
È molto probabile che sia necessario rendere strutturale l’indebitamento comune europeo, garantito congiuntamente dai paesi membri in ottica solidaristica, per finanziare investimenti in ricerca, transizione ecologica e welfare. Il dibattito sul debito è vecchio, ma ne abbiamo fatto esperienza col Next Generation Eu e ora con ReArm Europe. Una disamina sullo stato dell’arte.
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Serve fare debito comune europeo. Il dibattito è antico ed è tornato alla ribalta prima col Covid e ora con il riarmo. Le tesi a favore dovrebbero mirare soprattutto su tre punti: 1) il debito comune va reso strutturale, 2) va usato per fare investimenti, 3) gli investimenti devono servire ad accrescere il benessere diffuso. Cioè, sostanzialmente, fare debito comune europeo serve per finanziare welfare, ricerca scientifica e transizione ecologica. Il dibattito dovrebbe piuttosto focalizzarsi su altri due aspetti: se il debito comune debba sostituire o integrare i debiti nazionali, e con quali garanzie e responsabilità condivise.
L’economia è una scienza sociale: non lavora con grandezze quantitative come fanno la fisica, la chimica o la biologia, ma con il denaro. Che tutto è tranne che una grandezza come la massa, l’energia o la velocità. Il denaro è sostanzialmente attribuzione di valore, e questo non può che avvenire secondo convenzioni sociali, norme e comportamenti. È una specifica che va fatta, perché spesso, soprattutto in un certo tipo di pensiero, gli economisti sembrano avere a che fare con delle palline da biliardo invece che con esseri umani, che tra l’altro si comportano spesso e volentieri in modo irrazionale. La ricerca in campo economico, anche se si sta sempre più “matematizzando”, resta comunque colma di assunti e ragionamenti intrisi di contenuto politico e, per questo, opinabili.
Cos’è il debito pubblico
Innanzitutto, serve capire che il debito dello stato non è come il debito dei privati cittadini o delle aziende. Lo stato può indebitarsi e continuare a farlo senza per questo fallire, il discrimine sta nel modo in cui si spendono i soldi presi a debito. E già questo è un esempio lampante di come il denaro non sia come la materia fisica: se non c’è, si può “evocare” dal nulla – più o meno temporaneamente – senza che questo, per altro, comporti una materializzazione di lingotti d’oro nelle riserve auree del paese. Gli economisti ci perdonino la provocazione.
Per inciso, la quantità di moneta circolante non corrisponde più col valore delle riserve d’oro nazionali dal 1971 grazie allo Smithsonian Agreement. La funzione delle riserve auree serve più che altro come garanzia di solidità di un paese (l’Italia è il 4° paese al mondo per riserve d’oro, con 2452 tonnellate per un valore a fine 2024 di circa 198 miliardi di euro).
Quando un paese ha più uscite che entrate, cioè fa più spesa pubblica di quanto non incassi con il gettito fiscale, è in deficit (valore annuo) e va quindi a incrementare il proprio debito pubblico (valore cumulato). Tutti i paesi del mondo sono indebitati e i debiti sovrani nazionali sono tendenzialmente in crescita dal 1950. Ancora, avere un alto debito pubblico non significa necessariamente avvicinarsi al default: il Giappone, per esempio, ha un debito pubblico enorme, anche maggiore della Grecia che invece ha dichiarato il default varie volte.
Quindi, lo stato emette dei titoli di stato, le obbligazioni, che vende sul mercato per ottenere liquidità da poter usare per l’appunto per finanziare il welfare, fare investimenti, spese di emergenza e così via. Le obbligazioni, scaduto il periodo di validità, devono essere rimborsate a chi l’ha acquistate che, nel frattempo, riceve il pagamento periodico degli interessi. Il tasso d’interesse viene deciso a seconda della situazione di mercato, della fiducia verso quello stato e dei tassi delle banche centrali.
Il bilancio dello stato, quindi, deve tenere di conto anche di questo costo nelle voci di spesa annuali.
Per dare ordini di grandezza, il PIL italiano nel 2024 è stato di quasi 2200 miliardi di euro, il debito pubblico totale di circa 2900 miliardi, con un rapporto debito/PIL di circa 135%. Nel 2024 abbiamo emesso titoli di stato per più di 540 miliardi di euro. Il valore invece dei titoli italiani totali in circolazione (indipendentemente dalla data di emissione) è al 2024 di circa 2500 miliardi di euro.
