In analogia con la corsa sfrenata della Regina rossa di «Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò», anche i virus mutano continuamente e indipendentemente dall'ambiente - che eventualmente seleziona una variante piuttosto che un'altra. Questo comportamento serve ai virus per tramandare il più possibile il loro genoma alle generazioni successive, che però non significa necessariamente diventare progressivamente più «amichevole» con gli ospiti umani (e non solo).
Immagine da Wikimedia Commons, rielaborazione di Scienza in rete.
Charles Lutwidge Dodgson era un genio. Magari non lui, matematico inglese ottocentesco, ma il suo alter ego, Lewis Carroll. Scrisse un paio di libri importanti, e qualcun altro in soprammercato. I libri si intitolano «Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie» (Alice's Adventures in Wonderland) e «Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò» (Through the Looking-Glass, and What Alice Found There). Il primo romanzo tratta di carte da gioco, il secondo di pezzi degli scacchi – non oso pensare cosa avrebbe inventato Carroll se avesse basato un altro romanzo sul go. In ognuno di questi libretti ci sono decine e decine di personaggi che forse Carroll aveva inventato solo per le bimbe sue amiche, ma che sono state catturati dal mondo della scienza per farne metafore, figure emblematiche, esempi e suggerimenti di come funziona la natura. Anche gli evoluzionisti si sono appropriati di più di un personaggio, e hanno usato le sue frasi per spiegare parti della teoria.
Uno di essi è la Regina Rossa, di «Attraverso lo specchio». Dunque, questa Regina può muoversi sulla scacchiera velocemente e senza sforzo, come le Regine degli scacchi. A un certo punto, nel capitolo secondo – Il giardino dei fiori parlanti – Alice la incontra mentre cerca di raggiungere una collina. A questo scopo la Regina la trascina in una corsa a perdifiato, e dopo qualche minuto le due si trovano nel posto da cui sono partite. Alice si meraviglia, dicendo che nel suo paese se si corre si arriva in un altro posto. Al che la Regina ribatte con una delle frasi più citate dei due libri «Che paese lento. Qui, invece, devi correre più che puoi per restare nello stesso posto». L’evoluzionista Leigh Van Valen usò questa frase e la situazione come metafora per la sua teoria (o ipotesi o effetto o modello o dinamica). Definita appunto «della Regina Rossa». Che, tra le altre cose, afferma che l’estinzione di una specie è una probabilità costante e non dipende dalla vita stessa della specie. La conseguenza è che queste devono continuamente modificare il proprio genoma (cioè evolversi) per riuscire a sopravvivere e non estinguersi. Questo perché altre specie corrono con loro nello stesso ambiente, e la corsa rappresenta così una specie di «competizione» per arrivare a non estinguersi. Fatte salve alcune considerazione sulla coevoluzione e sulla collaborazione tra specie diverse, questa teoria fa luce anche su molte altre dinamiche evolutive, tra cui la corsa agli armamenti tra predatori e prede, l’evoluzione del sesso, l’interazione con i patogeni e altro.
Fuor di metafora, e arrivando alla nostra situazione, questo significa che la nostra specie deve sempre più velocemente riuscire a stare al passo con (e, nelle speranze di molti, superare) la corsa forsennata del virus che causa Covid-19. Purtroppo, la disparità di velocità di evoluzione tra alcuni parassiti, i virus in particolare, e gli organismi colpiti, noi, è palese. Basti vedere le innumerevoli mutazioni che sono sorte nel giro di poco più di un anno in questa «specie» virale che ha fatto il salto da un pipistrello all’uomo. Le generazioni virali sono decine e decine di migliaia, e quella umana neppure una. Proprio le mutazioni sono oggetto, secondo me, di numerosi fraintendimenti. Il punto cruciale, su cui si discute e ci si accapiglia, è che per molti commentatori (anche esperti) queste variazioni nel genoma piuttosto semplice del virus devono portare a una specie meno letale, forse meno infettiva, certamente più «amica» della sua vittima. Quasi come un processo automatico. E non si capisce perché. Cioè, si capisce perché secondo una certa narrativa che va avanti da decenni; che afferma come, quando un parassita attacca una specie parassitata, deve arrivare prima o poi a una specie di tregua con la vittima. Tregua che implica necessariamente variazioni genomiche che portano a una miglior convivenza con l’ospite. Quindi a una minore letalità, perché – si ragiona – il virus ha «interesse» che noi rimaniamo vivi, sennò come può attaccare anche altri della nostra stessa specie e quindi diffondersi? In sostanza, si sostiene che un virus o altro parassita che attacca una «nuova» specie (nuova per lui) dopo qualche tempo diventa sempre più buono fino a diventare innocuo, come un virus del raffreddore per l’uomo. E questo accade sempre e comunque. In conclusione, mutazioni che portano a una minore infettività e/o letalità sarebbero gradite al virus e all’ospite, perché ne aumentano la presenza silente nella popolazione. Ed ecco che, visto il gradimento reciproco, queste mutazioni avvengono o avverranno e tutto si risolverà in qualche morto «sopportabile», come accade per l’influenza, o addirittura nessun morto, come avviene per il raffreddore.
