fbpx Disparità di genere nelle università italiane: c'è ancora molto da fare | Scienza in rete

Disparità di genere nelle università italiane: c'è ancora molto da fare

Primary tabs

Credit: Humusak / Pixabay. Licenza: Pixabay License.

Tempo di lettura: 9 mins

Il Consiglio Universitario Nazionale ha pubblicato il 17 dicembre scorso un rapporto che mette in evidenza la disparità esistente nell'università italiana tra uomini e donne, in particolare nei gradi più alti della carriera accademica. La situazione non sembra essere migliorata nei dieci anni tra il 2008 e il 2018 e il divario è particolarmente grave nelle discipline dell'area STEM (science, technology, engineering and mathematics), ma anche in medicina, giurisprudenza ed economia, dove si osserva una sostanziale parità nei ruoli iniziali (e precari) di carriera che non si conserva nelle posizioni più avanzate, quelle dei professori associati e ordinari.

Per avere un'idea della situazione, ecco qualche numero1. Nel complesso la percentuale di donne tra i professori ordinari in Italia registrata nel 2018 è del 24% (nel 2008 era del 19%), tra i professori associati del 39% (nel 2008 era del 34%), tra gli RTDb del 42% (questo ruolo è stato introdotto dalla riforma Gelmini del 2010 e dunque non esisteva nel 2008), tra gli assegnisti del 51% (percentuale più o meno invariata rispetto a dieci anni prima).

Gli ostacoli che le donne incontrano nell'accesso alla carriera universitaria si riflettono poi in tutti gli organi di governo delle università. Basta dare un'occhiata, per esempio, al bilancio di genere della Sapienza di Roma per l'anno 2018 per rendersene conto. Dei 59 direttori di dipartimento solo 17 erano donne, mentre dei 12 presidi di facoltà solo due erano donne. Per fare un altro esempio, all'Università di Bologna nel 2019 solo il 16% dei direttori di dipartimento erano donne, e solo il 18% dei presidi di facoltà erano donne.

Questi dati devono essere letti insieme a quelli che riguardano i laureati in Italia, che in maggioranza sono donne (57% nel 2018 e 59% nel 2008), e i voti medi di laurea, che sono più alti per le donne. Nel percorso che dalle lauree conduce alla professione accademica le donne incontrano una serie di ostacoli, che sono in gran parte comuni al resto del mondo del lavoro. Primo fra tutti il peso del lavoro di cura della famiglia, che ricade in maniera sproporzionata sulle loro spalle, complice l'assenza di politiche di welfare che lo riequilibrino intervenendo, ad esempio, sui congedi parentali per i padri e sulla disponibilità e accessibilità degli asili nido. L'assenza di queste politiche ha prodotto effetti particolarmente dannosi durante la pandemia, come ormai diverse indagini hanno confermato, sia dentro che fuori dalle università. Ma il percorso universitario è caratterizzato da due fattori aggravanti.

Da una parte la forte competizione per l'esiguo numero di posti disponibili nel campo della ricerca nel nostro Paese, che costringe chi decide di provarci e non va all'estero a cercar fortuna (per poi rimanerci!) a un lungo periodo di precarietà. L'età media dell'ingresso nel primo ruolo stabile, quello di RTDb ovvero la posizione dei ricercatori che a meno di inadempimenti vengono promossi entro tre anni a professori associati, è di 40-41 anni nel nostro Paese. «Riteniamo che la disparità riscontrata nel ruolo di RTDb sia la più preoccupante», commenta Alessandra Filabozzi, ricercatrice del Dipartimento di Fisica dell'Università Tor Vergata di Roma e componente della commissione del CUN che si è occupata di redigere il dossier sul genere.

Il secondo fattore aggravante, anche se non esclusivo del mondo della ricerca, è di natura culturale. Aree come quelle della fisica, della matematica e dell'ingegneria vedono percentuali imbarazzanti nei gradi di carriera più avanzati. Nel 2018 solo il 13% degli ordinari in fisica erano donne (in miglioramento rispetto all'8% del 2008), mentre tra assegnisti e ricercatori questa percentuale è di circa il 30%. In questa area, e in modo simile in matematica, la disparità c'è già tra i laureati (solo il 34% di donne nel 2018, in diminuzione rispetto al 39% del 2008) a testimonianza del fatto che ancora nel nostro Paese le ragazze faticano a scegliere questi settori. Questa dinamica è ancora più accentuata nel campo dell'ingegneria, in particolare industriale e dell'informazione.

