Questa formazione rocciosa nei pressi di Big Bend (Texas) mostra l’evidente alternarsi di strati di scisto e calcare sul fondo marino durante il tardo Cretaceo. In questi strati è racchiusa la registrazione di 87 milioni di anni di reciproca interazione orbitale tra Marte e la Terra in grado di influenzare il clima del nostro pianeta. (Crediti: Bradley Sageman, Northwestern University)
Agli attenti osservatori del cielo dei tempi antichi non era sfuggito lo strano comportamento di alcuni astri. Per il loro apparente vagabondare sulla volta celeste i greci li chiamarono pianeti, astri erranti. Fino al XVII secolo, però, la vera natura del loro moto rimase oscura e ci pensò Johannes von Kepler, tra il 1609 e il 1618, a formulare le tre leggi che governano quel vagabondare e che portano il suo nome. Il senso profondo di quelle leggi divenne finalmente chiaro nel 1687 grazie all’immenso contributo di Isaac Newton e alla sua legge della gravitazione universale annunciata nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.
Bisogna ricordare che a quei tempi la conoscenza di quanto fosse grande la famiglia del Sole era largamente incompleta. Limitandoci agli oggetti più significativi, Urano venne scoperto nel 1781, Cerere nel 1801 – seguito a ruota da un numero sempre crescente di pianetini – e Nettuno nel 1846. Per Plutone si dovrà addirittura attendere il 1930 e solo dal 1992 si ebbe la prova osservativa che al di là di Nettuno orbita un gran numero di oggetti ghiacciati, alcuni con dimensioni paragonabili allo stesso Plutone.
Calcolare le orbite
Gli strumenti matematici resi disponibili da Newton e Leibniz – il cosiddetto calcolo sublime – e magistralmente applicati da Joseph-Louis Lagrange ai problemi planetari resero possibile la nascita e lo sviluppo della “meccanica celeste”, strumento infallibile nel calcolo di precise effemeridi. Rimanevano comunque molte ombre. Lo studio analitico di un sistema di orbite, infatti, diventava praticamente impossibile (tranne alcune fortunate configurazioni) quando i corpi in gioco erano più di due. L’analisi del moto della Luna, per esempio, tenne impegnato lo stesso Newton per molto tempo e senza che ne venisse a capo. Era l’arduo problema dei tre corpi, che tenne impegnati fior fiore di matematici e che si affrontava ricorrendo alla teoria delle perturbazioni, cioè sovrapponendo l’influenza di un terzo corpo al moto risultante dalla reciproca azione dei primi due. Solamente nel 1887 il grande Henri Poincaré dimostrò la mancanza di soluzioni analitiche generali e ne risolse la versione da lui definita “ristretta”.
Nonostante questi problemi, la meccanica celeste era comunque perfettamente in grado di descrivere con successo il percorso dei corpi celesti. Pur con lo zampino di un po’ di fortuna, infatti, fu proprio la meccanica celeste la protagonista nella caccia allo sconosciuto pianeta che lasciava le sue tracce nell’orbita di Urano. Furono i calcoli di Urbain Le Verrier (a Parigi) e di John Couch Adams (a Cambridge) che nel 1846 misero Johann Gottfried Galle (a Berlino) nelle condizioni di individuare Nettuno.
Rimaneva l’incertezza sulla profondità temporale alla quale una simile descrizione potesse spingersi. Un problema che non è solamente il frutto naturale di una viva curiosità intellettuale, ma che finisce col coinvolgere aspetti concreti e tutt’altro che marginali. Basti pensare a come, considerando il cammino della Terra intorno al Sole, ci si trovi inevitabilmente indirizzati a dover considerare le conseguenti pesanti ricadute delle variazioni di questo moto sul nostro clima.
Lo scherzo delle risonanze
La scoperta di un numero sempre crescente di nuovi inquilini del Sistema solare in orbita tra Marte e Giove, in quella che viene chiamata Fascia principale degli asteroidi, indusse gli astronomi a considerare le loro dinamiche. Nel 1866 l’astronomo statunitense Daniel Kirkwood individuò l’esistenza di vere e proprie lacune nella distribuzione dei semiassi maggiori delle orbite degli asteroidi. Confrontando i periodi corrispondenti a queste lacune con il periodo orbitale di Giove, l’astronomo ipotizzò la presenza di effetti di risonanza tra le orbite. Praticamente, il costante ripetersi nel lungo periodo di identiche configurazioni orbitali produrrebbe a lungo andare sostanziali modificazioni dell'orbita originaria. Nel caso degli asteroidi, insomma, la stabilità delle orbite sul lungo periodo verrebbe minata dalla longa manus di Giove.
