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L'idea di un robot che aiuta gli umani nelle loro mansioni affonda le sue radici in tempi antichissimi, nel golem della mitologia ebraica, negli automi che aiutavano il dio Efesto nella mitologia greca. In molti casi, il mito è condito dalla minaccia che i robot rappresentano, che diventa un tema predominante durante il XX secolo. Nel dramma fantascientifico in cui è utilizzato per la prima volta il termine robot, "RUR" ("Rossumovi univerzalni roboti", o "I robot universali di Rossum", dello scrittore ceco Karel Capek, 1920), robot umanoidi e di materia organica si ribellano agli umani e li sterminano. Ci vuole l'opera di Isaac Asimov per allontanarsi da questa visione e rappresentare i robot non solo come strumenti utili ma anche, molto spesso, dotati di personalità e capacità di apprendere, in grado di rapportarsi con gli umani in contesti diversi (si pensi, ad esempio, al racconto del 1940 "Robbie", che narra di un robot baby-sitter, o "Il segregazionista" del 1967, in cui invece il robot fa il chirurgo).
Oggi siamo sicuramente più vicini a quest'ultima rappresentazione. E, oltre a creare robot che funzionino come strumenti di fatica, da utilizzare come macchine capaci di manipolare il mondo fisico, molti sforzi della ricerca in robotica sono dedicati alle loro competenze sociali, così da creare prodotti in grado di relazionarsi con noi. È, questo, un punto inserito anche tra le grandi sfide della ricerca nel campo della robotica elencate dalla rivista Science Robotics:
Un'interazione sociale [dei robot] che comprenda le dinamiche sociali umane e le norme morali, e che possa realmente essere integrata nelle nostre vite mostrando empatia e comportamenti naturalmente sociali
Perché un robot sociale
Al di là dell'immaginario sempre meno fanta- e sempre più scientifico di Asimov, gli studi sui robot sociali non si concentrano solo nella creazione di uno strumento che ci sollevi dalle quotidiane mansioni domestiche o che, come già avviene ad esempio in India e in Giappone, prenda il posto dei camerieri o dei commessi (con tutto il dibattito sulla perdita dei posti di lavoro che ne consegue). La ricerca si è piuttosto concentrata su modelli e prototipi con applicazioni per l'assistenza agli anziani, l'apprendimento nell'infanzia e il trattamento dei disturbi dello spettro dell'autismo. Si parla infatti di robotica di assistenza sociale (socially assistive robotics), definita in un articolo di Science Robotics pubblicato ad agosto (in un numero dedicato proprio a questo tema) come quel ramo della che aspira ad aiutare e migliorare il lavoro di educatori, genitori, infermieri o badanti e medici combinando diversi campi di ricerca.
Sembra paradossale che situazioni complesse tanto dal punto di vista medico quanto da quello emotivo possano essere alleviate da una fredda intelligenza artificiale in corpo umanoide. Diversi gruppi di ricerca hanno però dimostrato che molti individui affetti da disturbo dello spettro autistico, caratterizzati dalla difficoltà di comprendere i segnali sociali e gli stati emotivi altrui, interagiscono bene con i robot. Questo sembra essere dovuto in parte al fatto che i robot vengono percepiti, da parte di chi soffre di disturbi dello spettro autistico, come meno problematici rispetto agli esseri umani; riescono così a stimolare l'attenzione, soprattutto nei bambini (su cui è concentrata la maggioranza degli studi), senza metterli in difficoltà con i complessi comportamenti sociali che ci sono tipici.