Chiaramente la scarsa rappresentanza di donne che le studenti incontrano dietro la cattedra durante il loro percorso universitario non fa che rafforzare questa convinzione, innescando un circolo vizioso.

La situazione è un po' diversa nell'area medica, in cui la percentuale di donne laureate in medicina è del 54%, c'è una marcata maggioranza di donne nel ruolo di assegniste di ricerca (pari al 74% e sostanzialmente invariata dal 2008), ma tra i professori associati solo il 30% sono donne e tra gli ordinari solo il 18%.

Ma cosa può fare l'Università per cambiare le cose? Il punto di partenza sembra essere la conoscenza dell'entità del problema all'interno dei singoli atenei, attraverso la redazione di un bilancio di genere. È quanto incoraggia a fare la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane in questo documento del 2019. Questa pratica sembra infatti essere ancora poco diffusa nel nostro Paese, basti pensare che l'Università Statale di Milano ha pubblicato il suo primo bilancio nel 2020. Chiaramente è il primo passo, ma non è sufficiente e anzi rischia di rimanere un fatto esclusivamente formale che scarica gli organi di governo delle Università dalla responsabilità di provare a cambiare davvero le cose.

Un passo in più è quello di dotarsi di un piano per l'uguaglianza di genere che delinei una serie di azioni concrete per ridurre le disparità evidenziate dal bilancio. In Italia, per quello che ci risulta, solo l'Università di Bologna e l'Università di Cagliari ne hanno uno. Il primo ateneo a farlo è stato quello bolognese grazie al progetto europeo PLOTINA, coordinato da Tullia Gallina Toschi, professoressa ordinaria ed esperta di analisi sensoriali e strumentali degli alimenti. «Normalmente questa attività sarebbe delegata ai Comitati Unici di Garanzia delle università, ma il loro finanziamento è esiguo e inadeguato a promuovere una riflessione seria sulla questione e delle soluzioni concrete. In più il loro ruolo è poco riconosciuto all'interno degli atenei», spiega Gallina Toschi e prosegue «questo mi ha spinto a competere a livello europeo all'interno della call Gender Equality in Research and Innovation del programma quadro Horizon 2020, per ottenere un finanziamento consistente e la riconoscibilità internazionale». L'Università di Bologna ha infatti creato una rete di lavoro con altre università europee nell'ambito del progetto PLOTINA e questo ha rafforzato la sua azione.

Uno dei primi risultati del piano di uguaglianza di genere dell'Università di Bologna è stato quello di riformare il linguaggio di tutte le comunicazioni istituzionali dell'ateneo. Se visitate le pagine web dei docenti dell'ateneo bolognese, noterete infatti che le donne sono correttamente definite professoresse, diversamente da quanto accade nella quasi totalità degli altri atenei italiani, per esempio alla Statale di Milano, che definisce la sua pro-rettrice vicaria Maria Pia Abbracchio "professore ordinario" presso il dipartimento di Scienze Farmaceutiche. «Il cambio culturale generato dalla riforma del linguaggio è fortissimo», commenta Gallina Toschi, «ed è per questo che quella sulla lingua è una battaglia che vale la pena portare avanti con impegno. Questo è vero in generale, ma in particolare all'interno dell'Università che dovrebbe essere un presidio culturale del Paese». Pare che questo cambiamento abbia incontrato delle resistenze da parte dei docenti dell'ateneo, sia uomini che donne. Sul linguaggio è intervenuta anche l'Università di Trento, che ha adottato delle linee guida per un linguaggio rispettoso delle differenze.

La seconda categoria di azioni contenute nel piano dell'università di Bologna riguarda la promozione di processi che tengano in considerazione il genere nella selezione dei ricercatori e delle ricercatrici, come ad esempio conteggiare i periodi di assenza dal lavoro per maternità e paternità nella valutazione della produttività scientifica. Il terzo ambito di intervento suggerito dal piano è quello dell'equilibrio vita lavoro. Le azioni che rientrano in questo ambito vanno dalla promozione di una migliore organizzazione del tempo di lavoro, ad esempio fissare riunioni e incontri in orari che tengano conto delle necessità familiari, fino alla creazione di servizi di welfare interni, ad esempio mettere a disposizione educatori che si prendano cura dei bambini durante le conferenze accademiche. Le altre aree di intervento riguardano la considerazione delle variabili di genere nelle attività di ricerca, didattica e formazione. «Ciascuna delle azioni proposte dal piano individua un referente e un metodo di valutazione del suo stato di avanzamento», dichiara Gallina Toschi, «questo è fondamentale perché nessun cambiamento è possibile senza supporto politico. A Bologna il piano è stato adottato nel 2017 e cominciano a vedersi i primi risultati: è aumentato il numero delle donne associate». A seguire l'esempio di Bologna c'è l'Università di Cagliari, che è capofila del progetto europeo Supera dal settembre 2020.

