Quanto siamo “adatti” a capire il mondo che ci circonda? Per nostra natura abbiamo familiarità con dimensioni, masse, tempi e più in generale grandezze e concetti che fanno parte della nostra quotidianità o di cui abbiamo comunque avuto modo di fare esperienza diretta. Che si collocano, quindi, in un intervallo relativamente ristretto, caratteristico della nostra vita, rispetto ai valori che queste grandezze possono assumere.
Dai grammi alle tonnellate, dalle frazioni di secondo ai secoli, dal decimo di millimetro alle migliaia di chilometri, non abbiamo difficoltà a farci un’idea immediata di queste grandezze così come sappiamo valutare facilmente cosa voglia dire andare a 800 km/h o affermare che la densità dell’acqua è di 1 (in g/cm 3) mentre quella del piombo è oltre dieci volte maggiore. Quello che percepiamo con i nostri sensi lo riusciamo più facilmente a capire e proprio per questo cerchiamo di ricondurre all’esperienza diretta, a situazioni famigliari – anche attraverso analogie – quanto invece non rientra in un modello riconosciuto.
Nel tempo abbiamo di molto allargato l’intervallo di grandezze con cui abbiamo avuto modo di familiarizzare, spesso grazie all’ausilio di nuovi strumenti. I microscopi, sempre più potenti, ci hanno mostrato per esempio le immagini di microbi e virus, grandi frazioni di micron (milionesimi di metro); i razzi e lo Space Shuttle ci hanno permesso di viaggiare a velocità dell’ordine delle decine di migliaia di km/h, e di compiere viaggi di quasi un milione di km: Terra-Luna, andata e ritorno.
Tuttavia la scienza ci mette continuamente a contatto con grandezze e ci racconta di situazioni che sfuggono alla nostra intuizione. Quando guardiamo la fotografia, scattata dal telescopio Hubble, di una lontana galassia, distante 10 miliardi di anni luce, riusciamo veramente a capacitarci di questa distanza? Di cosa vuol dire viaggiare per 10 miliardi di anni alla velocità della luce? O ancora, quando leggiamo che nel periodo compreso tra 10-37 e 10-32 secondi dal Big Bang l’Universo ha aumentato le sue dimensioni di 1050 volte, capiamo cosa vuol dire? Io no! Ma anche senza doverci confrontare con casi così estremi, non riusciamo facilmente a immaginare neppure la “realtà” di un atomo e per capirlo e spiegarlo lo riconduciamo alla semplificazione di un sistema planetario con elettroni che ruotano intorno al nucleo come i pianeti intorno al Sole. Riconduciamo così alla meccanica classica (quella della nostra vita quotidiana) quella fisica quantistica che ha rappresentato uno sconvolgimento culturale enorme nella nostra comprensione del mondo e che è certamente tutt’altro che intuitiva.
Come facciamo dunque a “capire” quello che non riusciamo a comprendere? Come possiamo sviluppare teorie che contemplano dieci o più dimensioni quando non riusciamo nemmeno a immaginare la quinta (assumendo di aver digerito la quarta, quella temporale)? Come possiamo descrivere il comportamento della materia mentre viene inghiottita da un buco nero o le interazioni tra i quark all’interno di un protone, o cosa succede sulla superficie di una stella di neutroni? Certamente non possiamo fare affidamento su intuizione e concetti famigliari per raffigurarci queste grandezze e questi fenomeni. Possiamo però usare la matematica. La matematica progredisce con le nostre necessità, è uno strumento che raffiniamo continuamente per soddisfare il bisogno crescente di descrivere situazioni sempre più complesse o elaborate, di risolvere problemi. È una preziosa cassetta degli attrezzi cui aggiungiamo continuamente nuovi strumenti. Una volta c’erano solo i cosiddetti numeri naturali, poi abbiamo aggiunto quelli razionali e poi i reali, i complessi e così via. Sono seguiti vettori, e tensori, equazioni differenziali e calcolo infinitesimale, frattali e altro ancora.
Abbiamo imparato a utilizzare tutti questi strumenti e a crearne continuamente di nuovi proprio per estendere la nostra capacità di descrivere il mondo che ci circonda e che, man mano che lo studiamo, si rivela sempre più complesso.
La matematica è diventata, nel secolo scorso – quello della meccanica quantistica e della relatività generale – il miglior strumento che abbiamo a disposizione per descrivere il mondo, liberandoci da molti dei nostri limiti e permettendoci le necessarie astrazioni. Ma Galileo già lo diceva nel Saggiatore quando, riferendosi all’Universo, scriveva: “… ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, e altre fi gure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.
Pubblicato su Le Stelle 94, 2011