Peccato che le cose non stiano così. Un virus, come ogni altro parassita, non ha «interesse» a mantenere il suo ospite vivo e vitale, se questo porta a un numero minore di suoi discendenti. Il virus, come ogni altro essere vivente, ha il solo interesse evolutivo di riprodursi il più possibile, nel più breve tempo possibile nessuna visione futura. Se questo comportasse la morte dell’ospite, peggio per quest’ultimo. Sì, ma anche peggio per il virus, mi si dice, perché in questo caso scompare anche il virus stesso. Come accade per virus estremamente letali, come Ebola o Marburg. Sono nuovi virus che hanno attaccato l’uomo saltando da una specie forestale all’invasore, e hanno ucciso centinaia di persone per la loro estrema efficacia nello sconvolgere il sistema in cui sono entrati. Un fuoco di paglia presto estinto, si spera. Perché, appunto, hanno badato a riprodursi, non a fare la pace col nemico. Ci sono però migliaia di situazioni intermedie tra Ebola e Marburg da una parte e il raffreddore o l’influenza dall’altra. Per ribadire: la fitness evolutiva del virus (è così che si misura la sopravvivenza di un essere vivente o pseudo vivente come un virus) è legata alla riproduzione, non alla tregua con l’ospite malato. E infatti, le mutazioni che sono sorte e che sono adesso diffuse in quasi tutto il mondo (chiamiamole con nomi diversi da brasiliana, sudafricana e inglese) portano in apparenza a una maggior trasmissibilità del virus, e forse in alcuni casi a una maggior letalità. Le dinamiche dell’invasione virale di un nuovo ospite non sono elementare come si dice, e si spera. Tutto dipende da molti aspetti dell’interazione: per esempio come si trasmette un parassita. Se la trasmissione avviene con metodi efficaci e poco controllabili dalla vittima, come insetti o goccioline dalla diffusione ampia e veloce, che interesse ha il virus a essere amichevole?
E qui interviene un altro aspetto importante, se guardiamo un virus dal punto di vista dell’evoluzione. Tutti pensano al virus come fosse un’entità unica e univoca, che viaggia nel mondo dei parassitati come un sol uomo, scambiandosi informazioni su quello che è meglio fare. E, ancora, si ritiene che il suo interesse supremo sia la mitica «sopravvivenza della specie». Ma, come insegna Mayr, Darwin ci ha spiegato che le specie sono fatte di popolazioni, e le popolazioni di individui. Ognuno dei quali fa di tutto, egoisticamente, per riuscire a trasmettere il proprio genoma alle generazioni successive. E se questa trasmissione veloce ed efficace avviene a discapito degli altri virus e ceppi di virus, ben venga. Concorrenti in meno. E infatti la variante che si sta diffondendo più velocemente anche in Italia sta superando la variante classica (che poi, classica non lo è, perché differisce dal wild type proveniente probabilmente dalla Cina). La corsa a non estinguersi della Regina rossa avviene anche tra ceppi e famiglie di virus, non solo tra noi e loro. Per finire, la sopravvivenza della specie come interesse sommo… della specie è uno di quei concetti che si trascinano almeno dagli anni Cinquanta, se non prima, e che la moderna biologia ha cercato di distruggere con convincenti spiegazioni teoriche. Purtroppo, l’idea continua a rispuntare come le teste dell’Idra di Lerna, ed è quasi impossibile da eradicare.
Infine, perché si dice che dobbiamo diminuire la diffusione e la presenza dei virus, a causa del pericolo di ulteriori mutazioni? E perché si afferma che alcune di esse sono derivate dalla presenza del virus in pazienti trattati con anticorpi? Sembra, a una prima analisi, che siano gli anticorpi stessi a causare le mutazioni. Non è così. Le mutazioni (fatte salve alcune particolarità del genoma) avvengono sempre e comunque, indipendentemente dall’ambiente in cui questi virus vivono. Sono mutazioni che portano a una maggiore letalità, a una minore aggressività, a una superiore capacità di diffondersi o di resistere al sistema immunitario dell’ospite. Le mutazioni stesse sono poi selezionate dall’ambiente, non causate dall’ambiente stesso. Gli anticorpi fanno cioè da agente selettivo successivamente, ed esercitano una pressione evolutiva sui virus selezionando positivamente («facendo passare») le mutazioni che consentono al virus di sfuggire agli anticorpi. Se ci sono in giro molti virus, perché la diffusione non è stata ostacolate e le popolazioni o i ceppi di virus sono numerosi, la probabilità di mutazioni (di qualsiasi tipo) si alza; per il semplice motivo che ci sono più virus che mutano, non perché ne sorgano di più in risposta alla presenza di anticorpi. O addirittura che insorgano più mutazioni mirate a sfuggire al pericolo costituito dagli anticorpi. La necessità di diminuire il numero di virus è così solo per impedire la nascita di altre mutazioni.
Queste e altre incomprensioni non sono solo sfizi teorici di qualche evoluzionista o genetista che si occupa di virus. Hanno conseguenze importanti anche nella comunicazione e nei provvedimenti di politica sanitaria. Se si dice che «prima o poi il virus diventa innocuo», l’impulso è smettere le mascherine e considerare ben più che sufficiente una campagna di vaccinazione che sta andando a singhiozzo. Aspettare che il virus divenga buono, e non ostacolare con ogni mezzo la sua diffusione, è il modo migliore per apparecchiare la tavola per una presenza endemica, ma non certo amichevole, del virus.