Nel 2015 ci sono ancora attività fondamentali della vita della cellula, conservate attraverso tutta l’evoluzione, di cui sappiamo poco. È il caso dell’autofagia, un meccanismo omeostatico che si serve dei lisosomi per degradare e riciclare il materiale cellulare, le proteine, gli organelli invecchiati. Interpretato al momento della sua scoperta come banale epifenomeno della morte cellulare, si è rivelato, nel corso degli anni, un’inesauribile fonte di sorprese. Indotto nella cellula dal digiuno, si candida, così come l’epigenetica, a fare da anello di congiunzione tra gli stili di vita e i loro effetti sulla longevità e la salute, e anche per questo è oggi oggetto di un crescente interesse da parte dei ricercatori.
Il primo Congresso europeo dell’European Molecular Biology Organization (EMBO) interamente dedicato a questo tema che si è tenuto a settembre a Chia, in Sardegna, lo ha confermato: sotto il titolo Autophagy signalling and progression in health and disease, esperti provenienti da tutto il mondo e da diverse discipline hanno mostrato come l’autofagia possa essere implicata nella genesi, e in prospettiva forse anche nel trattamento, di moltissime diverse malattie, dall’Alzheimer al cancro, dall’aterosclerosi ai disturbi mentali fino ad arrivare alla possibile prevenzione dei danni cardiaci provocati da alcuni farmaci antineoplastici.
La cellula è ancora un territorio inesplorato
Ai ricercatori può sembrare strano, ma chi vive e lavora
fuori da un laboratorio spesso pensa che oramai la vita della cellula non abbia
più segreti, che sia rimasto ormai davvero poco da scoprire. Difficile credere
che esistano centinaia di circuiti e meccanismi molecolari che ancora oggi
rappresentano territori inesplorati, tutti da capire, capaci continuamente di
sorprendere. La ricerca biologica è spesso pensata solo nella fase
immediatamente precedente alla scoperta di nuovi farmaci, per le malattie che
ancora non hanno trovato una cura. La semplice curiosità di scoprirne i
meccanismi più fini, la sottile, intricata rete di interazioni molecolari che
la guida, sembra un lusso che non ci si può più permettere.
Questa idea ha un fortissimo impatto pratico, prima di tutto sull’assegnazione
dei fondi, che spesso sono condizionati da una prospettiva clinica a breve
termine. In altre parole, le risorse vanno più facilmente alla cosiddetta
ricerca traslazionale, a chi cioè sia in grado di dimostrare le possibili, o
probabili, ricadute del proprio lavoro sulla cura di qualche malattia. La
stessa logica guida chi si oppone alla sperimentazione animale, e ragiona spesso
come se la ricerca riguardasse solo la verifica dell’efficacia o della
tossicità di un farmaco.
Ma la ricerca è molto di più, e ragionando in questo modo si rischia di
tagliarle le ali. Le molecole che arrivano a essere valutate come potenziali
farmaci, infatti, sono la punta di un iceberg a cui non si può arrivare senza un
enorme lavoro sommerso, che per lo più avviene ponendosi domande che apparentemente
nulla hanno a che fare con le malattie dell’uomo.
Un’osservazione casuale, un meccanismo fondamentale
«È stato così per la scoperta dell’autofagia» racconta Francesco Cecconi, professore di Biologia dello Sviluppo all’Università di Roma Tor Vergata e responsabile di un laboratorio presso il Centro Danese per la Ricerca sul Cancro a Copenhagen, che ha organizzato il congresso nell’ambito delle EMBO Conferences. «In primis, molti anni fa, fu descritta da Rick Lockshin ed Erick Baerecke come un fenomeno legato allo sviluppo delle ghiandole salivari degli insetti. Poi i geni responsabili della sua regolazione furono identificati da Yoshinori Ohsumi nel lievito di birra, un organismo unicellulare che ha fatto da modello per la scoperta di molti altri processi cellulari fondamentali, dalla riparazione del DNA (per cui quest’anno è stato assegnato il premio Nobel per la Chimica a Thomas Lindhal) all’epigenetica. Solo recentemente il nostro e altri laboratori hanno riconosciuto il suo ruolo nell’uomo e la sua associazione a diverse condizioni patologiche, dai tumori alle neurodegenerazioni.»
Mille possibili applicazioni, ancora tutte da studiare
Ma l’autofagia fa bene o fa male? Nell’ambito di alcuni
gruppi di malattie, come quelle neurodegenerative, probabilmente fa soprattutto
bene, perché ripulisce le cellule dal materiale di scarto che accumulandosi le
danneggia. Nel cancro, invece, il suo ruolo è più ambiguo, e ancora da
chiarire. Quel che
colpisce però è che, qualunque malattia si vada a studiare, vi si ritrova
un’autofagia aumentata, o più spesso ridotta, rispetto alle cellule di una
persona sana.
Tra i lavori presentati a Chia molti erano dedicati al cancro. Ricercatori
di tutto il mondo stanno cercando di sfruttare le anomalie riscontrate in
questa attività nelle cellule neoplastiche per trovare un chiavistello capace
di vincere le difese di tumori ancora poco curabili, come quello del pancreas,
il gliobastoma o il mesotelioma.
Ma l’autofagia è fondamentale anche nella risposta alle infezioni più
comuni e nell’insorgenza di malattie autoimmuni. Se ne sta indagando il ruolo
perfino in disturbi mentali, come la depressione. E in tutto questo vastissimo
panorama emerge la ricerca sulle malattie genetiche ereditarie rare, che rappresentano
modelli di studio da cui ottenere informazioni preziose da estendere a
condizioni più diffuse.
La vastità e l’eterogeneità delle patologie coinvolte fa però sorgere un
dubbio. Dal momento che l’autofagia è anche una reazione della cellula allo
stress, non potrebbe essere una semplice conseguenza della sua sofferenza, un
segno che c’è una malattia, da qualunque cosa sia provocata? «No, perché il
meccanismo è regolato in maniera molto fine, a diversi livelli» risponde
Cecconi. «Per questo, anche nella prospettiva di poterla sfruttare ai fini
terapeutici, non si deve puntare ad aumentarla o inibirla indiscriminatamente,
ma bisogna trovare il modo di modulare più delicatamente alcuni fra le centinaia
di fattori alterati nelle diverse situazioni patologiche».