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Chi ha messo a punto il "metodo Stamina"?

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Il “padre” ucraino della tecnica Stamina è un esperto nella clonazione del baco da seta e non ha mai pubblicato nulla sulle staminali; la sua collega, autrice di due delle foto contenute nella richiesta di brevetto di Vannoni, ha firmato due soli lavori sull’argomento; l’italiana che ne ha raccolto il testimone non è nemmeno iscritta all’albo dei biologi; l’unico PhD coinvolto svolgeva solo funzioni da tecnico di laboratorio ed era tenuto all’oscuro di tutto. A patto che esista, il misterioso “metodo Stamina”, c’è davvero da chiedersi con quali competenze sia stato messo a punto. Davide Vannoni, che gli dà il nome e dice qui di averne avuto personalmente l’idea, partendo da quella “sviluppata in Russia”, è infatti, come ormai tutti sanno, un laureato in lettere, esperto di comunicazione e scienze cognitive, che si è avvicinato al mondo delle staminali come paziente prima e come imprenditore poi, ma non certo maneggiando pipette e colture cellulari.

La questione sollevata dal generale Cosimo Piccino, comandante del Nas, in Commissione igiene e sanità al Senato nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul caso Stamina, va quindi al di là dell’atto, pur legalmente molto rilevante, dell’iscrizione all’Albo dei biologi. Il punto è piuttosto capire con quali criteri si prepara quello che i detrattori considerano un intruglio e i sostenitori una cura per le malattie più disparate. E chi lo fa. Sulla base di quali conoscenze.

A quanto è dato sapere l’unica presenza costante, per gli aspetti tecnici, al fianco di Davide Vannoni in tutti questi anni è stata Erica Molino, quella che egli definisce “la nostra biologa più esperta”, ma che in realtà dovrebbe chiamare “la nostra sola biologa”. Prima che entrasse in scena il personale di Medestea, infatti, la sola persona addetta al trattamento delle cellule della Stamina Foundation era proprio lei, che appunto, come ha riferito il generale Piccino, non è nemmeno iscritta all’Albo dei biologi. L’unico altro ricercatore citato qua e là insieme alla Molino, Giuseppe Mauriello Romanazzi, nemmeno lui iscritto all’Albo, non sa nulla del trattamento: «Non ho mai avuto accesso ai protocolli» racconta. «Mi occupavo della coltura delle cellule e del loro congelamento e scongelamento, ma tutte le procedure relative al metodo Stamina a Brescia erano effettuate da Erica Molino, che quando estraeva le cellule dai prelievi ossei, preparava i terreni di coltura, o le siringhe del preparato finale da somministrare ai pazienti, si chiudeva da sola in laboratorio. Oltre a lei, solo Vannoni era autorizzato a entrare. Per il lavoro che mi facevano fare, potevano assumere un tecnico di laboratorio invece di un dottorato» conclude il ricercatore. Come è arrivato lì? «Sono stato contattato privatamente via mail da un collaboratore di Davide Vannoni» ci ha raccontato, «che non so come abbia avuto il mio nome o i miei contatti».

Quando Romanazzi riceve questa proposta di lavoro, la sua borsa presso il laboratorio di Luigi Biancone all’Università di Torino sta per scadere, e in Università non hanno altro da proporgli. L’anno prima, nel 2008, aveva fatto parte del team che ha condotto l’unico trapianto di isole pancreatiche avvenuto a Torino e il suo nome risulta nell’elenco del personale del laboratorio che avrebbe dovuto portare avanti questa attività (attualmente sospesa) anche “grazie…al contributo per l'apprendimento delle metodiche del Prof. Camillo Ricordi del Diabetes Research Institute di Miami”. Un altro punto di contatto tra Ricordi e Stamina? Questa volta sembra proprio di no. È vero infatti che tra gli autori dei lavori sulle isole pancreatiche cui ha collaborato Romanazzi, insieme con Vincenzo Cantaluppi e Luigi Biancone, c’è Camillo Ricordi. Ma a Miami Romanazzi non è mai stato, né dice di aver mai avuto contatti diretti con nessuno del gruppo di ricerca del Diabetes Research Institute and Cell Transplant Center. L’apporto del centro americano è solo quello consueto tra chiunque operi in questo settore, di cui Ricordi è un esponente di punta.

