Quattro punti, riguardanti l'epidemia di SARS-CoV-2, su cui non si è sufficientemente insistito; quattro punti che potrebbero aiutare a ricordare fatti acquisiti di cui non si parla e fare alcune ipotesi ragionevoli che potrebbero aiutare a ricondurre l’atmosfera nei limiti della naturale attenzione richiesta.
Nell'immagine: immagine al microscopio elettronico a trasmissione del nuovo coronavirus, isolato da un paziente negli Stati Uniti. Crediti: NIAID/Flickr. Licenza: CC BY 2.0
L’articolo del 9 febbraio "2019 n-CoV: dobbiamo proteggerci anche dall’infodemia" aveva come bersaglio i limiti dell’informazione sul problema dell’attuale emergenza, ed è stato evidentemente gradito, giudicando dal numero di letture. È stato persino tradotto in cinese: un unicum, crediamo, per gli articoli di Scienza in rete (chi avesse interesse può consultare la traduzione qui vicino).
Abbiamo deciso di scrivere questo commento perché, dal momento in cui abbiamo scritto il nostro articolo, non sono affatto diminuite le interpretazioni incompetenti, e i fattoidi di vario genere su tutti i canali mediatici e televisivi, ed è semmai aumentata l’atmosfera d'isteria generale: soprattutto per le continue oscillazioni tra esagerazioni della gravità della situazione corrente e sottovalutazioni di ciò che sta accadendo e accadrà nel prossimo futuro. Ci sembra pertanto necessario ricordare alcuni fatti acquisiti di cui non si parla e fare alcune ipotesi ragionevoli: pochi punti che potrebbero aiutare a ricondurre l’atmosfera nei limiti della naturale attenzione richiesta. Ecco quindi un breve elenco.
1. Non è vero, come si continua ossessivamente a dichiarare, che al momento non esistono composti in grado di ostacolare SARS-CoV-2. Almeno due composti - uno è il remdesivir, farmaco antivirale ad ampio spettro, l’altro è la clorochina, che è il più usato farmaco antimalarico- inibiscono con differenti meccanismi d’azione l’abilità del virus di portare a morte colture cellulari umane: è un effetto, come si dice , in vitro, che normalmente deve essere validato con molteplici trial clinici, ma che, sulla scorta delle informazioni di tossicità già disponibili per il fatto che questi due composti sono già stati usati su uomo, in questa situazione di emergenza ha portato ugualmente alla sperimentazione su alcuni pazienti. Il primo paziente statunitense, un 35enne di Seattle in grave stato di insufficienza polmonare, è stato trattato, e guarito, con il remdesivir. Il farmaco è stato messo a disposizione dei medici cinesi, e dalle risposte che se ne hanno, sta avendo un eguale effetto positivo. Da quanto si è potuto capire, il farmaco è stato inoltre usato anche per i due pazienti cinesi che sono guariti dopo il lungo ricovero allo Spallanzani, per quanto in associazione con altri presidi terapeutici.
Ora, queste notizie sono sicuramente note agli esperti che si alternano sulla stampa e nei canali televisivi: rimane quindi incomprensibile come mai, pur se la prudenza è di rigore, non si dia maggior spazio alle notizie sulle terapie sperimentali per SARS-CoV-2. Non si contribuirebbe, dichiarando che qualcosa di più che promettente c’è, a diminuire l’atmosfera avvelenata di questi giorni?
C’è anche spazio per un commento sulla clorochina, l’altro farmaco in sperimentazione contro il coronavirus. Per il momento, come uno di noi ha ricordato, i dati ottenuti su circa 100 pazienti in Cina sembrano confermare un’efficacia della clorochina contro il virus, effetto atteso sulla base di precedenti dati in vitro e in vivo e basato su un meccanismo ben noto.
Oltretutto, tutti sappiamo che la penetrazione della Cina in Africa ha assunto livelli imponenti: milioni di cinesi vanno e vengono continuamente dall’Africa. Stranamente, però, l’Africa sembra sinora scarsamente toccata da Covid-19. E questo nonostante le sue strutture igienico-sanitarie-diagnostiche non siano di certo all’altezza di quelle Europee. Ma sappiamo anche che in Africa la malaria è ancora un terribile flagello ed è noto che in Africa la clorochina è usata dovunque e largamente. E se fosse questa la ragione della attuale scarsa penetrazione del Covid-19 in Africa?