Il senso di usare il debito per fare investimenti sta nel fatto che nel tempo di vita del titolo emesso la spesa crea ricchezza che ripaga l’investimento, ma anche e soprattutto genera impatti positivi sulla società, sulla salute e sull’ambiente. Se si spende bene.
Abbiamo già fatto debito comune europeo
Maurizio Ferrera, prima delle scorse elezioni europee, offriva una riflessione interessante sulla differenza culturale nella parola “debito” tra mondo germanico e mondo latino, ricordando innanzitutto che in tedesco “Schuld” vuol dire sia “debito” che “colpa”, e rimanda per questo a un «peccato che merita biasimo».
Lutero aveva messo bene in chiaro che «nessuno deve vivere alle spalle degli altri», Calvino diceva che «Dio aiuta coloro che sono capaci di aiutarsi da soli». [L’etimologia latina classica, invece,] contempla la possibilità di debiti incolpevoli, dovuti a circostanze esterne. In questo caso, la richiesta di un prestito o un ritardo nella sua restituzione vanno trattati con compassione. Nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, chi tiene per sé la ricchezza non è mai innocente; dare qualcosa ai bisognosi è come ripagare un debito.
Questa distinzione ci sarà utile più avanti.
Per fare debito comune europeo si dovrebbe pensare ai paesi membri come un unico grande stato, molto più solido delle nazioni prese singolarmente, che emette titoli di debito a nome dell’Unione e così si finanzia. Prima di andare nel dettaglio, serve fare due osservazioni.
La prima è che un meccanismo simile esiste già e lo mette in atto la Banca Europea per gli Investimenti (BEI). L’istituto emette titoli di debito per raccogliere fondi che poi usa per finanziare progetti in linea con gli obiettivi europei, erogando prestiti a condizioni più favorevoli delle banche commerciali alle piccole e medie imprese per esempio. Il 90% dei prestiti viene usato all’interno del territorio europeo. Nel 2024 la BEI ha raccolto dall’emissione di titoli circa 56 miliardi di euro.
Attenzione a non confondere la BEI con la BCE, cioè la Banca Centrale Europea, che invece è responsabile della politica monetaria, che viene controllata sostanzialmente tramite la variazione periodica di tre tassi di interesse: il tasso principale di rifinanziamento (tasso “refi”) è quello più importante e indica con quale tasso le banche commerciali chiedono in prestito denaro alla BCE. Va da sé che questo numero influenza a cascata tutti gli altri tassi (l’Euribor è tra i più famosi), compresi quelli sui mutui o quello sui titoli di stato (come dicevamo prima).
La seconda osservazione è che anche la stessa Commissione Europea (CE) ha già emesso titoli di debito, a partire dalla crisi petrolifera del 1973. Si legge nel magazine del Centre for Economic Policy Research:
Alcuni sostengono che i Coronabond [titoli europei legati al Covid, ndr] siano un passo rischioso, ma in realtà l’Europa ha già emesso debito comune in passato, come durante la crisi petrolifera degli anni ‘70 con il Community Loan Mechanism (CLM). Questo strumento prevedeva garanzie congiunte e fu utilizzato per aiutare Italia, Irlanda e altri Paesi. Tutti i prestiti furono rimborsati senza default, dimostrando che la solidarietà finanziaria europea non è una novità.
L’ammontare di denaro a partire da quel periodo e nei decenni a seguire, raccolto con emissione di titoli comuni, è stato di circa 38 miliardi di euro.
Le differenze sostanziali tra l’emissione di debito tra BEI e CE, oltre che nel diverso quantitativo, sta del fatto che il bilancio della BEI è autonomo, mentre il bilancio della Commissione è quello dell’Unione Europea. Per questo, anche se gli azionisti della BEI sono gli stati membri (come anche per la BCE), il debito emesso dalla BEI è garantito dal suo bilancio, quello emesso dalla Commissione è garantito dal bilancio dell’Unione e cioè, indirettamente, dai singoli paesi membri. La responsabilità dell’indebitamento è quindi attribuita a organismi ben diversi.
Questo è un nodo cruciale. Nel 2011 la Commissione Europea proponeva tre diverse tipologie di eurobond – cioè titoli di debito comuni europei:
- eurobond che sostituiscono completamente le emissioni nazionali, garantiti da tutti i paesi in modo congiunto
- eurobond che integrano ma non sostituiscono, sempre con garanzia congiunta
- eurobond che integrano ma non sostituiscono, senza garanzia congiunta ma per quote nazionali.
