fbpx L'alga di Venezia | Scienza in rete

L'alga di Venezia

Primary tabs

Read time: 4 mins
Produrre energia dalle mircoalghe. L'idea è senz'altro interessante, nella letteratura scientifica se ne parla da almeno un decennio e diversi paesi europei ed extra europei sono impegnati in progetti di ricerca sul tema. L'idea nasce quando si realizza che la produzione di carburante da prodotti agricoli (biodiesel dai semi oleosi di colza, girasole, eccetera; o etanolo da mais, canna da zucchero, eccetera), non ha le potenzialità per sostituire percentuali significative di combustibile fossile. Il territorio agricolo in Europa, ma anche negli USA e in altri paesi ben più dotati del vecchio continente di ampie praterie, non è sufficiente per una produzione di semi oleosi o altre colture adatte alla trasformazione in carburante senza che questa entri in conflitto con la necessità di produzione agricola per l'alimentazione. Le microalghe (alghe verdi unicellulari), al pari delle piante, crescono mediante il processo fotosintetico utilizzando l'energia solare e il carbonio della CO2 atmosferica, ma non necessitano di ampi territori agricoli e, rispetto alle piante crescono molto più velocemente. E' possibile far crescere microalghe in impianti industriali (fotobioreattori) che, a parità di biomassa prodotta, occupano molto meno territorio e non necessariamente di qualità agricola. La biomassa prodotta mediante fotosintesi altro non è che il carbonio della CO2 (e altri pochi elementi come azoto e fosforo che devono essere presenti nella coltura) fissato in molecole organiche e biomolecole che hanno immaganizzato l'energia del sole. Questa viene in parte restituita quando la biomassa viene usata come combustibile.

Questa è l'idea alla base del progetto "Energia pulita dalle alghe a Venezia" recentemente presentato alla stampa e alla televisione dalla società Enalg Srl unitamente all'Autorità portuale di Venezia (si veda file allegato).

L'idea è buona ma il progetto, almeno quello sommariamente descritto negli articoli di stampa, sembra molto ottimistico e di difficile applicazione.
La biomassa algale, come detto sopra, può essere ottenuta industrialmente in particolari impianti, fotobioreattori, per i quali sono materie prime la CO2 atmosferica, o meglio ancora quella emessa da una centrale termica o impianto chimico, l'acqua che può essere marina o dolce a seconda della specie di alga utilizzata, e alcuni nutrienti aggiuntivi come fosfati e nitrati di cui sono ricchi i reflui dei depuratori cittadini e degli allevamenti animali. Dunque la materia prima abbonda e non costa nulla: anzi, la sua utilizzazione costituisce di per sé un vantaggio ambientale, contribuendo a ridurre le emissioni di gas serra nell'atmosfera e a depurare le acque inquinate. Tutto ciò è effettivamente molto attraente ma, finora, veri impianti industriali di crescita di alghe a fini energetici, nonostante molte dichiarazioni e spot promozionali, non ne sono stati realizzati. Il motivo è che far crescere microalghe in un fotobioreattore industriale, ovvero in una quantità che giustifichi l'impresa, è tutt'altro che facile e, ammesso che sia possibile, è necessario ancora procedere con la ricerca per meglio comprendere la biochimica, la fisiologia e l'ecologia di questi organismi e per mettere a punto disegni di fotobioreattori e cicli industriali capaci di ottimizzare le rese produttive.
Oltre a ciò la previsione di ottenere 50 MW (megawatt) di potenza da un impianto che occupa una superfice di mille ettari sembra molto ottimistica. Infatti, poiché una tonnellata di biomassa algale contiene circa 20 G Joule (gigajoule) di energia, per ottenere una potenza di 50 MW dovremmo trasformare completamente in energia elettrica l'equivalente di 79mila tonnellate di biomassa algale in un anno. Poichè la resa finale della trasformazione della biomassa in energia elettrica molto difficilmente può essere superiore al 30% e, anzi, facilmente è molto inferiore (basti pensare all'energia necessaria per filtrare, centrifugare ed essiccare tutta questa biomassa e a quella necessaria per la gasificazione), le tonnellate di biomassa da produrre diventano oltre 260mila.
Il limite teorico (e come tale irraggiungibile) di produzione autotrofa (ossia che utilizza il solo processo fotosintetico per crescere) di una specie microalgale di 100 tonnellate all'anno per ettaro di impianto è più che ottimistico. Per fare i 50 MW voluti sarebbe quindi necessario un impianto che funzionasse al limite teorico dell'estensione non di mille ettari (come da progetto) ma di ben più del doppio.
Infine ci si chiede per quale motivo crescere biomassa algale per gasificarla e produrre energia elettrica quando è disponibile la spazzatura che in questo paese non si sa dove mettere? Perché per quest'ultima si preferiscono i termovalorizzatori in tutta Europa?
La ragione è che la tecnologia della gasificazione, pur interessante, è ancora molto costosa e poco affidabile.
A nostro avviso la coltivazione di microalghe, piuttosto che per produrre energia elettrica, può essere vantaggiosamente utilizzata a fini energetici sfruttando la sua proprietà di poter fornire un combustibile liquido (biodiesel) che può, almeno in parte, sostituire il ricorso al petrolio per il trasporto su strada.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.