2. Giorno dopo giorno si continua a dichiarare che, qui in Italia, “il numero dei guariti” supera quello degli ammalati ancora ospedalizzati. Da cui si trae la nozione che, grosso modo, una metà degli infettati - che fortuna! - se la sarebbe cavata. Qua e là, nelle dichiarazioni degli esperti, fa sì capolino il concetto che solo una piccola percentuale degli infettati corre seri rischi, ma l’informazione è fornita invariabilmente - che sia mediocre abilità didattica? – nel modo più tortuoso possibile, in modo che nessuno può farsi un’idea della statistica reale. Ora, diciamolo chiaro e tondo: dire che il numero dei guariti è suppergiù eguale a quello dei malati -titoli da otto colonne nelle prime pagine! - è una solenne sciocchezza.
Quello che si DEVE dire è, sic et simpliciter, che molti di quelli che incontrano il virus nemmeno se ne accorgono. Di quelli che manifestano sintomi, solo una percentuale minima, forse il 2% o 3% (alla fine dell’emergenza saranno anche meno) ci lasciano le penne; un numero che certamente si vorrebbe, e dovrebbe, evitare, ma che va considerato nella sua giusta dimensione. Questa è una malattia che guarisce nella quasi totalità dei casi! Per essere ancora più chiari: non è né la febbre gialla né il vaiolo, e non è nemmeno la MERS, né la SARS (queste ultime due condizioni sono causati da altri coronavirus). Se lo si dicesse chiaramente, ribadendo il concetto che questa letalità, unita alla finora bassa probabilità di contagio individuale, produce un rischio individuale nullo per chi non si trova in zona ad alta densità di contagio. E si eviterebbero le code ai supermercati per comperare 50 scatolette di tonno, 6 flaconi di amuchina o 50 bottiglie di acqua.
Naturalmente – vedi punto 4 – non è che, considerata la presenza di altre virosi molto più letali, si debba abbandonare ogni precauzione e lasciare libero il virus di fare il suo lavoro; tuttavia, certamente lasciare che il panico scateni comportamenti irrazionali e inutili favorisce la propagazione del virus, perché, per esempio, causa spostamenti non necessari e un aumento di contatti fra portatori e popolazioni non ancora esposte.
3. C’è un altro punto molto importante, poco e male discusso sui media nazionali: quando è iniziato il “dramma” Covid-19 in Italia? Per circa un mese ci siamo cullati nell’idea che, vabbè, c’era questa noiosa cosa che era arrivata in gennaio dalla Cina, che avremmo dominato con alcune draconiane misure che avrebbero solo dato fastidio ai nostri rapporti con la Cina (per carità di patria sorvoliamo sugli aspetti tecnici delle suddette misure). Ma siamo sicuri di non aver chiuso le stalle quando i buoi già erano scappati?
L’idea non è peregrina e della possibilità di recente si è incominciato a parlare, meglio sarebbe dire a sussurrare, fra gli esperti. Un’ipotesi, come la si è definita. Però da pochi giorni qualcosa di non ipotetico, ma di reale, è inaspettatamente venuto alla luce, come uno di noi ha già avuto modo di scrivere. Cos’è successo? È successo che alla fine di dicembre in un ospedale di Piacenza (una ventina di chilometri da Codogno) si sono inaspettatamente osservate una quarantina di polmoniti anomale. A fine dicembre non c’era naturalmente ragione alcuna di pensare al coronavirus. Era un’osservazione strana, dovuta a chissà quale fenomeno non spiegabile: capita, in medicina. Questo succedeva ben prima dello scoppio dell’emergenza da Covid-19 in Cina e quindi nel mondo. Evidentemente, gli avvenimenti da febbraio in poi devono aver messo la pulce nell’orecchio di alcuni medici, che hanno deciso di analizzare il sangue degli ex-malati di polmonite, in questo caso di un secondo picco registrato circa a metà gennaio: e cosa hanno trovato? Anticorpi contro coronavirus!
