Ed ecco la sedicesima conferenza delle parti per la Convenzione sulla diversità biologica, la COP16 della CBD, che si tiene a Cali, in Colombia, dal 21 ottobre al 1° novembre. Il tema della convention sarà Peace with Nature, e si tratta del primo incontro dopo l’adozione del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, il piano d’azione globale con l’ambizioso obiettivo di fermare la perdita di biodiversità. Il Global Biodiversity Framework è un documento guida per le politiche nazionali, il cui scopo è facilitare il coordinamento globale delle azioni a tutela della biodiversità. Si articola in una serie di target da raggiungere entro il 2030, con l’obiettivo finale di un 2050 in “armonia con la natura”. Armonia raggiungibile attraverso quattro obiettivi: la protezione e il ripristino della diversità biologica in ogni sua forma, inclusa quella genetica; l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali; un’equa condivisione dei benefici; un adeguato sostegno finanziario e una rete efficiente di collaborazione internazionale. Il piano, siglato il 19 dicembre 2022 da 196 Stati (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui), inclusi l’Italia e l’UE, ma con l'assenza significativa degli Stati Uniti, è il risultato di negoziati complessi e ha posto le basi per le future azioni globali sulla biodiversità.
La convention di Cali avrà il compito di valutare le agende politiche per la biodiversità dei singoli Stati e di stabilire, tra le altre cose, gli standard comuni di monitoraggio dei progressi. Si parte già un po’ sghembi perché, secondo gli accordi, gli Stati firmatari avrebbero dovuto aggiornare le loro strategie e piani d’azione nazionali per la biodiversità (National Biodiversity Strategies and Action Plans -NBSAP) in base a quanto concordato nella scorsa convention, ma a oggi solo il 10% dei firmatari lo ha fatto; tra questi l’Italia. I NBSAP devono indicare gli obiettivi a livello nazionale per la biodiversità e una pianificazione per come raggiungerli, ma un punto critico è che non sono vincolanti, quindi c’è un ampio rischio che rimangano mere dichiarazioni di intenti.
Un tema caldo della COP16 sarà sicuramente quello dei finanziamenti, argomento che aveva già messo a rischio i negoziati della COP15. Il target 19 del Global Biodiversity Framework prevede infatti la messa a punto di un fondo dedicato alla biodiversità, cui ogni Stato contribuisce in base alla disponibilità e con un impegno particolare da parte dei Paesi più ricchi verso quelli in via di sviluppo, che ospitano la maggior parte degli hotspot di biodiversità globale. L’obiettivo per il 2030 è di arrivare a mobilitare 200 miliardi di dollari all’anno per le azioni a favore della biodiversità, che includono finanziamenti pubblici e privati, con un sostegno agli Stati in via di sviluppo e i piccoli Stati insulari di almeno 20 miliardi di dollari all'anno entro il 2025 e 30 miliardi all'anno entro il 2030. Al momento sono 7 i Paesi che hanno contribuito al fondo dedicato, il GBFF (Global Biodiversity Framework Found), che al momento ha avviato il finanziamento di quattro progetti: due in Brasile, uno in Messico e l’altro in Gabon. A oggi hanno versato il loro contributo Canada, Giappone, Regno Unito, Germania e Spagna. Il GBFF è un fondo dedicato istituito all’interno del Global Environmental Fund (GEF), un meccanismo finanziario attivo dal 1991, e quindi già rodato, che raccoglie i fondi per finanziare progetti ambientali, che includono biodiversità, cambiamento climatico, gestione degli inquinanti.
Una parte dei fondi del GBFF è dedicata a un altro tema cruciale che verrà discusso nel corso della COP 16: il protocollo di Nagoya sull’accesso alle risorse genetiche e l’equa distribuzione dei benefici derivanti dal loro utilizzo. Il protocollo fa riferimento a uno scambio fisico delle risorse naturali, ma oggi le sequenze genetiche e proteiche di migliaia di organismi sono contenute in database digitali liberamente accessibili da ogni angolo del globo. A Cali si discuterà infatti della gestione delle DSI (Digital Sequence Information), ovvero le sequenze biologiche digitali (che includono DNA, RNA, proteine). Uno degli aspetti poco narrati della biodiversità è, infatti, proprio il cruciale apporto allo sviluppo di prodotti alimentari, biomedici, cosmetici e tecnologici. Un contributo che ha radici antichissime, dato che le piante che coltiviamo e gli animali che alleviamo derivano dalla domesticazione di una specie selvatica. Si stima che almeno il 70% della farmacopea abbia una origine naturale. La biodiversità microbica è anche un motore dello sviluppo biotecnologico: un caso tra tutti è quello del batterio Thermus aquaticus, che vive nelle pozze termali di Yellowstone e che, con la sua polimerasi, ha rivoluzionato le tecniche genetiche consentendo la replicazione in tempi velocissimi del DNA in laboratorio. Anche in questo caso, spesso l’utilizzo delle risorse naturali ha ricadute sulla conservazione, come nel caso dei limuli, artropodi oceanici che popolano gli oceani da oltre 450 milioni di anni, il cui sangue blu è stato largamente impiegato per la purificazione dei vaccini, grazie alla sua capacità di evidenziare rapidamente la presenza di contaminazioni batteriche. Un utilizzo che tra ha portato a un prelievo eccessivo di questo fossile vivente: solo recentemente si sta iniziando a utilizzare un equivalente sintetico.
