Il 6 e il 9 agosto del 1945 gli USA sganciarono su due popolose città giapponesi le prime due bombe atomiche della storia. Una distrusse Hiroshima, l’altra Nagasaki: centinaia di migliaia i morti e altrettanti se non di più i feriti e i traumatizzati, molti non ancora nati. Il Giappone s’arrese e finì così la seconda guerra mondiale. Ma quelle due bombe segnalarono all’umanità l’inizio di un’era da cui potrebbe anche non uscire e che comunque vive e vivrà con l’angoscia che la sopravvivenza sua e della vita quale la conosciamo è a rischio. Ce lo ricorda la recente discussione sul nucleare iraniano.
Tutto è legato
prima alle scoperte degli scienziati e poi alle decisioni dei politici. Un
pensiero debole ma diffuso vuole che i primi (ma non i secondi) siano esonerati
da responsabilità etiche: nulla di più sbagliato, come indica la tragica saga delle
armi nucleari. Uno dei suoi maggiori protagonisti è Einstein, il simbolo stesso
della scienza moderna e del pacifismo: pur essendo il padre della teoria che ne
è alla base (l’equivalenza tra massa e energia) Einstein non partecipò ufficialmente
al Progetto Manhattan, organizzato
dal governo USA per la produzione della bomba e così chiamato perché lì aveva
sede l’ufficio governativo responsabile):
fu lasciato
fuori proprio per il suo ben noto pacifismo. Neppure dopo che la bomba venne
approntata e usata, Einstein s’attivò in prima persona per la sua messa al
bando: spesso ci fu tirato per la giacca.
A riguardo firmò diverse lettere, pensate e scritte da altri: la prima, redatta
nel 39 dal fisico ungherese Szilard e indirizzata al presidente Roosevelt
sottolineava l’importanza della fissione nucleare per usi bellici e il rischio
che ci arrivasse Hitler per primo. Il governo USA ne prese atto e lanciò il
Progetto Manhattan: i fisici hanno
conosciuto il peccato, fu il lapidario commento di Oppenheimer, lo
scienziato americano che l’aveva diretto, quando apprese del suo successo.
Va
ricordato che Einstein sempre spinto da Szilard, all’inizio del '45, quando la
bomba era quasi pronta, aveva inviato al presidente Roosevelt una lettera cui
chiedeva di rinviarne l’imminente impiego: Roosevelt però morì poco dopo e il suo
successore Truman non rispose. Dieci anni dopo a Bikini, un atollo del Pacifico,
gli USA fecero esplodere la prima bomba H sperimentale. Questa volta su suggerimento
del matematico e filosofo inglese Russell, Einstein lanciò una nuova denuncia
contro i rischi degli ordigni nucleari basati sulla fusione e non più sulla
fissione di nuclei. A quello che è passato alla storia come il Manifesto di Einstein-Russell
s’associarono una manciata di Nobel: subito dopo quelle d’Einstein e Russell
c’era la firma di Rotblat, l’uomo che l’ideò e lo lesse a Ginevra nel 1955. Il
confronto Einstein-Rotblat dà forti indicazioni sulla necessità d’un’etica della
scienza. Come di tutte le attività umane.
Il nome Rotblat dice poco al pubblico. Era un giovane fisico quando venne chiamato a partecipare al Progetto Manhattan: il suo reclutamento fu quasi casuale. Lo scoppio della guerra l’aveva bloccato in Inghilterra alla vigilia del suo rientro nella natìa Polonia, dove doveva sposarsi: ma i suoi colleghi stimavano tanto la sua competenza nel campo dei neutroni (componenti essenziali del processo di fissione nucleare) e la sua affidabilità personale che lo cooptarono nel Progetto. Rotblat accettò con entusiasmo ma lasciò non appena scoprì che per gli USA le bombe destinate al Giappone erano un obiettivo di facciata: in realtà, sconfitti Germania e Giappone, iniziarono subito una guerra fredda con il loro vecchio alleato, l’URSS. Rotblat fu l'unico che decise di lasciare il Progetto perché doppiamente immorale: verso l’umanità e verso la scienza. Fu accusato di filo-comunismo e subì drammatiche vessazioni umane e professionali. Abbandonò la ricerca e si dedicò interamente all’attività pacifista: con Russell animò una Conferenza per la Scienza e gli Interessi del Mondo (meglio nota come Movimento Pugwash, dal nome del paese canadese che l’ospitava). In riconoscimento dei loro sforzi per eliminare le armi nucleari dalle contese internazionali Rotblat e il Movimento Pugwash condivisero il Nobel per la pace del 95.
Ma il messaggio di Rotblat è più
profondo: anche gli scienziati devono rispondere moralmente degli sviluppi
delle loro scoperte e se prevedono che possano essere dannosi, devono denunciarlo.
Come fece la fisica austriaca Lise
Meitner: nel 39 aveva scoperto la fissione nucleare a Berlino ma nascose i
suoi risultati al suo datore di lavoro, il Terzo Reich, e li pubblicò su Nature; più tardi, esule in Svezia,
rifiutò d’entrare nel Progetto Manhattan perché lo riteneva immorale. E forse
anche per questo, oltre che per esser una donna, le fu negato un Nobel
meritatissimo (che andò al suo capo, il chimico tedesco Hahn, ripetendo il caso
di Mileva Maric-Einstein e anticipando di vent’anni il caso Rosalind Franklin-Wilkins
per il DNA).
Gli scienziati devono rispondere degli effetti delle loro scoperte, per quanto
remoti: il peccato di Oppenheimer va
conosciuto prima, non dopo. Rifugiarsi nella sua imprevedibilità è inaccettabile.
La scienza vive spesso situazioni simili: ma, nonostante una diffusa credenza
contraria, non tutto quello che potrebbe essere scoperto va scoperto, né tutto
quello che potrebbe essere fatto va fatto. Ma se questo avviene, chi fa scoperte
di base deve cogliere e denunciarne i possibili sviluppi, per quanto incerti.
Un rallentamento della ricerca scientifica non guasta, anzi l’umanizza. Diamo
il benvenuto a una science slow (e magari più rosa)!