Neutrini. Ce ne sono molti fantastiliardi in giro per l’universo. Si muovono a velocità prossime a quella della luce e percorrono, indisturbati, distanze galattiche (e anche extragalattiche) grazie al fatto di essere privi di carica elettrica – non sono quindi soggetti all’interazione elettromagnetica – e di avere una bassissima sezione d’urto (probabilità di interazione con altre particelle elementari) limitata all’interazione “debole”. I neutrini vengono prodotti nelle stelle a seguito di reazioni nucleari; dai raggi cosmici di alta energia che interagiscono con le particelle e la radiazione che incontrano; dai processi di decadimento radioattivo di alcuni elementi naturali; negli acceleratori e, ovviamente, ne sono stati generati in grande quantità dal Big Bang. I numeri sono impressionanti: il Sole ne produce circa 1038 ogni secondo e di questi, sempre ogni secondo, circa 60 miliardi attraversano ogni centimetro quadrato della superficie terrestre. Noi stessi produciamo neutrini – circa 340 milioni al giorno – per il decadimento beta del Potassio 40 (isotopo radioattivo del più comune Potassio 39), contenuto in microscopiche quantità nel nostro corpo.
Neutrini, messaggeri celesti
I neutrini sono messaggeri celesti particolarmente interessanti e ricercati, proprio per quelle loro caratteristiche che li rendono così elusivi e difficili da rivelare. La mancanza di carica elettrica, oltre ad evitare l’interazione con altre particelle cariche, evita anche di risentire dei campi magnetici interstellari e intergalattici e consente loro di mantenere inalterata la direzione di propagazione, rendendo quindi possibile risalire al loro luogo di origine. La bassissima sezione d’urto (10-38 cm2 per neutrini di 1 GeV; ancora più piccola per quelli di più alta energia) permette loro di attraversare praticamente indisturbati enormi quantità di materia (come ad esempio l’ambiente in cui vengono prodotti) e la loro rivelazione permetterebbe dunque di “vedere” ad esempio il nocciolo delle stelle, completamente opaco alla radiazione elettromagnetica. Infine, come i raggi cosmici di altissima energia (UHE), i neutrini più energetici contengono preziose informazioni sui meccanismi di produzione e accelerazione estrema della materia e della radiazione nell’universo. L’astronomia dei neutrini è dunque di grande interesse per il suo contenuto d’informazione astrofisica e cosmologica, complementare a quello dell’astronomia elettromagnetica. Peccato che rivelarli sia così difficile… ma non è impossibile!
Rivelatori di neutrini, enormi volumi per bassissima interazione
I primi neutrini extrasolari e non generati nella nostra atmosfera o sulla Terra – due dozzine in tutto – furono “catturati” nel 1987 e attribuiti all’esplosione della supernova del 1987 (SN 1987A) nella Grande Nube di Magellano.
Per compensare la bassissima probabilità d’interazione dei neutrini con la materia non basta costruire rivelatori efficienti e sofisticati, è anche necessario che questi rivelatori siano grossi, anzi enormi. A differenza dei telescopi elettromagnetici che migliorano la capacità di raccogliere fotoni aumentando la superficie dei loro “specchi” e a differenza dei rivelatori dei rari raggi cosmici UHE che, come nel caso dell’Osservatorio Auger, devono essere sparpagliati su grandi aree per raccogliere gli ampi sciami di particelle prodotti, nel caso dei rivelatori di neutrini è necessario aumentare il volume dello strumento. Per rivelare neutrini nell’intervallo di energia tra 1 TeV e 1000 TeV (quelli di natura galattica ed extragalattica) è necessaria una massa dell’ordine di (almeno) un miliardo di tonnellate. Questo valore si ottiene dalle stime del flusso atteso di neutrini di tali energie, ricavate partendo dal flusso osservato di raggi cosmici e con alcune inevitabili ma ragionevoli assunzioni (per esempio che i raggi cosmici UHE siano protoni e che questi perdano la loro energia generando pioni i quali a loro volta decadono con emissione di neutrini).
(Un evento di 713 TeV registrato da IceCube. Ogni pallino indica l’impulso luminoso registrato da un singolo rivelatore; le dimensioni sono proporzionali all’intensità di luce registrata (da cui la ricostruzione dell’energia dell’evento) mentre il colore indica il tempo di arrivo del segnale: rosso prima, blu dopo (permette la ricostruzione della direzione di provenienza del neutrino) (IceCube Collaboration).
IceCube, un chilometro cubo di ghiaccio antartico
Per rivelare neutrini ancor più energetici servono masse ancora più grandi. Un miliardo di tonnellate equivale a un cubo di mille tonnellate di lato: mille x mille x mille fa un miliardo. Se fatto di acqua (o di ghiaccio) il cubo ha il lato di un chilometro.
IceCube è proprio questo: un chilometro cubo di ghiaccio. È il più grande rivelatore di neutrini in funzione ed è situato nel ghiaccio antartico dove, ad una profondità da 1500 a 2500 metri, sono state disposte 86 stringhe di 60 rivelatori ognuna, a intervalli regolari di 125 metri l’una dall’altra (ma più compatte nella parte centrale detta DeepCore). Sulla superficie vi sono altri rivelatori (IceTop), sistemati in corrispondenza delle stringhe sepolte nel ghiaccio, che agiscono come calibratori e coincidenze per il rivelatore principale.
