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Chi studia l'universo può andare in pensione?

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Ho risposto al telefono qualche tempo fa e ho riconosciuto la voce di una collega amministrativa che mi diceva: "Buongiorno Prof, lo sa vero che l'anno prossimo la mettiamo in pensione?" Cribbio! No, non lo sapevo. O meglio, credevo di essere un po' più lontano dalla pensione, vista la "riforma Fornero" con il suo aumento degli anni di contributi richiesti e l'adeguamento alla speranza di vita (che espressione orribile).
Ma allora sono arrivato al termine della mia vita lavorativa formale; si chiude una carriera: la mia!
Fa uno strano effetto pensare alla pen­sione quando ti dicono che ci sei proprio vicino. Fa uno strano effetto, anche se hai sempre saputo che sarebbe arrivato il momento (e addirittura negli ultimi anni con la crisi dei  conti pubblici,  ti  sei preoccupato che il momento potesse non arrivare mai!). Produce un senso di esaurimento e di esclusione, fortunatamente mitigato dal fatto che è possibile, per i ricercatori che lo desiderano, pur in pensione, rimanere nelle strutture dove si trovano - attraverso il processo eli associazione all'INAF - e  partecipare a progetti, collaborare con i  colleghi, continuare l'attività di ricerca e di divulgazione. Niente panico quindi, anzi!
Si possono cogliere le stesse opportunità (o quasi) riducendo gli aspetti meno gradevoli di un lavoro comunque privilegiato. Quando si chiude un ciclo vengono naturali alcune riflessioni. Perdonatemi quindi se questo "Orizzonte degli eventi" è un poco autobiografico.
Due argomenti mi affascinavano più di ogni altro quando ero ragazzo. Come funziona il cervello e come funziona l'universo. Per cercare di rispondere alla prima domanda, il percorso prevedeva studi di medicina; per la seconda, di fisica. Troppi erano gli argomenti di medicina che non m'interessavano, mentre la fisica mi piaceva quasi tutta. Dunque mi iscrissi al corso di laurea in Fisica; era il 1970. Dopo  la laurea ho colto le prime occasioni di far ricerca dove si presentavano: prima in Inghilterra, poi in Italia e poi, con un lungo soggiorno, negli Stati Uniti.
Un percorso dettato ora da eventi casuali, ora dalla determinazione di riuscire a fare quel­lo che allora mi piaceva: astronomia X e astrofisica delle alte energie. Gli anni negli Stati Uniti, a Cambridge (Massachusetts), sono stati indubbiamente i più belli e fer­tili; l'ambiente gradevole, competitivo e stimolante; il momento particolarmente fortunato: il gruppo di astrofisica  del­le alte energie era guidato da Riccardo Giacconi (che alcuni anni dopo avrebbe ricevuto il premio Nobel per la Fisica) e aveva appena messo in orbita l'Osserva­torio Einstein, un telescopio che avrebbe rivoluzionato l'astronomia X dotandola della capacità di focalizzare la radiazione e ottenere le prime vere immagini di una moltitudine di oggetti celesti.

