fbpx Curare il tumore al seno, ma non scordare il cuore | Scienza in rete

Curare il tumore al seno, ma non scordare il cuore

Primary tabs

Tempo di lettura: 4 mins

Nei tumori al seno Her2 positivi la terapia mirata, aggiunta alla chemioterapia tradizionale, aumenta la sopravvivenza, ma talvolta a prezzo di uno scompenso cardiaco.  Un tumore al seno su cinque presenta, sulla superficie delle sue cellule, un recettore di crescita epiteliale detto Her2: una caratteristica questa che fino all’introduzione del trastuzumab, un anticorpo monoclonale prodotto in laboratorio e mirato specificamente contro questo bersaglio, rendeva la malattia particolarmente minacciosa e più difficile da trattare. Il farmaco biologico migliora la prognosi del tumore, ma danneggia il cuore. Un gruppo di giovani ricercatori italiani delle Università di Milano e Modena, in collaborazione con l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, ha quindi condotto una revisione Cochrane degli studi esistenti a questo riguardo per cercare di capire quanto pesino i pro e i contro della cura.

Mettendo insieme i risultati di otto diversi studi che mettevano a confronto gli effetti della sola chemioterapia tradizionale con quelli in cui veniva aggiunto il farmaco mirato, i ricercatori italiani hanno potuto prendere in considerazione una casistica estesa a quasi 12.000 donne colpite da un tumore al seno Her2 positivo in fase precoce, ancora operabile e che non aveva mandato in circolo metastasi. In media era stato possibile seguirne lo stato di salute per tre anni dopo la fine delle cure.

In questo periodo, tra le donne trattate con trastuzumab, la mortalità è stata di un terzo inferiore rispetto a quella di chi aveva ricevuto solo la chemioterapia. Ma il numero di quelle che hanno manifestato danni al cuore è stato superiore di ben cinque volte.  «Questo significa che, per ogni mille donne con tumore al seno Her2 positivo che ricevono la terapia standard, senza trastuzumab, dopo tre anni ne saranno ancora in vita 900; su mille a cui viene dato anche il farmaco mirato in aggiunta alla terapia standard, ne sopravvivranno 33 di più» spiega Lorenzo Moja, ricercatore del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università di Milano che ha coordinato la ricerca, nell'ambito del programma di supporto alla ricerca indipendente finanziato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). C’è però anche il retro della medaglia. Sempre partendo da un ipotetico campione di 1000 donne trattate col nuovo farmaco, 26 andranno incontro, per effetto del farmaco, a uno scompenso cardiocircolatorio, che si verificherebbe invece solo  in 5 casi tra quelli assegnati alla sola chemio.

«Va anche detto però che il danno al cuore non è irreversibile» precisa il ricercatore, «purché la cura venga sospesa ai primi segnali di allarme».

Chi si occupa di tumori sa bene che le nuove terapie, purtroppo, tranne pochi casi selezionati, non hanno nulla di miracoloso e spesso prolungano la sopravvivenza solo di poche settimane. Non è nemmeno vero, come talvolta si pensa, che questi farmaci, molti dei quali appartengono alla categoria dei cosiddetti “biologici”, siano del tutto privi di effetti collaterali. Il loro ruolo rispetto alla chemioterapia tradizionale, che tra l’altro di solito affiancano, e non sostituiscono, deve essere quindi ben valutato di caso in caso, e non solo per i loro costi. 

La scelta andrebbe fatta di comune accordo tra medico e paziente, soppesando nei singoli casi rischi e benefici. «Nel caso del trastuzumab per il tumore al seno Her2 positivo, si può dire alla luce del nostro studio che il trattamento con il farmaco apporta più vantaggi che danni nelle donne in cui è alta la possibilità di recidiva del tumore e che non sono a rischio di malattie cardiache» conclude Roberto D’Amico, ricercatore presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Modena. «Il bilancio tra rischi e benefici è però meno chiaro e deve essere valutato con cautela per le donne che hanno bassa probabilità di recidiva della malattia, per esempio in quelle che hanno tumori di dimensioni molto piccole, e per quelle in cui una situazione cardiovascolare non ottimale fa temere un maggiore rischio di complicazioni cardiologiche».  

E’ vero quindi che le cure devono essere personalizzate, ma non soltanto in base alla presenza dell’uno o dell’altro recettore. Dipendono dalla persona nel suo insieme, che non è fatta solo di fattori di rischio, ma anche di priorità e valori personali, che possono cambiare dall’una all’altra, e di cui i medici devono imparare a tenere conto. Roberta Villa


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP sei tu, economia

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo ed emergenti che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. Qualche decina di paesi, fra i quali le piccole isole, saranno inabitabili se non definitivamente sott’acqua se non si rimetteranno i limiti posti dall’Accordo di Parigi del 2015, cioè fermare il riscaldamento “ben sotto i 2°C, possibilmente. 1,5°C”, obiettivo possibile uscendo il più rapidamente possibile dalle fonti fossili.