L’ultimo sguardo, di muta complicità, tra Ulisse e Argo ha
attraversato i secoli. Il rapporto di intima simbiosi che si stabilisce
talvolta tra uomo e cane è stato fin da allora oggetto di molte riflessioni, di
libri interi, di famosi film.
Di
recente Carlo Zanda ha raccolto in un volume (Una misteriosa devozione , Milano 2014) le storie di scrittori e
dei loro “molto amati” cani: Goffredo Parise e Petote, Alberto Asor Rosa e
Pepe, Edmondo Berselli e Liù, Franco Marcoaldi e Baldo, Raffaele La Capria e
Guappo, Danilo Mainardi e Orso…
Per ultimo – ma di certo non ultimo – arriva oggi in
libreria un volumetto di Giuseppe O. Longo, scrittore ben noto per altre,
molteplici e ardue creazioni, un libro snello ma denso e pregnante dedicato al
suo bassotto dal nome storico e altisonante di Alcibiade (Alcibiade. Una suite per bassotto, Il Cerchio editore, 2015).
Scrivere del proprio pet è impresa sempre difficile. Difficile evitare
i tranelli della retorica corriva, del
sentimentalismo, delle sdolcinatezze. Difficile mantenere l’equilibrio e
l’oggettività necessari alla narrazione: al punto che i libri di argomento
“canino” o “gattale” sono diventati quasi un genere letterario a sé stante, con
immagini simili mescolate a riflessioni egualmente simili perché, alla fine,
che cosa si può dire di un rapporto che è reciproco ma anche univoco, che cosa
si può dire di un amore che non conosce tradimenti, come si può far capire ai
più un sentimento raro e di per sé
inspiegabile?
Diverso è il caso di "Alcibiade. Una suite per bassotto", dice il sottotitolo, ed
è un segnale indicatore: della suite infatti lo scritto ha la segmentazione (i
titoli “in ripresa” che legano il passaggio dall’uno all’altro argomento),
l’eleganza e la leggerezza. Si presenta come un diario o meglio una serie di
appunti presi in tempi diversi, “frammenti di un discorso amoroso” che non si
cura di nascondere sentimenti ed emozioni: ma con un ritmo di ballata, o,
appunto, di suite e con uno stile sorvegliato, ma ricco e fervido, all’altezza,
si potrebbe dire, dell’illustre protagonista canino. Dunque, Alcibiade.
“Pelliccia fulva e ondulata dalla punta festonata della coda sontuosa… fino
all’estremità appuntita del muso”. Alcibiade descritto in ogni singolo
particolare fisico, in ogni movimento o
abitudine, dai baci ai leccamenti ai piccoli morsi innocui, al modo di mangiare
(schizzinoso, da viziato), ai comportamenti : è un severo cane da guardia,
abbaia a gran voce nonostante la piccola mole, è coraggioso ma anche fifone (ha
paura delle oche, delle galline e delle vespe, batte in ritirata davanti a
mosche e mosconi!), e via dicendo.
Longo non rifugge affatto dai luoghi comuni, anzi li
ostenta, ma in un modo che suona affettuosamente
ironico. Ovviamente Alci (così per gli
amici) è “prezioso unico irripetibile”, naturalmente Alci capisce le parole e
le frasi, “è evidente “ che Alci è il bassotto “più bello del mondo” e “non confondiamo gli altri cani con i
bassotti, per favore”. E’ anche vero che la matematica non sembra entrargli in
testa e questo per lo scienziato Longo è duro da ammettere, ma una bella
passeggiata insieme è sufficiente a ristabilire l’equilibrio. Alci torna ad
essere “un bassotto formidabile” e poi “preferisco un cane affettuoso piuttosto
che sapiente”. Così i “conti” tornano
davvero.
La vita di questo amatissimo e sorvegliatissimo cane (ma è poi un cane? O è il
fratello di pelo di Luca, il figlio dell’autore?) è tuttavia costellata di
avventure che sono, per il suo padrone, causa di grandi spaventi e incubi
notturni: la spiga penetrata nell’orecchio, che può portare a morte sicura, la
caduta nella foiba carsica e il fortunoso salvataggio ad opera dei pompieri… (ma
se la spiga non fosse stata tolta? se i pompieri non fossero giunti in tempo?).
Intanto gli anni passano e, si sa, la vita di un cane non è lunga, si può
prevedere la sua morte. Ed ecco dove la suite rivela il suo tema in minore, il sottofondo
malinconico della melodia. In realtà, su tutto il libro incombe l’ombra della
morte. Un’ombra sfumata che si fa sempre più cupa, che si annida nelle
digressioni, nei pensieri sfiorati e subito rimossi durante questo cammino
percorso “fianco a fianco” per un tratto che è sempre troppo breve.
Il libro non si conclude con la morte di Alci e questo è già un sollievo per il
lettore. Ma l’ombra incombe sempre più
oscura mentre l’autore descrive, con precisione e limpido coraggio, il suo cane
che invecchia e si chiude al mondo anche se non all’amore per il suo padrone.
Alci ha ormai quasi diciassette anni (centoventi nel conteggio “umano”), non
abbaia quasi più, dorme molto, è sordo, ha gli occhi velati e con quello
sguardo appannato “mi guarda… come cercando una spiegazione per questa nuova
debolezza, ma io non so dargliela”.
Per gli animali come per l’uomo la verità è la stessa, non
ci sono escamotage, la meta è unica
ed è la morte. Non ci sono spiegazioni. Ma Alci esce dal nostro orizzonte
visivo con due immagini, nonostante tutto , consolatrici. La prima è un sogno
in cui il primo impatto – in sé spaventoso – si trasforma in un gesto di
estrema delicatezza: “il leone si avvicinava ad Alci, apriva la bocca e lo
prendeva delicatamente tra le fauci per trasportarlo in un luogo sicuro”.
L’altra immagine è un atto di amore – l’unico ormai concesso – e rappresenta il
padrone che trasporta il suo cane che più non cammina, lo porta su e giù per le
scale stringendo “il suo corpo tenero e caldo”. Alci è vivo e ha fiducia in
lui. Questo solo conta, adesso che il tempo sta per scadere. Vivo scattante ed energico vuole ricordarlo
il suo padrone mentre lo porta in braccio sapendo che la meta ormai è quel
“luogo profondo e smemorato dove dormono i bassotti”.
Alcibiade, anche noi vogliamo ricordarti vivo, tenero e caldo e non vogliamo
piangerti. Sei amato, sei al sicuro. E la tua suite è bellissima, devi esserne
fiero.
di Maria Grazia Ciani