Nel grafico viene rappresentato il numero di asteroidi in funzione della loro distanza media dal Sole. Le regioni che mostrano un impoverimento di asteroidi, le cosiddette “lacune” individuate da Kirkwood, spesso coincidono con la presenza di risonanze orbitali. (Crediti: Alan Chamberlain, JPL/Caltech)
L’ipotesi venne ripresa e approfondita negli anni Ottanta del secolo scorso, periodo caratterizzato da un notevole aumento di interesse intorno alle problematiche legate allo studio degli asteroidi, fino ad allora considerati in modo abbastanza marginale. La scoperta di asteroidi caratterizzati da orbite che li conducono ad avvicinarsi e persino a incrociare l’orbita terrestre (i cosiddetti NEO, Near Earth Asteroid) fece sì che nelle analisi dinamiche diventasse necessario considerare attentamente tali orbite potenzialmente pericolose e approfondire i meccanismi responsabili della loro evoluzione. Oltre alla risonanza di moto medio individuata da Kirkwood presero corpo anche altre tipologie di risonanza, molto più sottili ma altrettanto efficaci nell’intervenire sulle orbite.
L’impiego di efficaci simulazioni computerizzate cominciò a rendere possibile lo studio dell’evoluzione di un sistema dinamico per tempi significativi, in grado di cogliere sul fatto la dirompente azione delle risonanze. Tra i risultati più significativi di questa svolta è opportuno segnalare il Progetto LONGSTOP (LONg–term Gravitational STudy of the Outer Planets), un consorzio internazionale di esperti di dinamica planetaria che, grazie al calcolo numerico, provò a sondare la stabilità del Sistema solare più esterno su tempi dell’ordine di 100 milioni di anni. Dall’analisi emerse qualche curiosa relazione dinamica tra i pianeti più esterni, ma nulla che in qualche modo potesse far pensare a un sistema dinamicamente instabile.
La tenuta del Sistema solare
Ancora più ambizioso fu il progetto del Digital Orrery realizzato al MIT nel 1989 sotto la guida di Gerry Sussman. L’impiego di un supercomputer permise di integrare le orbite dei pianeti esterni per 845 milioni di anni (circa un quinto dell’età del Sistema solare) e fu proprio nei dati della simulazione che Sussman e Jack Wisdom intravvidero i segni del caos nel moto di Plutone, dovuti principalmente alla sua particolare risonanza con Nettuno. Caos non significa anarchia delle orbite, ma più semplicemente che una minima variazione nelle condizioni iniziali può sfociare in un sistema completamente differente. Due traiettorie, entrambe plausibili per certe condizioni iniziali prestabilite, finiscono insomma per allontanarsi l’una dall’altra rendendo di fatto imprevedibile il comportamento futuro.
La scoperta spianò la strada alla legittima domanda se il caos che caratterizzava l’orbita di Plutone potesse essere un tratto caratteristico anche di tutte le altre orbite del Sistema solare. La risposta venne data nel 1996 dall’astronomo francese Jacques Laskar, allora in forza al Bureau des Longitudes di Parigi. Nel marzo di quell’anno pubblicò su Celestial Mechanics and Dynamical Astronomy un lungo studio nel quale confermava la presenza del caos nelle dinamiche dell’intero Sistema solare. Caos che, per esempio, si manifestava nelle variazioni delle inclinazioni planetarie (la Terra risultava parzialmente protetta dalla presenza della Luna), ma che sfociava sul lungo periodo in pesanti modifiche orbitali. Su tempi dell’ordine di pochi miliardi di anni, Mercurio poteva anche abbandonare la sua orbita, eliminato dal Sistema solare oppure immesso in rotta di collisione con Venere.