L'adozione di un piano di uguaglianza di genere è valso all'Università di Bologna il quarto posto nel gender equality ranking di Times Higher Education. I ranking possono essere un elemento importante nella battaglia per la riduzione della disparità di genere anche secondo il CUN, che nel suo documento di commento ai dati pubblicati a dicembre suggerisce di destinare una parte del fondo premiale del Ministero dell'Università e della Ricerca sulla base degli obiettivi ottenuti in questo ambito da ciascun ateneo.

Un aspetto che il progetto Supera dell'Università di Cagliari terrà in considerazione è quello legato alle molestie sessuali. Come ha documentato il Corriere della Sera in questa inchiesta, in molte università italiane manca la figura deputata a raccogliere le segnalazioni e tutelare le vittime di molestie. Anche se non esistono dati ufficiali, è un fatto largamente condiviso che le dottorande siano le vittime più frequenti, perché hanno un rapporto molto stretto con il docente di riferimento da cui dipende spesso il loro futuro nella ricerca e perché spesso faticano a riconoscere di essere oggetto di comportamenti scorretti in una dinamica che somiglia a quella delle violenze domestiche.

Negli Stati Uniti il movimento #MeeToo ha avuto un ruolo importante anche nel mondo accademico con la testimonianza, fra le altre, di Celeste Kidd contro Florian Jaeger, conclusasi con un risarcimento di 9,4 milioni di dollari da parte dell'Università di Rochester. La National Science Foundation lo scorso anno ha modificato il suo statuto per poter espellere i componenti che fossero trovati responsabili di molestie sessuali e in generale di comportamenti scorretti. Eppure finora, 16 mesi dopo, non è arrivata nessuna segnalazione e nessuno è stato espulso. In Italia questa riflessione è stata molto più marginale e le testimonianze sono state poche. Tra queste ha avuto molta visibilità la denuncia dell'immunologa Antonella Viola, pubblicata quando a giugno il comitato scientifico dell'Istituto Veneto di Medicina Molecolare si era dimesso per ostacolare l'assunzione di Pier Paolo Pandolfi, genetista di fama mondiale che si era dimesso da Harvard a dicembre 2019 dopo essere stato accusato di condotta scorretta e molestie sessuali nei confronti di una ricercatrice postdoc. Viola ha raccontato di essere stata oggetto delle attenzioni indesiderate del capo del suo laboratorio quando era una giovane ricercatrice e di essere stata costretta a ricominciare altrove per salvare la sua carriera scientifica. Non è facile e poche donne riescono a farlo «e molte carriere finiscono proprio così» ha chiosato Viola.

Note

1Per "Ricercatori" si intende i ricercatori a tempo indeterminato, ruolo ora messo a esaurimento.
Dati Scienze matematiche e informatiche Area CUN 01
Dati Scienze fisiche Area CUN 02
Dati Scienze chimiche Area CUN 03
Dati Scienze della Terra Area CUN 04
Dati Scienze biologiche Area CUN 05
Dati Scienze mediche Area CUN 06
Dati Scienze agrarie e veterinarie Area CUN 07
Dati Ingegneria civile ed Architettura Area CUN 08
Dati Ingegneria industriale e dell'informazione Area CUN 09
Dati Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche Area CUN 10
Dati Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area CUN 11
Dati Scienze giuridiche Area CUN 12
Dati Scienze economiche e statistiche Area CUN 13
Dati Scienze politiche e sociali Area CUN 14

Per ricevere questo contenuto in anteprima ogni settimana insieme a sei consigli di lettura iscriviti alla newsletter di Scienza in rete curata da Chiara Sabelli (ecco il link per l'iscrizione). Trovi qui il testo completo di questa settimana. Buona lettura, e buon fine settimana!


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.