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COP 15: un terzo del pianeta per la biodiversità

A Montreal, nel corso della COP 15 è stato approvato il Global Biodiversity Framework, la nuova strategia per la biodiversità. Un piano ambizioso che punta a una vita in armonia con la natura per il 2050, con obiettivi da attuare entro il 2030

Crediti foto: Alenka Skvarc su Unsplash

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Fermare la perdita di biodiversità e invertire l’attuale andamento negativo entro il 2030. Questo l’obiettivo generale dell’accordo siglato al termine della COP15, la Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica, che si è svolta nelle prime due settimane di dicembre a Montreal. Il Kunning-Montreal Global Biodiversity framework è stato approvato il 19 febbraio, chiudendo una intensa e travagliata serie di riunioni che hanno coinvolto tecnici e scienziati. «Abbiamo iniziato questo processo nel 2019, l’obiettivo era stilare una bozza di accordo entro il 2020, anno in cui si sarebbe dovuta tenere originariamente la COP15, che ha poi subito un ritardo a causa della pandemia» racconta Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area conservazione della biodiversità terrestre di ISPRA e referente nazionale dell'IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), che ha rappresentato l’Italia nei tavoli di lavoro. Nel 2020 si era infatti concluso il precedente piano di azione decennale, con una amara constatazione del fallimento della gran parte degli obiettivi prefissati, i cosiddetti Aichi target, come dettagliato nel report finale, il Global Outlook on Biodiversity 5 (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui). Dal 2020 al 2022 il gruppo di lavoro si è riunito diverse volte online e in presenza, per definire e perfezionare la bozza di accordo da proporre alla COP 15. «Il documento è stato strutturato sui risultati del report di IPBES, quindi su dati scientifici solidi. Ogni singolo target è stato discusso approfonditamente, nei singoli termini da adottare, persino nelle virgole. Il tutto per arrivare a obiettivi che vedessero d’accordo tutti e che fossero raggiungibili e misurabili» commenta Ciccarese.

La COP è partita lenta, ma alla fine c'è stato un testo condiviso, e l'impegno per 200 miliardi di dollari

L’aria che si respirava all’inizio dell’incontro di Montreal non era però molto rilassata. La riunione avvenuta la scorsa estate a Nairobi aveva infatti lasciato molti con l’amaro in bocca e la sensazione di una grande difficoltà nel raggiungere un accordo globale. «Siamo andati a Montreal con la paura che non si arrivasse proprio a un accordo, malgrado le tante discussioni, perché eravamo molto lontani da una visione univoca» spiega Piero Genovesi, Responsabile del Servizio per il coordinamento della fauna selvatica e Chair del gruppo specialistico sulle specie aliene invasive dell’Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN). «Quindi c’era una diffusa preoccupazione, e invece a Montreal si è lavorato in modo molto accelerato e intenso, letteralmente giorno e notte, e si è riusciti a trovare un testo condiviso».

Uno dei principali timori dopo il meeting di Nairobi era la mancanza di fondi dedicati, difficoltà che è emersa anche negli accordi per il clima, e che tra l’altro è rimasta irrisolta. «C'è un impegno concreto a mettere a disposizione 200 miliardi di dollari all'anno per la tutela della biodiversità quindi per l'applicazione del del Global Biodiversity Framework. E su questo c'è una richiesta al GEF, il fondo per i programmi globali dell'ambiente, che è un fondo creato dalla Banca Mondiale tanti anni fa, insieme alle Nazioni Unite. Il GEF dovrà elaborare un fondo speciale mettendo insieme risorse private e pubbliche, governative e non governative» racconta Genovesi. Innovativo e importante è l’impegno a identificare entro il 2025 i sussidi governativi per attività che sono dannose per la biodiversità, e di ridurre questi investimenti di 500 miliardi l'anno entro il 2030, a partire dalle attività che sono più pericolose per l’ambiente.

Quattro obiettivi per mettere la natura al centro delle politiche

Il nuovo Global biodiversity framework si articola in 4 goal generali. La visione è a ampio respiro, perché punta ad arrivare per il 2050 a una nuova visione della biodiversità, un cambiamento culturale, che metta la natura e la tutela delle sue componenti al centro delle politiche e dello stile di vita dell’umanità. Per il 2050 "l’integrità, la connettività e la resilienza di tutti gli ecosistemi sarà mantenuta, potenziata o ripristinata", esordisce. Per farlo si punta a un aumento delle superfici naturali, a una drastica diminuzione delle pressioni antropiche che minacciano le specie di estinzione, alla salvaguardia del patrimonio genetico delle specie. La visione è una maggiore armonia con la natura, quindi il funzionamento degli ecosistemi dovrà essere mantenuto per sostenere le popolazioni umane. Benefici e conoscenze derivate dalla natura dovranno essere condivise in modo equo e imparziale tra tutti gli abitanti del pianeta, con un utilizzo sostenibile delle risorse e la condivisione delle banche dati genetiche derivanti dalla biodiversità.

