Lo scorso mese di marzo un gruppo di ricercatori
tedeschi ha pubblicato sulla rivista Genes
Genomes Genetics la sequenza completa del Dna ricavato dalla linea
cellulare HeLa, una linea modello a sua volta ricavata da cellule prelevate a Henrietta
Lacks, una donna americana nata nel 1920 e morta ad appena 31 anni, nel 1951.
Lo
scorso 8 agosto la rivista Nature ha
pubblicato una sequenza completa del genoma di una cellula cancerosa derivata
dalla linea HeLa.Sul
medesimo numero Nature ha pubblicato
una lettera di Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health
(NIH) degli Stati Uniti, e di Kathy Hudson, vice direttore per la scienza, le
ricadute sociali e la politica degli NIH, che annunciavano, a loro volta, di
aver raggiunto un accordo con la famiglia di Henrietta Lacks per un «accesso
controllato» ai dati genetici ricavati dallo studio della linea HeLa. Una
commissione, di cui fanno parte anche due membri della famiglia Lacks, darà
d’ora in poi il proprio parere alla richiesta degli studiosi di accedere ai
dati in possesso degli NIH.
È
evidente che tra marzo e agosto due diritti legittimi della moderna
cittadinanza scientifica sono entrati in collisione: il diritto alla «privacy
genetica» e l’«open data», il diritto dei ricercatori e di tutti noi ad
accedere a tutti i dati scientifici.
Associare
una sequenza genetica a un nome ha violato il diritto della famiglia di
Henrietta Lacks a tenere segreti i dati relativi al proprio Dna. Perché quei
dati potrebbero apportare danni ai membri della famiglia: perché la mette a
rischio di discriminazioni sul lavoro o nella società. Potrebbe essere più difficoltoso
trovare partner e così via. Non c’è dubbio che la famiglia allargata di
Henrietta aveva e ha un sacrosanto diritto alla privacy.
Ma,
d’altro canto, come rileva in un editoriale commento sempre su Nature l’inglese Martin
Bobrow, che presiede l’Expert Advisory Group on Data Access, un comitato
indipendente che promuove l’accesso libero ai dati scientifici, e come
riconosce, sul sito degli NIH lo stesso Francis Collins, non meno rilevante è
il diritto della comunità scientifica e di tutti i cittadini a poter accedere in
piena libertà e trasparenza a tutti i dati scientifici. Tanto più che l’«open
data» in biomedicina potrebbe portare a un nuovo salto di qualità nella
conoscenza e nella cura delle malattie.
Il
conflitto è apparente, si potrebbe dire. Basta pubblicare i dati genetici senza
associarli al nome di una persona. Il guaio è che oggi, con le moderne
tecnologie informatiche, chiunque può facilmente dare un nome a un profilo
genetico. Nella fattispecie, se anche il gruppo tedesco non avesse fatto
riferimento alla linea cellulare HeLa, qualsiasi buon biologo sarebbe
immediatamente risalito alle cellule derivate da Henrietta Lacks.
Siamo dunque di fronte a un problema irrisolvibile? O meglio, per risolvere il problema occorre sacrificare uno dei due diritti legittimi, come hanno fatto, sia pure in parte, gli NIH?
Nessuno sa rispondere a queste domande inedite. O, almeno, nessuno finora ha dato una risposta capace di convincere. Lo stesso Martin Bobrow ha chiesto ai lettori di Nature di intervenire nella discussione e di dare il proprio contributo di idee. Noi estendiamo l’invito ai partecipanti al prossimo convegno internazionale sullo Scientific data sharing che si terrà tra pochi giorni ad Anagni e a tutti i lettori di Scienzainrete. Potrebbe essere un buon esempio di governo partecipato della scienza.