Nel caso in cui la garanzia sia congiunta, ci sarebbe un onere “aggiuntivo” per i paesi “virtuosi” – cioè quelli che fanno meno debito (e magari lo fanno perché fanno meno spesa sociale, altroché virtuosi) – per coprire le difficoltà degli altri. Si parla in altri termini del cosiddetto “azzardo morale”, e cioè la propensione di chi si comporta “peggio” a spendere comunque tanto perché sa che verrà aiutato dagli altri.
Qui la considerazione da fare è però di carattere etico. Innanzitutto, nessuna legge o vincolo può deliberatamente imporre chi governerà un paese (cioè chi poi farà la sua politica economica): i cittadini votano a seconda del contesto socioculturale nazionale e non li si può biasimare se eleggono chi promette più stato sociale. E poi, tornando alle differenze morali sul debito/peccato, la condivisione delle responsabilità funziona sempre allo stesso modo: i paesi più ricchi aiutano e devono aiutare quelli più in difficoltà. È la solidarietà, bellezza. Altrimenti, per fare un esempio, perché mai ai negoziati climatici sotto l’UNFCCC uno degli obiettivi da raggiungere è proprio quello di raccogliere soldi da parte dei paesi ricchi per i paesi poveri? Se mettiamo in discussione questi principi, stiamo buttando all’aria secoli di conquiste sociali, etiche e filosofiche. Fate voi.
Al proposito, il Trattato europeo di Lisbona vieta a ciascun membro dell’Unione – e all’Unione stessa – di rispondere ai debiti degli altri paesi membri, con quella che è conosciuta come “clausola no-bail-out”. Se sei uno stato insolvente la responsabilità è solo tua, Dio non ti aiuta. L’esistenza di questa clausola ha di fatto prodotto ulteriori meccanismi di aiuto eccezionali, come il MES (il cosiddetto Fondo salva-stati), che però hanno imposto alla Grecia, per esempio, tagli alla spesa pubblica che hanno indebolito il paese ancora di più.
Se si vogliono introdurre eurobond a garanzia congiunta, pertanto, serve modificare i Trattati e questo richiede un certo tempo. La domanda, ora, deve sorgere spontanea: ma, allora, il Next Generation EU?
Il caso senza precedenti del NGEU
Con la crisi del Covid-19, la Commissione Europea ha proposto a Parlamento e Consiglio di creare un pacchetto di aiuti, il Next Generation EU, di circa 2000 miliardi di euro fino al 2026, di cui più di 700 raccolti con emissioni di titoli europei di debito (il restante dal normale bilancio pluriennale). Così facendo la CE è diventata un emittente di rilievo (rispetto alle briciole della crisi petrolifera degli anni ’70) passando dal 15° al 5° posto tra i maggiori emittenti di debito dell’area euro tra il 2019 e il 2021 (la BEI è passata all’8°). Il PIL dell’Unione Europea (compresi i paesi fuori dall’Eurozona), per capire di quanto stiamo parlando, è stato di quasi 20mila miliardi di euro nel 2024.
La garanzia per il debito del NGEU è data dal bilancio europeo. Per altro, una piccola parte di questi prestiti deve essere ripagata con risorse proprie (cioè sostanzialmente con le tasse, come quella sul carbonio). In linea di massima, è innegabile che il pacchetto (e il diminutivo indebolisce la portata storica della misura) contenga forti elementi di solidarietà reciproca; per esempio, un bel pezzo di denaro è consegnato ai paesi membri a fondo perduto: è un dono. In più, alcuni paesi si sono trasformati in beneficiari netti da contributori netti quali erano, come l’Italia.
E i Trattati? In effetti, l’emissione di così tanto debito è stata possibile ai sensi dell’articolo 122 di Lisbona che prevede, per l’appunto, i casi di emergenza. Il NGEU è difatti nato per assorbire gli shock della pandemia e per questo ha una durata limitata nel tempo. In più, è anche caratterizzato da una serie di condizioni importanti, a partire da dove debbano essere collocati i fondi: prevalentemente e giustamente alla transizione ecologia e digitale, oltre che alla coesione sociale.
Un’altra peculiarità degli eurobond emessi (si chiamano “EU-Bonds”, “EU-Bills” e “NextGenerationEU Green Bonds”) è che la maggior parte è a lunga scadenza: fino al 2058. Questo cosa significa? Significa che il rimborso del capitale è così lontano nel tempo che si spera gli investimenti diano i loro frutti. L’obiezione anche in questo caso è che ci sono paesi che stanno usando male i loro fondi, e tra questi c’è l’Italia: è in ritardo e ha speso meno di un terzo dei fondi PNRR. Rimandiamo su questo argomento alla piattaforma di monitoraggio del PNRR di Openpolis, OPENPNRR.