Questo "buon rapporto" tra chi soffre di disturbi dello spettro autistico e i robot può essere sfruttato per fornire un supporto personalizzato e al bisogno che si sta dimostrando in grado di migliorare le competenze cognitive e sociali degli individui malati, ovviamente sempre seguiti anche dai terapisti. In particolare, i robot sociali sono stati impiegati per alcuni difetti specifici dell'autismo. Tra questi, ad esempio, il contatto visivo, il riconoscimento delle emozioni (sia attraverso la gamma limitata di emozioni che un robot può mostrare, sia attraverso giochi sviluppati a questo scopo) e la joint attention (o attenzione congiunta), ossia la capacità di coordinare l'attenzione su un evento o un oggetto seguendo i gesti (un dito puntato, lo sguardo, la postura) di un'altra persona. Inoltre, i robot sono usati anche per stimolare l'imitazione, che nella terapia dei disordini dello spettro autistico incentiva una maggior consapevolezza corporale e il senso di sé e facilita la presa d'iniziativa per iniziare un'interazione. In questo senso, i robot possono sollecitare l'imitazione o farla sviluppare in modo più spontaneo attraverso un gioco. E, aspetto fondamentale, le capacità apprese con i robot possono essere trasferite nel contesto dell'interazione con gli esseri umani.
Non solo in malattia
Tra le applicazioni dei robot sociali indagate dai ricercatori vi è anche l'apprendimento. Tra gli articoli pubblicati nel numero di agosto di Science Robotics vi è infatti uno studio su come la lettura possa trasformarsi da momento dinamico e sociale quando eseguita in compagnia di un robot. I ricercatori Joseph Michaelis e Bilge Mutlu, dell'University of Wisconsin (il primo del dipartimento di Educational Psychology, il secondo di Computer Sciences) hanno seguito per due settimane 24 ragazzi di età compresa tra i 10 e i 12 anni durante attività di lettura guidate da un robot o da un testo, osservando maggior motivazione e comprensione in chi era stato assistito da un robot.
Forse non ha il fascino di un classico circolo di letteratura tra amici ma è comunque un'indicazione di come i robot possano trovare spazio nell'apprendimento nell'infanzia. Anche la scelta dell'attività specifica della letteratura ha un suo valore: come ricordava un articolo di The Conversation, la percentuale di giovani che legge abitualmente è crollata in modo drastico rispetto agli anni Ottanta. Un problema non solo per la carta, ma anche per il pensiero critico, la capacità di distinguere tra realtà e finzione e analizzare temi complessi.
Cocktail di competenze per la nostra complessità
Sebbene vi siano molti robot già disponibili sul mercato o in fase di lancio, anche con prezzi relativamente contenuti per renderne l'acquisto più accessibile, la ricerca di robotica sociale deve confrontarsi con una difficoltà aggiunta rispetto ad altri campi: la nostra incredibile complessità di esseri umani. Un robot che lavora con noi (o per noi) in casa, in un ospedale o una scuola non è un braccio meccanico in una fabbrica. Deve invece essere in grado d'inserirsi in quel complicato modello di segnali sociali che ci caratterizzano e che sono spesso specifici per ciascuno di noi, che variano con il contesto ambientale in cui ci troviamo e con la nostra cultura, difficili da quantificare e per i quali è arduo costruire schemi univoci.
Pensiamo all'enorme mole di informazioni che con gesti, tono di voce, sguardi, postura, ci scambiamo anche nell'interazione più semplice: il robot deve imparare a identificarli e reagire di conseguenza, seguendo al contempo norme morali e sociali.
Proprio a causa di questa complessità, la ricerca sulla robotica sociale non è limitata al campo dell'ingegneria; è, invece, caratterizzata dalla multidisciplinarietà. Intelligenza artificiale (soprattutto machine learning) e ingegneria si devono unire alle competenze di medicina, psicologia, neuroscienze e anche alle scienze tradizionalmente meno "dure", come quelle cognitive e sociali o la linguistica. A queste si devono aggiungere tutti i campi del sapere che permettano di affrontare le questioni etiche e legali. Questo incrocio di discipline, scrivono gli autori dell'editoriale del numero di agosto di Science Robotics, fa sì che le scoperte e i risultati degli studi tendano ancora a essere comunicati separatamente nelle diverse comunità di competenza, facendo apparire frammentaria l'evoluzione della ricerca.