I trapianti di isole pancreatiche sono comunque anche l’argomento della tesi di dottorato di Romanazzi presso l’Università di Sassari, dal titolo: “Innovative strategies to improve pancreatic islet transplantation”, “Strategie innovative per migliorare gli esiti del trapianto di isole pancreatiche”, strategie per modulare la reazione del sistema immunitario e contrastare il rigetto. La tesi viene discussa a febbraio 2010, quando era appena iniziata la collaborazione con la Stamina Foundation, per la quale, in quel periodo, Romanazzi svolge però soprattutto ricerche bibliografiche da pubblicare sul sito.

Nel 2011, quando si apre la possibilità di introdurre il metodo agli Spedali civili di Brescia, il biologo rindossa il camice. La sua collaborazione con Stamina, mai come dipendente, continua fino al maggio 2012, quando, dopo l’ispezione dei tecnici del Ministero della salute, Agenzia italiana del farmaco, Centro nazionale trapianti e NAS, l’attività viene sospesa e da un giorno all’altro Romanazzi perde il lavoro. Da allora non è più riuscito a rientrare nel giro della ricerca, ma ha dovuto adattarsi a mille lavoretti: «Ho fatto il muratore e il piastrellista» racconta, «e sono stato assunto come stagionale per la vendemmia». Ma non rinuncia all’idea di tornare a fare quel per cui ha studiato, come accenna alla fine di questa intervista.   

«Quando cominciai a collaborare con loro, Vannoni mi mostrò immagini di immunomarcature in fluorescenza che mostravano come quelle che a prima vista potevano anche essere semplici cellule del connettivo, cioè fibroblasti, dovevano invece essere staminali mesenchimali» spiega il ricercatore. «Mi fece vedere anche analisi che sembravano dimostrare la capacità di queste cellule di trasformarsi in neuroni. Non avevo ragione di dubitare di quei risultati, che a suo dire erano stati ottenuti all’Università di Genova dove Erica Molino stava facendo il dottorato».

Questo però è un altro punto controverso. Come infatti ha dichiarato a Beatrice Mautino Ranieri Cancedda, coordinatore del corso di laurea in Biotecnologie dell’Università di Genova ed esperto di cellule staminali e medicina rigenerativa, questi esami, nei suoi laboratori, non sarebbero mai stati effettuati. Non solo. La Molino avrebbe lavorato da lui tra la fine del 2009 e la metà del 2011, il periodo che va dalla chiusura del laboratorio sotterraneo in via Giolitti all’arrivo di Stamina agli Spedali Civili di Brescia, ma poi se ne sarebbe andata improvvisamente, prima di concludere il dottorato, adducendo gravi motivi di salute. A Genova, con Cancedda, ha pubblicato il suo unico lavoro sulle mesenchimali, ma, a detta del professore, non avrebbe potuto effettuare quegli esami sulle cellule di Stamina nemmeno all’insaputa del capo. Tanto più ai tempi dell’attività a Brescia, quando non frequentava più il laboratorio.

Nata a Cuneo, la ragazza aveva cominciato a collaborare con Vannoni appena laureata all’Università di Pavia, quando ancora non esisteva la Stamina Foundation e i laboratori di quella che allora si chiamava Re-Gene erano allestiti a Torino, nell’ormai famoso seminterrato di via Giolitti. Qui la giovane avrebbe appreso dai colleghi ucraini, Elena Schegelskaya e Vyacheslav Klymenko, tutti i trucchi del mestiere e i segreti di questa tecnica segreta e miracolosa che secondo Vannoni, nel 2005, gli avrebbe permesso di recuperare il 50 per cento della conduzione nervosa al nervo facciale con quattro infusioni effettuate a Kharkov nel corso di otto mesi.

Quando Vannoni racconta la sua storia, ne parla come di una pratica consolidata, sostenuta da una robusta documentazione scientifica, a cui si è sottoposto non in un centro privato, come il laboratorio Virola presso cui operava la Schegelskaya, ma all’Università di Kharkov. E qui salta fuori una strana coincidenza di date: Klymenko riesce a ottenere che l’Università in cui lavora – che, attenzione, non è quella di medicina -- gli conceda di aprire un laboratorio dedicato allo studio di cellule staminali e germinali solo nel 2005, proprio nello stesso anno in cui decide di trasferirsi in Italia con la Schegelskaya e fondare la Re-Gene con Vannoni. Le due attività sono proseguite in parallelo? Lo scienziato faceva la spola tra Torino e Kharkov? Non si sa.