A meno di un’anomala concentrazione di coronavirus da raffreddore proprio nei malati di un picco anomalo di polmonite, è quindi verosimile che le polmoniti anomale registrate tra fine dicembre e inizio gennaio siano state causate dal coronavirus; il quale, prima della fine di dicembre, vale a dire in tempi pre-allarme, era quindi già attivo in Italia. Di più: se i dati saranno confermati, tenuto conto dei tempi di sviluppo della patologia polmonare da Covid-19, e del rapporto infettati/seriamente ammalati, è giocoforza concludere che già nella seconda metà di dicembre centinaia di portatori asintomatici, o lievemente sintomatici, di SARS-COV-2 giravano molto probabilmente per l’Italia.
Alcune cose rimangono ancora da capire: una, molto importante, è la ragione della morbilità e della letalità del virus nello Hubei Cinese, che appare molto maggiore che al di fuori della Cina. È probabile che più di un fattore vi abbia concorso, a iniziare dalla carica virale cui sono stati esposti coloro che sono stati contagiati a Wuhan. Inoltre, come ha scritto molto bene l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, la letalità è un fattore che dipende anche da fattori estrinseci al virus, quali la possibilità di ricevere cure appropriate: a Wuhan, con le strutture sanitarie in crisi per la congestione causata dal gran numero di pazienti, la letalità è stata certamente aumentata rispetto anche al resto della Cina. Potrebbe anche darsi che alcuni ceppi virali siano più aggressivi, e che da noi e in altre parti del mondo siano giunte varianti meno aggressive di quella emersa a gennaio a Wuhan. Se questo sia il caso lo sapremo dall’analisi delle sequenze delle varianti del virus che sono state isolate sia da noi che altrove (in database ne sono al momento disponibili oltre 100).
4. Come abbiamo scritto, il rischio personale di avere conseguenze serie per l’infezione virale rimane basso. Il rischio a livello di organizzazione del sistema sanitario, tuttavia, è pari al rischio individuale moltiplicato da 60 milioni e passa di italiani; di conseguenza, possiamo essere certi che le strutture sanitarie, soprattutto nelle regioni più colpite e soprattutto per quel che riguarda la terapia intensiva, saranno messe duramente alla prova. Perché questo effetto sia mitigato, non c’è che una possibilità: diminuire il numero di pazienti giornalieri da ricoverare, cercando di “spalmare” il più possibile nel tempo l’infezione di nuovi soggetti.
Per farlo, oltre alle misure suggerite da ISS e OMS, tra cui il lavarci bene le mani (come un memorabile servizio illustrato del Corriere della Sera di qualche settimana fa ci ha “insegnato”), è soprattutto necessario diminuire le occasioni di contatto con soggetti portatori inconsapevoli del virus. Questo significa, se ci pensiamo bene, soprattutto diminuire la frequenza di tutti quei contatti involontari con un gran numero di estranei, di cui non ci interessa granché; e in proposito si è giustamente sottolineato il ruolo del telelavoro, della diminuzione degli spostamenti non necessari, dell’evitare gli assembramenti. Tutte indicazioni di buon senso, che non dovrebbero alla fine essere vissute come un’orribile quarantena per proteggerci da chissà quale peste, ma come una semplice diminuzione di “contatti” con estranei (ove per contatti si intende quello sufficiente alla trasmissione virale, cioè una distanza da un soggetto inferiore o uguale a due metri) utile a non sovraccaricare gli ospedali oltre quello che inevitabilmente accadrà.
Ecco; questi sono alcuni dei punti su cui non si è, a nostro parere, sufficientemente insistito, preferendo invece riempire i giornali e i media con titoli e dichiarazioni contrastanti, che arrivano persino alla lotta politica tra fazioni avverse, fatta imputando all’altra parte ritardi ed omissioni, o strumentalizzando gli occasionali dissensi fra gli esperti. Un tipo di comunicazione di cui, ribadiamo, non c’è nessun bisogno, e che può provocare solo danno, lasciando il cittadino nell’incapacità di stabilire quale sia la giusta attenzione da dedicare ad un fenomeno che ha un certo grado di rischio, e su quale sia il contesto esatto del rischio paventato dagli esperti.