Il debito per la resilienza
Nel rapporto sulla competitività chiesto a Mario Draghi per l’Europa a fine 2024, si fa riferimento anche ai benefici di un debito comune europeo strutturale.
- In primo luogo, faciliterebbe la determinazione uniforme del prezzo delle obbligazioni societarie e dei derivati fornendo un benchmark chiave, […] rendendo i mercati più trasparenti […].
- In secondo luogo, fornirebbe una garanzia sicura utilizzabile in ogni Paese e in tutti i segmenti di mercato, nelle attività delle controparti centrali e negli scambi di liquidità interbancari, anche transfrontalieri.
- In terzo luogo, […] creerebbe un mercato ampio e liquido in grado di attrarre investitori globali, riducendo i costi del capitale […]. Costituirebbe inoltre la base delle riserve internazionali in euro detenute da altre banche centrali, rafforzando il ruolo dell’euro come valuta di riserva.
- In quarto luogo, offrirebbe a tutte le famiglie europee un’attività retail sicura e liquida accessibile a un prezzo comune, riducendo le asimmetrie informative e la propensione a investire nel mercato domestico […]. Un finanziamento congiunto di alcuni investimenti a livello UE è necessario per massimizzare la crescita della produttività e per finanziare altri beni pubblici europei.
La maggiore solidità e uniformità europee garantirebbero anche maggiore resilienza a futuri shock. Nel caso del Covid-19, dove la crisi era esterna al sistema economico (non come quella dei subprime del 2008 e quindi quella dei debiti sovrani del 2011), tanto il deficit quanto l’emissione di debito sono stati fondamentali per rispondere allo shock. O avremmo preferito tenere i conti pubblici a posto, ma restare senza mascherine e respiratori, e vari morti in più? La domanda è retorica.
Draghi fa riferimento esplicito a quali sono i settori che secondo lui dovrebbero ricevere finanziamento dal debito: clima, innovazione, difesa, spazio, educazione.
La stessa BCE ci ricorda quante debbano essere le risorse europee per fare la nostra parte di transizione ecologica: entro la fine del 2030 ci servono tra il 2,7% e il 3,7% del PIL europeo del 2023. «Un ritardo nella decarbonizzazione, in particolare a livello globale, farebbe aumentare ulteriormente i costi di transizione e adattamento». E scrive anche che il settore pubblico deve supportare gli investimenti privati nella transizione per ridurre costi e rischio per le imprese.
Il debito è anche percezione e comunicazione
Ma perché, dal punto di vista dei mercati, il debito comune europeo emesso dalla Commissione Europea è preferibile? Perché è considerato affidabile dalle agenzie di rating. Non che queste siano dispensatrici di valutazioni inattaccabili (nel 2008 proprio non ci azzeccarono), ma un’idea di massima la danno. Il rating dell’Unione è sempre più alto del rating dei singoli paesi.
Dopo che Draghi affermò nel 2012 che la BCE avrebbe fatto “whatever it takes” per salvare l’euro (“and believe me, it will be enough”), come noto, la singola frase contribuì non poco a stabilizzare i mercati. Ma oltre alle parole magiche, la BCE fece molto altro. Non si limitò solo ad abbassare a zero il tasso di interesse principale per circa otto anni, ma acquistò titoli di stato e obbligazioni private dal mercato secondario per quasi 2000 miliardi di euro (considerando anche quello per Covid): era il quantitative easing. Sia l’aumento artificiale di liquidità nel sistema economico, ma anche la sensazione di stabilità e sicurezza data dalla BCE, contribuirono piano piano a far ripartire l’economia.
Il ruolo della BCE, tra l’altro, può essere di rilievo anche per la percezione che i mercati avrebbero verso titoli comuni europei. Nel dibattito esiste la proposta che la BCE si faccia “prestatore di ultima istanza” per il debito comune europeo, garanzia che dovrebbe aumentare ancora di più la fiducia per chi acquista eurobond.
Stabilità, ma fino a un certo punto
Con il Covid-19, l’Europa ha deciso di sospendere temporaneamente il Patto di stabilità che chiede di rispettare due soglie di bilancio ai paesi membri: il 3% per il rapporto deficit/PIL e il 60% per il rapporto debito/PIL. In Italia la maggioranza che sosteneva il Governo Monti ha rafforzato le prescrizioni di obbligo di pareggio di bilancio in Costituzione, nel 2012, proprio con la convinzione che tagliare la spesa pubblica in periodo di crisi avrebbe risollevato l’economia.
