente sono i casi dei pesci
persici nel lago Vittoria, dei conigli in Australia, degli scoiattoli americani
in Italia: ciascun caso meriterebbe un capitolo tutto suo. È però altrettanto
certo che gli organismi immessi erano sì normali ma estranei agli ecosistemi invasi,
e questo sottolinea un’altra variabile del sistema. A questo riguardo va
segnalata un’importante novità: sono appena stati pubblicati dati relativi alla
diversa adattabilità di organismi normali rispetto a Ogm in ambienti naturali sfavorevoli:
varietà di mais e frumento ottenute per incroci s’adattano a suoli africani secchi e poveri meglio di Ogm
appositamente prodotti.
La notizia è importante: la riportano su Journal Of Developing Areas (48, 199, 2014) R. La Rovere e coll. nell’ambito d’un programma delle Nazioni
Unite e la rilancia il 18 settembre N. Gilbert sull’autorevole Nature, l’organo
ufficiale delle biotecnologie avanzate. Se confermati, questi dati
ridimensionano il mito del DNA onnipotente e della superiorità delle manipolazioni
genetiche.
Conclusioni
Tutti gli organismi viventi, transgenici,
manipolati o prodotti da incroci tradizionali, sono Ogm. Così come tutti i bambini,
concepiti in vitro o in vivo, sono umani. Le prestazioni degli organismi dipendono
dai geni che contengono e dall’ambiente in cui sono immessi: ma geni e ambiente,
pur governati da leggi diverse, s’influenzano a vicenda nel determinare diverse
caratteristiche individuali, modalità di sviluppo degli individui e d’evoluzione
delle specie.
La vita risulta dall’attività di un’ingegneria genetica esercitata
dalla natura, le sue manipolazioni dall’attività di un’ingegneria genetica esercitata
dall’uomo. È auspicabile che dalla loro convergenza nasca una nuova “biologia
sintetica”. Ma ambiente e ingegneria genetica naturale seguono percorsi distinti
e imprevedibili, che possono portare a gravi situazioni di stress e produrre
forme di vita particolarmente aggressive, come certi virus: vanno prevenute e/o
contenute con interventi meditati, pronti e efficaci. Vanificarli per ragioni
ideologico-religiose (sacralità della natura) o politico-economiche (strapotere
delle multinazionali) è comprensibile ma autolesionistico.
Il virus Ebola è un
prodotto dell’ingegneria genetica naturale, ma potrebbe esser sconfitto da vaccini
prodotti da piante rese transgeniche con geni umani. L’uomo ha imparato a
convivere con l’atomica ed è auspicabile che impari a convivere con gli Ogm.