In uno scambio su Twitter con altri colleghi giornalisti, Vannoni (o chi, a suo nome, utilizza l’account @VannoniStamina) parla di Elena Schegelskaya e Vyacheslav Klymenko come di “due ricercatori molti seri e con esperienza clinica”. Almeno sull’esperienza clinica è lecito dubitare, essendo i due biologi e lavorando in un’università distinta da quella che ospita la facoltà di medicina. Vannoni sostiene inoltre che i due sarebbero autori di almeno 20 pubblicazioni sul metodo introvabili su PubMed, ma facilmente reperibili nella biblioteca dell’Università di Kharkov, su riviste universitarie. Ebbene, con una ricerca nell’archivio della rivista dell’Ateneo, il Journal of V.N.Karazin Kharkiv National University, si trovano tre lavori di Klimenko, ma nessuno che abbia a che fare con le cellule staminali mesenchimali. Molti altri suoi studi si trovano in rete, ma, anche qui, il campo di interesse del ricercatore sembra ristretto alla riproduzione e alla clonazione del baco da seta. Per questo è conosciuto, come dimostra questa mail, tra chi si occupa di questo settore della ricerca importante soprattutto ai fini dell’industria tessile, non certo a scopo medico. Ma di studi sulle staminali, neanche l’ombra.

Dalla stampa ucraina emerge che, negli anni in cui Klymenko collabora con Vannoni a Torino, il rifinanziamento biennale del laboratorio sulle staminali all’interno dell’Università si fa di volta in volta sempre più difficile, proprio per la mancanza dei risultati che si attendevano. Pubblicazioni, per esempio. Inoltre lo scienziato nel 2010 viene richiamato dai superiori per la brutta abitudine di non citare l’affiliazione dell’Ateneo nemmeno quando pubblica i suoi studi sul baco da seta. Il ricercatore, già indagato, proprio in quel periodo, a Torino nel corso dell’inchiesta su Stamina, solleva allora in Ucraina un polverone mediatico sostenendo di essere un genio incompreso, perseguitato dai vertici dell’Università, e in particolare dalla decana della facoltà di biologia, Lyudmyla Vorobyova.  Nonostante tutti i suoi sforzi, la commissione di valutazione della ricerca composta da 20 membri non si lascia convincere a rifinanziare il laboratorio, e nel 2011 decide di chiuderlo, con provvedimento che entra in vigore il primo gennaio 2012.

La produzione scientifica della Schegelskaya è ancora più scarsa. Una ricerca in rete condotta in ucraino riferisce che, oltre a collaborare con il laboratorio di Klymenko, la biologa conduceva studi sulla riparazione delle ustioni presso il Centro ustioni di Kharkov. Insieme al collega più anziano ha pubblicato studi come questoquesto, che non riguardano le staminali mesenchimali. Gli unici due pertinenti, in cui Schegelskaya e i suoi collaboratori sostengono di essere riusciti a creare neuroni partendo da cellule staminali mesenchimali di topo, sono quelli citati da Nature, uno del 2003 e uno del 2006 (quest’ultimo pubblicato quindi subito dopo l’arrivo in Italia, ma condotto in Ucraina).

La possibilità di ottenere neuroni in questo modo non è mai stata confermata dagli esperti di staminali che hanno provato a riprodurre l’esperimento. E le immagini, provenienti da questi lavori, allegate alla richiesta di brevetto di Vannoni, secondo chi l’ha respinta, potrebbero riflettere l’azione citotossica delle sostanze utilizzate, più che la trasformazione delle staminali in neuroni. Nei due lavori della Schegelskaya si va anche oltre, ipotizzando che varie malattie neurologiche, come l’ictus, il Parkinson, l’epilessia o la sclerosi multipla, potrebbero trarre vantaggio da un trattamento con le cellule staminali mesenchimali. Ne sarebbero stati trattati 53, con malattie diverse, senza dettagli su esiti e follow up.

In ogni caso, questi studi si riferiscono al metodo utilizzato dalla Schegelskaya, prima delle modifiche apportate da Vannoni e Molino. Anche volendo dar loro credito, quindi, questi due soli lavori non forniscono “dati  scientifici,  che  …  giustifichino l'uso (del metodo Stamina, ndr) , pubblicati su accreditate riviste internazionali” come recita la prima delle condizioni imposte dalla legge  Turco-Fazio del 5 dicembre 2006, spesso invocata a sostegno delle cosiddette “cure compassionevoli”. Quelli relativi al vero “metodo Stamina”, ideato da un esperto di comunicazione persuasiva con l’apporto di una giovane biologa che non ha concluso il dottorato, non sono ancora stati resi noti, né tanto meno pubblicati su “accreditate riviste internazionali”.

Twitter, dove @Vannoni Stamina insiste a ripetere che “i neuroni li facciamo davvero”, non può davvero essere considerata una di queste. Perciò, almeno, di “cure compassionevoli” smettiamo di parlare.


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