Ho poi capito come funziona l'universo? Onestamente no e quasi mi verrebbe da dire che è successo il contrario, e cioè che ne capisco meno di prima!
Ho un'attenuante: man mano che lo stu­diavo, l'universo diventava sempre più complesso. Ne sono convinto; quando ero studente era certamente  più "semplice" di quanto non ci appaia ora. La scoper­ta della radiazione fossile aveva da poco consacrato definitivamente il modello del Big Bang (anche se c'erano ancora alcuni irriducibili sostenitori dello Stato Stazionario) e il grande dibattito verteva sul va­lore della costante di Hubble che alcuni tenacemente volevano uguale a 100 (chi­lometri al secondo per Megaparsec) mentre altri, altrettanto tenacemente, volevano uguale a 50. A entrambe le misure erano associate notevoli incertezze ma i due va­lori (e soprattutto i capofila dei due gruppi di ricerca - Sidney Van den Bergh e Ge­rard De Vaucouleurs da una parte, Allan Sandage e Gustav Tamman dall'altra) era­no incompatibili.
Quindi età e dimensioni dell'universo erano incerte per almeno un fattore due e questo fattore due era il problema da risolvere. Circa quarant'anni dopo è stato risolto: avevano più o meno ragione (o torto) entrambe le "scuole", visto che il valore trovato è molto vicino a 70 km/s/ Mpc, con una incertezza minuscola (il valore "finale" varia leggermente tra 68 e 73, a seconda che si considerino singolarmente i dati dei telescopi con cui è stato determinato - ad esempio HST, WMAP o Planck - o piuttosto in modo combinato). La misura è comunque considerata conclusiva.
Dunque ora l'universo lo dovremmo conoscere molto meglio... ma ho l'impressione che non sia così. Nel frattempo, infatti, abbiamo scoperto la materia oscura e l'inflazione cosmica, e che espansione è (molto probabilmente) accelerata dall'energia oscura. Scopriamo cose nuove e importanti ma le chiamiamo "oscure" perché non sappiamo cosa siano! Quindi, pur sapendone di più, ne capiamo di meno considerato che andiamo dicendo che l'universo che conosciamo è, più o meno, il 4% di quello che sospettiamo esistere. Per non parlare poi della possibilità che l'u­niverso non sia Uni- ma sia Multi-, che esistano cioè molti universi - i "multiversi" molto di moda oggi - che alcuni pensa­no possano essere connessi da wormhole, i cunicoli spazio-temporali o ponti di Einstein-Rosen (v. "le Stelle" n. 136, pp. 12-13).
L'universo, all'inizio degli anni '70 del se­colo scorso, era studiato soprattutto nella banda "visibile" ma andava rapidamente affermandosi la radioastronomia che ne mostrava un volto molto più energetico di quello inferito dalle osservazioni ottiche. Quasar, pulsar, jet relativistici di particelle cariche e i moti super-luminari individua­ti dalle osservazioni VLBI erano appena entrati sulla scena e si cercavano ancora evidenze osservative dell'effettiva esisten­za dei buchi neri. Un universo ancor più energetico e violento l'avrebbe rilevato l'astronomia in banda X che con il lancio del satellite Uhuru stava diventando protagonista dell'astrofisica delle alte energie. Altre bande dello spettro elettromagnetico (tutte!) sono state successivamente utilizzate per le osservazioni astronomi­che ed è del tutto evidente che ora ne sappiamo molto di più, enormemente di più, di allora. Giganteschi telescopi a terra e nello spazio, cosi come enormi rivelatori di raggi cosmici e di neutrini e anche di onde gravitazionali (questi ultimi ancora in attesa di rivelare il primo se­gnale), petabyte di dati e super-computer, hanno permesso di riscrivere quasi com­pletamente i libri di testo.

IL PARADOSSO DELLA CONOSCENZA

Eppure... Eppure molte nuove scoperte rimangono "oscure", cosi come lo riman­gono alcune delle vecchie. Forniscono la risposta a una domanda ma generano a loro volta un maggior numero di nuovi interrogativi.
È un po' come esplorare un'enorme stanza e scoprire una porta nascosta dalla tappezzeria: una volta apertala, si scopre un'intera nuova ala dell'appartamento. Poi, trovate le scale, si capisce che vi sono inaspettati piani superiori e inferiori e infine, arrivati a una finestra, si vedono altri palazzi di cui non si immaginava l'esistenza. E cosi via. È successo all'inizio del secolo scorso quando, grazie al lavoro di Slipher, Hubble e altri, si è capito che l'universo non era limitato alla nostra galassia e che mol­te delle nebulose che si vedevano erano galassie simili alla nostra, distanti milioni di anni luce da noi.
Si è passati nel giro di pochi anni da un universo composto dalle centinaia di miliardi di stelle della Via Lattea a un Universo composto da centinaia di miliardi di galassie ognuna delle quali composta da centinaia di miliardi di stelle. Pensavamo ci fosse una sola galassia, ne abbiamo sco­perte più di 100 miliardi. L'universo non era grande centomila anni­ luce ma più di dieci miliardi di anni-luce. Sconcertante.
Cosa va aumentando più in fretta? La co­noscenza o la consapevolezza di non sapere? A me sembra che le cose nuove da studiare e da comprendere, di cui abbiamo scoperto l'esistenza, siano in numero mag­giore di quelle che abbiamo capito.
La conoscenza può essere immaginata come una frazione matematica: il rapporto tra quel che sappiamo e quello che sappiamo esistere e che dobbiamo ancora capire. Il nostro lavoro di ricerca fa sì aumentare il numeratore (quello che sap­piamo) ma fa aumentare maggiormente il denominatore (quello che sappiamo di non sapere e che dobbiamo capire). Dunque, la frazione diventa sempre più piccola.
È il paradosso della conoscenza. Non bisogna però ignorare il piacere che deriva dall'aumento della conoscenza e lo stimolo per la nostra immaginazione e curiosità che consegue alle nuove scoperte, quelle ancora da capire, che si aprono come nuove porte sull'inesplorato. È estremamen­te appagante poter contribuire in prima persona al progresso del sapere, ma lo è anche, dopo molte recite, smettere i panni di attore e soddisfare le proprie curiosità scientifiche da semplice spettatore. Mi aspettano anni comunque interessanti

Tratto da Le Stelle n° 143


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