Proteine e acidi nucleici di numerosi organismi, siano essi animali, piante, funghi o batteri, sono quindi risorse preziosissime per la sopravvivenza, la salute e l’economia. Le proprietà molecolari della biodiversità sono merce ambita, che non poche volte ha dato luogo a uno sfruttamento commerciale completamente sbilanciato, che non tiene conto dell'origine delle risorse. Così molte risorse biologiche o conoscenze e pratiche tradizionali sono state sfruttate per la messa a punto di prodotti brevettati, la cui efficacia ha fatto intascare grossi guadagni unicamente alle aziende che li hanno sviluppati, un fenomeno noto come "biopirateria" e tutt'altro che raro anche quando le sequenze digitali non esistevano. Un caso celebre è quello di un estratto dell'olio di Neem, utilizzato da migliaia di anni nelle zone rurali dell'India come repellente, e brevettato dalla multinazionale W.R. Grace nel 1994. Brevetto annullato dall'Organizzazione per la protezione dell'ambiente (EPO) solo nel 2000 grazie a una accesa campagna di protesta.
Il protocollo di Nagoya si basa proprio sul presupposto di suddividere i benefici derivanti dalle innovazioni legate allo sviluppo delle risorse naturali con i Paesi che le ospitano, in particolare con i popoli indigeni che ne hanno consentito la conservazione. Più facile a dirsi che a farsi: come spiega in questa intervista Elsa Tsioumani dell’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile, l’informatizzazione consente la libera condivisione ed è quindi una potentissima risorsa per l’innovazione tecnologica, ma rende ancora più complessa la ripartizione dei benefici. I database aperti contengono infatti sequenze genetiche e proteiche che possono essere scaricate da qualsiasi utente in ogni angolo del globo, e riutilizzate come base di partenza per lo studio o lo sviluppo biotecnologico senza alcun bisogno di avere fisicamente l’organismo da cui tale sequenza deriva. Spesso è complicato ricostruire la reale attribuzione geografica dato che la geolocalizzazione delle sequenze caricate nel database è diventata obbligatoria piuttosto recentemente. A chi appartengono dunque le sequenze? Come garantire lo sviluppo tecnologico e al contempo favorire la tutela della biodiversità riconoscendo il ruolo di chi la preserva?
Per cercare di risolvere questo problema, nel corso della COP15 si era stabilito di creare un fondo dedicato, gestito attraverso accordi multilaterali. Tale fondo dovrebbe essere alimentato con parte dei guadagni derivati dall'utilizzo delle risorse biologiche ed essere speso per progetti a tutela della biodiversità e a supporto delle comunità locali che la tutelano. Lo scorso agosto ci sono state le prime negoziazioni sui DSI a Montreal, che aprono la strada ai lavori della convention colombiana della settimana prossima. Un lavoro che si profila tutt'altro che semplice e lineare, considerata la pluralità di interessi in gioco e la necessità di coinvolgere le aziende del Big Pharma vincendone le perplessità. Il tema dei DSI non riguarda ovviamente solo la convenzione sulla biodiversità, ma sarà oggetto di discussione in altri consessi, tra cui il trattato internazionale sulle risorse genetiche vegetali per l’alimentazione e l’agricoltura (ITPGRFA) e i negoziati internazionali per la risposta alle pandemie. Questo, ancora una volta, dimostra quanto un tema così fortemente sottovalutato come quello della tutela della diversità delle specie viventi e di ecosistemi vitali che le supportino giochi un ruolo imprescindibile per la nostra sopravvivenza. Se il fondo comune per i DSI andasse in porto, sarebbe una chiave di volta importante per iniziare davvero ad avere risorse economiche sufficienti per la tutela della biodiversità, che soffre di una cronica mancanza di fondi.