Qualche anno fa, Laskar e il suo collega Mickaël Gastineau hanno affrontato il problema in modo ancora più approfondito, provando a simulare direttamente 2500 possibili futuri dinamici del Sistema solare. Lo studio, pubblicato nel 2009 su Nature, ha confermato le precedenti simulazioni, ma ha fatto emergere anche alcune situazioni davvero particolari. In una ventina di casi si è registrato un così marcato aumento dell’eccentricità di Mercurio da permettere collisioni con Venere o il Sole. Ancora più sorprendente, poi, l’esito di una di queste soluzioni ad alta eccentricità: una successiva diminuzione dell’eccentricità di Mercurio indurrebbe un trasferimento di momento angolare dai pianeti giganti, con la spiacevole conseguenza che, nel volgere di poco più di 3 miliardi di anni, le orbite di tutti i pianeti terrestri verrebbero destabilizzate. Si materializza in tal modo la possibilità di dirompenti collisioni di Mercurio, Marte o Venere con la Terra.
L’animazione mostra il caos in azione nel Sistema solare e come possano cambiare le orbite planetarie nel corso di miliardi di anni, suggerendo la piccola possibilità che, in un lontano futuro, possano verificarsi collisioni planetarie. (Crediti: Jacques Laskar, CNRS)
Lo zampino del caos, però, può manifestarsi anche in modo meno distruttivo, ma non per questo meno significativo. A tal proposito, una particolare risonanza orbitale tra Marte e la Terra sembra aver giocato un ruolo chiave nel ciclico alternarsi delle condizioni climatiche che hanno caratterizzato il passato del nostro pianeta. È immediato comprendere come l’impatto dei cicli astronomici sul clima possa essere piuttosto pesante: basti pensare alle conseguenze che possono derivare da una variazione dell’inclinazione della Terra e dal conseguente mutamento nell’irraggiamento solare. Ebbene, questa particolare risonanza Terra-Marte sarebbe proprio in grado di governare simili cambiamenti. E ora ne abbiamo una prova concreta.
Una prova dalla geologia
Uno studio appena pubblicato su Nature, infatti, conferma il previsto comportamento dinamico caotico del Sistema solare e, sorprendentemente, lo fa adducendo robuste prove provenienti da analisi geologiche. Chao Ma, Stephen Meyers e Bradley Sageman, i primi due dell’University of Wisconsin di Madison e il terzo in forza alla Northwestern University, hanno infatti individuato in una formazione geologica in Colorado le tracce indelebili della particolare risonanza fra le orbite di Marte e della Terra. Le analisi geologiche hanno riguardato la Niobara Formation, una formazione geologica che attraversa tutto il Nord America ed è dovuta ai sedimenti di un antico oceano che nel Cretaceo collegava l’Oceano Artico al Golfo del Messico.
Una caratteristica saliente della Niobara Formation è l’alternarsi regolare di stratificazioni di argilla e carbonato di calcio riconducibili a due differenti origini: mentre l’argilla è dovuta al depositarsi dei fanghi trasportati dai fiumi, il carbonato di calcio lo si deve alle conchiglie dei microscopici organismi che vivevano nelle acque oceaniche. Il cambiamento climatico, però, può alterare il processo di trasporto dell’argilla e di questa influenza rimane traccia nella composizione degli strati. “Immaginate una fase climatica molto calda e umida, che favorisce il trasporto dell’argilla fluviale nelle insenature marine e origina in tal modo rocce e fanghi ricchi d’argilla” – spiega Meyers – “alternarsi a periodi di clima più secco e più fresco, nel corso dei quali viene trasportata meno argilla verso il mare, a vantaggio della formazione di rocce calcaree ricche di carbonato di calcio”.
Grazie a una meticolosa analisi stratigrafica e all’impiego di tecniche di datazione radiometrica estremamente accurate, i tre ricercatori hanno potuto ricostruire i tempi caratteristici di quell’alternarsi di sedimenti, di volta in volta più calcarei o più argillosi, scoprendo che si adattano perfettamente all’azione della risonanza orbitale tra Marte e la Terra suggerita teoricamente ed emersa dalle simulazioni computerizzate. “Altri studi hanno suggerito la presenza di caos sulla base dei dati geologici”, sottolinea ancora Mayers, “ma qui abbiamo la prima prova inequivocabile, resa possibile dalla datazione radiometrica di alta qualità e dal forte segnale astronomico conservato nelle rocce”.
In modo abbastanza singolare, insomma, la decisiva conferma della natura caotica insita nelle orbite del Sistema solare verrebbe da analisi e dati geologici, dal racconto di strati depositati nel corso di 87 milioni di anni nel remoto Cretaceo.
Per approfondire:
Contributo di Jacques Laskar (CNRS - Observatoire de Paris).
Contributo di Vincenzo Zappalà (in passato in forza all’Osservatorio di Torino) sulle risonanze