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“Osservata” in laboratorio la radiazione di Hawking

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Correva l’anno 1974 quando Stephen Hawking diede il suo contributo più significativo alla fisica teorica e all’astrofisica, dimostrando che i buchi neri non sono poi così “neri”. Maneggiando mirabilmente relatività generale e teoria quantistica dei campi, il fisico britannico appurò che i buchi neri possiedono entropia, e pertanto emettono radiazione secondo i principi della termodinamica. L’emissione di luce e particelle da parte dei buchi neri prende il nome di “radiazione di Hawking”.

Per capire come si produce questa radiazione bisogna pensare che, a causa del principio di indeterminazione quantistica, le fluttuazioni di energia dello spazio vuoto possono essere molto elevate: tanto elevate da produrre coppie particella-antiparticella, che normalmente scompaiono in tempi straordinariamente brevi. Quando questo accade in prossimità dell’orizzonte degli eventi di un buco nero – cioè il “punto di non ritorno”, oltre il quale qualunque cosa viene inevitabilmente inghiottita dal mostro cosmico – una delle due particelle (quella a energia negativa) può attraversare l’orizzonte degli eventi e l’altra (a energia positiva) rimanere nello spazio esterno; tutto questo prima che la coppia scompaia nel nulla. Le particelle e i fotoni “superstiti” costituiscono una vera e propria radiazione che si allontana dal buco nero.

Sfortunatamente, questa teoria è quasi impossibile da dimostrare per via diretta – cioè osservando i buchi neri – perché la radiazione emessa è talmente debole da non essere misurabile dagli strumenti attuali. Nel 1981, tuttavia, William Unruh, fisico alla University of British Columbia, mostrò che  le stesse equazioni che governano il meccanismo di Hawking si possono applicare anche alle onde sonore in particolari fluidi. Ecco quindi un modo indiretto per verificare la teoria di Hawking: si prende un fluido opportuno, si predispone in modo che “imiti” un buco nero, e si osserva se accade qualcosa di analogo alla radiazione di Hawking.

È quello che ha fatto Jeff Steinhauer, ricercatore al Technion di Haifa, in Israele: i risultati sono stati pubblicati nei giorni scorsi con un articolo su Nature Physics. Dopo cinque anni di duro lavoro, lo scienziato ha osservato l’equivalente della radiazione di Hawking in un fluido formato da atomi di rubidio portato estremamente vicino allo zero assoluto. A questa temperatura, l’insieme degli atomi di rubidio si comporta come un unico “oggetto quantistico” su scala macroscopica: è quello che i fisici chiamano condensato di Bose-Einstein.
Per trasformare il rubidio nell’analogo di un buco nero, Steinhauer ha usato due laser: uno serviva per confinare il fluido in una forma a tubo lungo e stretto; l’altro per accelerare il tutto in modo che all’interno di una certa regione si muovesse a una velocità superiore a quella del suono nel fluido stesso. Il confine tra le due regioni rappresenta l’orizzonte degli eventi di un buco nero. Insomma, l’apparato di Steinhauer è una sorta di “buco nero sonoro”, perché intrappola le onde sonore, invece che quelle luminose.

Il problema di questo metodo è che, calcoli alla mano, produce una “radiazione di Hawking” troppo debole per poter essere misurata. Serviva un modo per amplificarla. Steinhauer ha quindi creato nel suo fluido un secondo “orizzonte”, e ha fatto sì che soltanto nella regione tra i due “orizzonti” il condensato si muovesse più rapidamente della velocità del suono. Per inciso, in questo modo il fluido di rubidio si comporta come un buco nero carico elettricamente: si pensa infatti che buchi neri di questo tipo abbiano al loro interno un secondo orizzonte, che in gergo si chiama “orizzonte di Cauchy”.
Le onde sonore rimangono così intrappolate nella regione tra i due orizzonti, rimbalzando continuamente tra essi. Questo le fa entrare in risonanza e, in definitiva, aumentare di ampiezza. Poiché la loro energia è negativa, per mantenere costante l’energia totale del sistema ci sarà un aumento di onde sonore (a energia positiva) emesse fuori dal primo orizzonte. In altre parole, la presenza del secondo orizzonte ha l’effetto di amplificare la “radiazione di Hawking”. Gli studiosi ritengono che lo stesso meccanismo avvenga anche nei buchi neri carichi elettricamente.

Con questo accorgimento, Steinhauer ha potuto effettuare quella che secondo molti è la prima osservazione diretta della radiazione di Hawking in un analogo di un buco nero. «Questo ci dice che il meccanismo di Hawking avviene davvero in natura», commenta lo scienziato israeliano. «Se questo meccanismo funziona in un sistema, probabilmente lo farà anche in altri.»
La reazione della comunità scientifica è stata davvero entusiasta. «Questo è un lavoro davvero notevole», dichiara Daniele Faccio, fisico alla Heriot-Watt University a Edimburgo, in Scozia. «Penso sia corretto dire che ora vediamo per la prima volta una chiara prova del meccanismo di Hawking.» Aggiunge James Anglin, dell’Università di Kaiserslautern, in Germania: «È uno dei più grandi progressi mai effettuati nello studio della radiazione di Hawking».

Lievemente più cauto si mostra Unruh: «Non direi che il caso è chiuso, ma è probabile che siamo quanto mai vicini a risolverlo», sostiene. «Naturalmente un buco nero è diverso da un condensato di Bose-Einstein, e mostrare che il fenomeno avviene in un condensato non dimostra che accada anche nei buchi neri. Comunque – conclude il fisico canadese – questo aumenta senz’altro la fiducia nel fatto che le cose stiano effettivamente così.
La teoria e i risultati dell’esperimento sono troppo simili perché si tratti di una semplice coincidenza.»


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