(IceCube)
Come funziona IceCube?
I neutrini non vengono rivelati direttamente ma attraverso i prodotti della loro interazione con i nuclei di idrogeno e ossigeno del ghiaccio. Le particelle cariche secondarie prodotte dall’interazione si muovono nel ghiaccio a una velocità superiore a quella con cui si propaga la luce, sempre nel ghiaccio, e dunque emettono brevissimi lampi di luce Cherenkov. I sensori vedono questa luce e ne misurano intensità e tempo di arrivo rendendo possibile la ricostruzione della direzione di propagazione dei neutrini e della loro energia. Particolare attenzione è dedicata alla rimozione di eventi spuri o attribuibili a neutrini “locali”, prodotti cioè dai raggi cosmici nell’atmosfera (IceCube rivela una media di 275 neutrini atmosferici al giorno).
Nel 2014 sono stati pubblicati (Aartsen et al., Phys. Rev. Lett. 113, 101101) i risultati di tre anni di registrazioni: 37 neutrini con energie comprese tra 30 e 2000 TeV. Sebbene siano pochi, molto pochi, sono significativamente (5,7 sigma) di più di quanto atteso sulla base del flusso dei neutrini “locali”. Questo, e il fatto che le direzioni d’arrivo non mostrano alcuna zona di cielo privilegiata, porta gli autori a concludere che la loro origine sia molto probabilmente extragalattica (un’origine galattica dovrebbe mostrare una preferenza per il piano della Galassia dove si concentrano stelle, pulsar, buchi neri e altri oggetti celesti in grado di produrre fenomeni di alta energia).
Il risultato è preliminare e, oggettivamente, almeno per ora, entusiasma solamente gli addetti ai lavori. La fortunata cattura di una manciata di neutrini prodotti dalla SN 1987A e il lento accumulo di un’ulteriore quarantina di eventi nell’arco di tre anni mi sembrano un po’ poco per parlare di neutrino-astronomia. Ma sono un inizio, sufficientemente buono e convincente per stimolare lo sviluppo di nuova strumentazione e la continuazione delle osservazioni.
KM3NeT e IceCubeGen2, i nuovi telescopi
Oltre ad aspettare l’esplosione di una supernova abbastanza vicina da generare un flusso di neutrini rilevabile dai diversi osservatori sparsi per il pianeta e dare nuovo impulso allo studio dei neutrini cosmici, vi sono progetti – alcuni in avanzato stato di costruzione – per aumentare significativamente il numero di eventi registrabili e dunque consolidare e raffinare i risultati preliminari. Tra questi KM3NeT (Cubic Kilometre Neutrino Telescope) - nelle profondità delle acque del Mar Mediterraneo in tre differenti posizioni: vicino a Tolone in Francia, a Capo Passero in Italia e a Pylos in Grecia - e IceCubeGen2, l’evoluzione di IceCube. Ancora allo stato di proposta (KM3NeT è invece in costruzione) Ice-CubeGen2 si ripromette di arrivare a un volume di dieci chilometri cubici (aumentando la spaziatura tra le file di rivelatori per contenere i costi) e migliorare conseguentemente di un fattore dieci il numero di neutrini rivelabili.
La neutrino-astronomia
Con questa nuova statistica, ulteriormente rafforzata da quanto verrà trovato da ANTARES, KM3Net e altri osservatori, saranno possibili analisi conclusive sull’origine extragalattica piuttosto che galattica dei neutrini di altissima energia. Una migliore ricostruzione della direzione d’arrivo (o, in alternativa, la rivelazione simultanea di altri eventi transienti in qualche banda dello spettro elettromagnetico) permetteranno poi le prime associazioni con oggetti astronomici già noti e studiati. Una misura della distribuzione in energia e in flavor (elettronici, muonici o tauonici) dei neutrini catturati darà preziose informazioni sui meccanismi di produzione. Se poi la supernova galattica che attendiamo da tempo (è ora che esploda! Le ultime 4 sono datate secoli addietro: 1680-Cassiopea, 1604-Keplero, 1572-Tycho Brahe e 1054-Granchio) venisse rivelata con abbondanza sia dai telescopi per neutrini che da quelli per onde gravitazionali, ormai pronti, (oltre naturalmente che dalla varietà di quelli operativi nelle varie bande dello spettro elettromagnetico) fornirebbe ad astronomi, fisici e non solo, l’overdose del secolo. E allora potremmo senz’altro parlare di neutrino-astronomia. Nel frattempo, l’importanza che riveste lo studio delle proprietà dei neutrini è appena stata ribadita con l’assegnazione del premio Nobel per la Fisica 2015 a Takaaki Kajita e Arthur McDonald. Scoprendo le loro oscillazioni (da un flavor all’altro) hanno mostrato che queste particelle sono dotate di massa. Scusate se è poco.
Pubblicato sul n. 149 di Le Stelle, pp. 10-12