23 traguardi ambiziosi per raggiungere il "30x30"

Insomma, una visione per il 2050 ambiziosa e desiderabile, ma come ci si arriva? Intanto attraverso il raggiungimento di ben 23 traguardi urgenti da portare a casa nei prossimi 8 anni. Il primo, quello che è rimbalzato nei titoli dei quotidiani mondiali alla chiusura della COP è la protezione del 30% della superficie terrestre, dei mari e delle acque interne sia protetta per il 2030, target ribattezzato 30 x 30. L’approccio da adottare per la pianificazione delle aree da proteggere deve essere inclusivo e rispettoso delle popolazioni locali. Una delle novità più interessanti della nuova strategia per la biodiversità è proprio il coinvolgimento delle comunità locali e il riconoscimento del prezioso ruolo dei popoli indigeni nella tutela degli ecosistemi. È un passaggio importante, che non vede più la natura selvaggia contrapposta all’umanità, ma la valorizza come una casa di cui avere cura, mantenendo e rispettando i saperi tradizionali che sanno sfruttarne le risorse in modo oculato. A titolo di esempio, basta citare uno studio pubblicato lo scorso agosto su Science che dimostra all’interno delle aree abitate e gestite dai popoli indigeni vivono molte più specie di primati rispetto ai territori circostanti. E quindi come aree importanti per il pianeta non vanno considerate solo le aree protette vere e proprie, ma anche quelle che, pur non essendo sottoposte a un regime di tutela stretto, sono gestite in modo sostenibile, nel rispetto del funzionamento degli ecosistemi.

Molti target insistono su uno sfruttamento sostenibile delle risorse, un cambio di regime che punti a un utilizzo oculato. Quindi stop a pesca eccessiva, spreco alimentare, deforestazione, via libera all’agricoltura biologica e tradizionale, a tutte pratiche produttive meno impattanti. Sì al consumo etico da parte dei cittadini, che dovranno essere informati e orientati nelle loro scelte, a partire anche dalle industrie, specie quelle internazionali che dovranno regolarmente informare sul loro impatto ecologico, e trovare il modo di minimizzarlo.

Stop alle specie aliene

Per il 2030 si dovrà lavorare alacremente per fermare le minacce antropiche di estinzione delle specie conosciute. Tra queste, ci sono le specie aliene invasive: «il target 6 chiede la prevenzione dell'introduzione di tutte le specie esotiche invasive prioritarie, ovvero quelle con maggior impatto e di ridurre ad almeno la metà i tassi attuali di introduzione di tutte le specie invasive. Inoltre si lavorerà al controllo ed eradicazione delle specie aliene invasive da per ridurne significativamente l'impatto sulla biodiversità, in particolare nelle zone prioritarie, come le isole» spiega Piero Genovesi. «Il focus principale di questo obiettivo è la prevenzione, che è la cosa più efficace, e l'obiettivo è ambizioso, sicuramente, perché chiede di annullare l'introduzione delle specie prioritarie. Il ruolo di noi esperti è lavorare per capire come identificarle e guidare gli interventi, alcuni sistemi sono già stati messi a punto».

Una delle caratteristiche importanti di questo piano è proprio quello di un approccio basato sulle prove scientifiche e di una gestione adattativa, in cui gli obiettivi possano essere misurati e ricalibrati sulla base dell’andamento reale degli interventi.

Target più mirati e decisioni basate sui dati scientifici: un progresso rispetto alla COP precedente

Uno dei problemi principali della precedente strategia era proprio la vaghezza nella definizione dei target, e la mancanza di una valutazione progressiva. E quindi solo al termine ci si è resi conto che nella stragrande maggioranza dei target prefissati non erano stati raggiunti. «In questo caso gli obiettivi dei target sono stati quantificati con dei valori numerici, quali il 30% delle aree da proteggere, il 25% dei terreni agricoli da destinare agricoltura biologica… » spiega Lorenzo Ciccarese. «Il Global Biodiversity framework è solo una piccola parte del pacchetto ottenuto nel corso dei lavori negoziali, molto importanti sono le linee guida per il monitoraggio e il reporting, che contengono una serie di indicatori che sono stati concordati. I lavori proseguono e proseguiranno per definire i vari gruppi di lavoro che implementeranno le azioni». La strategia punta a un coinvolgimento della scienza e a un costante dialogo tra scienziati e policy makers. In particolare si punta all’individuazione di tecnologie a sostegno della biodiversità e alla messa a disposizione delle migliori evidenze scientifiche, perché possano diventare strumenti per i decisori politici, i tecnici, e il pubblico. «L’IPBES sta realizzando una serie di valutazioni che sono una base fondamentale per guidare le azioni necessarie per la biodiversità. Credo sia molto importante perché possono dare una riferimento concreto ai Paesi su come poi applicare le azioni previste. Faccio un esempio: se c'è un impegno a ridurre del 50% i tassi di introduzione di specie invasive, è chiaro che avere una base di conoscenza che ti dice quali sono i tassi attuali sia essenziale per rendere operativa la strategia” commenta Genovesi.

Insomma la tutela della biodiversità ci garantisce un mondo più resiliente e l’obiettivo è arrivarci in modo equo e inclusivo, che garantisca la parità di genere e sia rispettoso delle minoranze. Un impegno per il pianeta guidato da una corretta informazione, conoscenza e che garantisca una partecipazione di tutti. Arrestare la biodiversità è sicuramente un impegno oneroso, ma la promessa è un traguardo di un’esistenza decisamente migliore. Non resta che pretendere che questa volta l'obiettivo di un 2050 in armonia con la natura venga realizzato.

 

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