Basta un soffio per scoprire un tumore: un gruppo di ricerca dell’Università di Bari è riuscito a utilizzare le stesse metodiche di diagnostica utilizzate di solito per monitorare la qualità dell’aria e le emissioni dell’Ilva di Taranto, allo scopo di individuare la presenza di carcinoma al colon retto. Si tratta di una scoperta che rende estremamente più semplice le procedure di diagnosi per questo tipo di tumore - finora affidate alle procedure di colonscopia – e che si è guadagnata la pubblicazione sulla prestigiosa rivista scientifica British Journal of Surgery oltre all‘attenzione dei media internazionali nelle scorse settimane (1; 2).
Il tumore lascia un segno della sua presenza nel sangue, e queste tracce possono passare nell’aria attraverso gli alveoli. Per osservare quello che accade all’interno dell’organismo basterebbe quindi soffiare in un palloncino, proprio come l’aria circostante un plesso industriale ne segnala il livello di inquinamento, una modalità pratica e veloce come il test usato per l'alcolemia. E’ questo il principio su cui si basa il lavoro frutto degli studi di due team di ricerca, uno guidato da Gianluigi DeGennaro, direttore scientifico della "Rete Voc and Odor" del Dipartimento di Chimica, l’altro del dipartimento Emergenza e Trapianti d’organo di Donato Altomare, entrambi dell’Università degli Studi "Aldo Moro" di Bari. I risultati finora ottenuti non lasciano dubbi sull’efficacia di questa nuova tecnica rispetto alla tradizionale: su 100 malati monitorati, ne sono stati individuati con certezza 80, a fronte di un 7% la cui patologia viene confermata solo dopo aver eseguito il test del sangue occulto.
“Negli anni precedenti avevamo già lavorato su questa linea di ricerca ma su altre patologie, con risultati forse anche migliori. Tuttavia, in quei casi il campione analizzato era più ristretto, e gli studi non hanno avuto la stessa attenzione della comunità scientifica”, spiega Gianluigi DeGennaro “Questa volta, ad essere determinante è stata la scelta del tipo di tumore da monitorare, il cancro al colon retto, dal momento chein il numero di casi che si registrano in generale è consistente, e la diagnostica disponibile generalmente utilizzata è più invasiva. La volontà di migliorare è quindi maggiore rispetto ad altri casi”. Il principale elemento di innovatività di questa scoperta consiste nell’aver recuperato informazioni su patologie che attaccano il sistema respiratorio da un organo che non è a diretto contatto con i polmoni, ‘inseguendo’ il metabolismo gassoso che viene prodotto attraverso il tessuto fino al sangue e agli alveoli polmonari. La specificità della patologia è stata inoltre identificata non riferendosi a un singolo marker tumorale - procedura finora utilizzata da altri ricercatori impegnati in studi analoghi - ma a uno spettro più esteso di metabolisti gassosi indicatori, una specie di impronta digitale riscontrabile in tutti i pazienti, discriminandola poi su un modello statistico di ricognizione dei malati. “Molti composti organici volatili li abbiamo da sempre misurati in ambiente. Avevamo quindi già la tecnologia per seguirli, mentre l’approccio di pattern recognition è quello che normalmente utilizziamo per riconoscere gli ambienti. Con lo stesso modello di pattern recognition siamo ora in grado di distinguere tra sani e malati”, prosegue DeGennaro.
La
speranza è quella di ridurre i tempi di monitoraggio e diagnostica del
tumore al colon retto. A questo bisogna aggiungere il possibile risparmio in
termini di costi sanitari e di miglioramento della qualità di vita del paziente
in generale, evitando le procedure di colonscopia.
La metabolomica gassosa
diventerà molto probabilmente il riferimento per un nuovo percorso di studi da
utilizzare anche per altri fluidi biologici, estendendo le applicazioni ad altri tipi
di esposizione e a patologie pre-cancerogene, come per esempio le policosi, con
il contributo della comunità scientifica internazionale interessata a questi
risultati. E' solo un primo passo, insomma, ma grazie alle strumentazioni messe a punto in futuro sarà più semplice sottoporsi a controlli periodici, favorendo così la prevenzione.
Queste le particolarità più specificamente tecniche della scoperta del team di Bari, che si distingue però anche per le modalità e le circostanze in cui è stato possibile lavorare. Il progetto, avviato due anni fa, è stato infatti possibile grazie alle politiche di sostegno per iniziative di ricerca della Regione Puglia, con un finanziamento di circa un milione e mezzo di euro che ha premiato anche il tipo di organizzazione del gruppo pugliese. “Il nostro è un team con una gestione del lavoro ‘orizzontale’, in cui c’è una forte componente di collaborazione interna, senza la presenza di un vertice che necessariamente indichi la strada da seguire, senza dimenticare la sinergia efficiente tra gruppi che si occupano di cose molto diverse tra loro. Il modello regionale che ci ha sostenuto ci consente in effetti di guardare al nostro lavoro come un’esperienza inedita, che ci piacerebbe venisse seguita più spesso”
L’età media dei ricercatori autori della scoperta è 27 anni, il team è composto principalmente da donne: Maria Di Lena (28 anni), Francesca Porcelli (30 anni), Elisabetta Travaglio (25 anni), Livia Trizio (34 anni), Maria Tutino (37 anni).