Dice Mariana Mazzucato nel suo Il valore di tutto (trad. Laterza, 2018):
Ma questa fissazione sull’austerità per ridurre il debito tralascia un punto fondamentale: quello che importa è la crescita a lungo termine. […] E se i tagli provocano maggiori disuguaglianze – come l’Institute for Fiscal Studies ha dimostrato per le misure di austerità nel Regno Unito […] – i consumi possono crescere solo tramite i debiti, che servono per sostenere il potere d’acquisto.È importante capire che la politica economica non è una materia scientifica. Puoi imporre l’austerità e sperare che l’economia cresca, anche se tale politica la priva della domanda; o puoi concentrarti nell’investire in aree come la salute, la formazione, l’educazione, la ricerca e le infrastrutture con la convinzione che queste aree sono importanti per la crescita a lungo termine del PIL. Alla fine, la scelta politica dipende in larga misura dalla visione del ruolo dello stato nell’economia – è importante ai fini della creazione del valore, o è […] una cheerleader a bordo campo?
Ora il Patto è stato ripristinato, ma con alcune variazioni:
- se uno stato con disavanzi eccessivi sta facendo investimenti essenziali, sarà più difficile intervenire per la Commissione
- si dà più spazio di manovra per raggiungere gli obiettivi del proprio piano nazionale, «per qualsiasi motivo il Consiglio ritenga opportuno» invece che a condizioni specifiche
- un paese in difficoltà può richiedere una discussione con la Commissione
- vengono promossi investimenti in settori pubblici prioritari.
Enrico Giovannini (l’abbiamo recentemente intervistato) ha detto a Formiche che: «le regole prettamente contabili, quelle del vecchio Patto per intendersi, sono state superate, per far spazio a regole che sono allo stesso tempo continuità metodologica e rottura con il passato». E anche: «Non è vero che le riforme costano, perché sono investimenti. E anche qui il nuovo Patto fa un salto di qualità, perché non ti chiede quanto costa una riforma, ma che investimenti fai. La differenza c’è ed è sostanziale. Questo è un cambio di mentalità che è nel Patto ma che noi, in Italia, dobbiamo ancora comprendere».
Sembra quindi che un po’ abbiamo imparato dal Covid-19, anche se ancora, per l’appunto, non esiste un’emissione di debito comunitario strutturale e garantito congiuntamente. Si è fatto un piccolo passo: prima di raggiungere una solidarietà economia piena serve ben altro.
Non solo armamenti
La proposta di raccogliere 800 miliardi per la difesa europea con il piano ReArm Europe – tanti soldi quanti il dispositivo per la ripresa e la resilienza del NGEU, tra l’altro – è rilevante proprio perché vuole attivare la clausola del Patto di Stabilità che sospende gli obblighi sul deficit e sul debito. In più, 150 di questi miliardi si dovrebbero raccogliere dall’emissione di debito comune (ricordiamo che esiste un dibatto sull’uso di eurobond anche per la difesa).
Anche la Banca Europea per gli Investimenti, già da un anno, ha modificato il proprio mandato statutario (che escludeva spese per la difesa) per mobilitare investimenti nel settore militare.
Per folclore, segnaliamo l’ingarbugliata opinione dell’agenzia di rating Fitch, che sostiene allo stesso tempo che un eccessivo indebitamento per il riarmo potrebbe far declassare il rating dell’Europa, ma solo se ci fosse un declassamento degli stati valutati AAA, e comunque questo impegno congiunto di mostrarsi “uniti” alla fine sarebbe anche ben visto dai mercati.
All’inizio dell’articolo abbiamo scritto che il denaro è sostanzialmente attribuzione di valore, diversamente dalle grandezze fisiche. Concretamente, un litro di latte è sempre un litro in qualsiasi parte del mondo, ma il costo di un litro di latte varia, e questo perché lungo la catena di produzione gli si attribuisce per l’appunto un valore diverso (per i motivi più o meno disparati).
Non stiamo qui a discutere se sia giusto o sbagliato fare debito per il settore militare, forse dal punto di vista della deterrenza può anche avere un senso. Ma allora, perché non lo si fa anche per finanziare la transizione ecologica, la ricerca scientifica e il welfare – il che avrebbe benefici sociali molto ampi e duraturi – visto che lo si propone da anni? Non si può invocare la mancanza di copertura economica, visto che parliamo di debito pubblico. È evidentemente una questione di volontà politica. Perché per finanziare la difesa basta uno schiocco di dita? Anche in questo caso, come per il litro di latte, si tratta di attribuzione di valore. E nello specifico, del valore che decidiamo di assegnare alle nostre priorità.